Said the Joker to the Thief

Lorenzo Ceccherini | Il bassista non se lo incula nessuno |

Il tema di febbraio – sempre che quando non-leggerete questo pezzo saremo ancora a febbraio – sembra(va) fatto apposta per stuzzicare di prepotenza tutti gli apparati polemici dell’autore, come uno starnuto in un palazzetto dello sport riempito di rullanti con le cordiere ben tirate. «Buffone di corte» richiama, in un colpo solo, l’istituzionalizzazione dell’intrattenimento, la codifica castrante della creatività in mestieri e corporazioni, questa morte mai completamente avvenuta dell’Ancien Régime, la denuncia sardonica e spudorata della sostanziale disuguaglianza degli esseri umani, l’assillo inevitabile degli stereotipi e, ultimo ma mai ultimo, quel retrogusto metallico e amaro di una logica del potere che schiaccia sempre tutto e tutti.

Che anche senza porci troppa attenzione, lo si vede bene che è tutto materiale che non fa ridere neanche un po’, nemmeno per sbaglio. Ma com’è che si arriverebbe a questo antipodo così radicale? Nel mio approccio ancora enciclopedico al web mi sono imbattuto in una citazione di Deleuze, da Nietzsche e la Filosofia, nella quale ci viene detto che la filosofia non può far altro che turbare e rattristare, nella sua missione di antidoto alla stupidità e alle bassezze. Posto che mi sembra ovvio che non vi siano alternative, e posto anche che non basta mettersi il distintivo «filosofo» per affrancarsi da stupidità e bassezze (cara grazia se i di esse portatori se ne rendessero conto…), ci metto comunque molto poco a mettere in connessione l’archetipo del buffone di corte con una missione filosofica. Destinata a fallire, a schiantarsi miseramente nel vicolo cieco della subordinazione alla corona o al feudo.

Il buffone di corte è mercuriale oltre misura, appare scontato e plebeo ma i portati antropologici che lo sostanziano sono molteplici e potenti. Si diceva del potere: l’eccezionalismo del buffone, la dispensa che gli viene riconosciuta, è una affermazione di arbitrio assoluto da parte del potere medesimo – a questo individuo viene concesso di dire facezie e cose oltraggiose, anche contro il sovrano, impunemente, quando le stesse parole e gli stessi gesti profferiti e agiti da chicchessia di altro porterebbero inevitabilmente al patibolo. Una concessione capricciosa, tipicamente offerta a un altrimenti reietto, nano, storpio, quanto meno strambo. Come a dire «lui no» e «perché sì, perché lo dico io». In questo senso il buffone dichiara una sovranità del principe che va oltre le determinanti dell’organizzazione del gruppo sociale in forme gerarchiche: quello più in alto di tutti fa come cazzo gli pare e tutti devono stare muti. Sniffando dentro alle organizzazioni aziendali di oggidì mi sembra di sentire sempre la stessa puzza stantia di questo apparentemente immortale Führerprinzip, più che percepire una evoluzione del concetto di leadership che nei fatti sembra abitare solo più sulla Harvard Business Review o su McKinsey Quarterly che altrove.

Certo, la concessione della licenza buffonesca al buffone potrebbe testimoniare il riconoscimento di una caducità e fallibilità della dimensione regale, per quanto sacralizzata. Il buffone come souvenir della limitatezza umana – i saggi sul tema sono pieni di aneddoti di sferzanti battute di buffoni medievali e rinascimentali che stigmatizzavano le pochezze del sovrano di turno. Però siamo probabilmente su una traiettoria che va da una maggiore pienezza e organizzazione narrativa del mondo greco e romano (e antico in generale), nei quali il richiamo alla artificiosità dell’ordine sociale era veicolato da occasioni come i Saturnali che irridevano, in una cornice istituzionalizzata, gli equilibri gerarchici della società, restando però più prossimi a rituali e tradizioni che trattavano assai spesso del dualismo tra mondo dei vivi e mondo dei morti, a un melange ancora più caotico tra superstizione, mitografia e cristianesimo. Il mundus inversus delle iconografie medievali si profonde in parecchie lepri che diventano cacciatrici, pesci che volano, animali da carne che sezionano umani, e la connessione neanche tanto implicita col mondo ctonio che permeava i rituali del mondo classico si trasforma in paura del sovvertimento di un ordine che si presupporrebbe naturale. Paura, ma anche desiderio, almeno quello di qualcuno – tra il mondo alla rovescia e le utopie rivoluzionarie ci vedo una cuginanza abbastanza stretta.

La macelleria al contrario, da un volume a stampa olandese del XVII secolo

Fast forward a oggi e la primissima cosa che mi salta agli occhi è che il buffone di corte, evitando, del tutto correttamente, di considerare gli scemi del villaggio come facenti parte della categoria, sembra essere scomparso. E non ci sarebbe da sorprendersi perché il buffone di corte (il court jester, il fou du roi, l’Hofnarr) per essere tale ha bisogno come habitat di una corte che sia veramente sovrana – quindi non valgono le moderne monarchie costituzionali europee, l’avanzata democratica ha provveduto a sciogliere in un solvente apparentemente illuministico quei retaggi atavici. Le assemblee parlamentari rendono i buffoni di corte cosa privata. Peccato che, forse, come checks and balances, mi vien fatto di pensare che i buffoni di corte avessero una loro efficacia. Oggi, attraverso il loophole più clamoroso e inevitabile della democrazia, personaggi indicibilmente grotteschi hanno occupato non solo le sedi del potere, ma il potere stesso – la cosa più prosaica e allo stesso tempo mistica che si possa immaginare: se la sovranità appartiene ai popoli e questi la esercitano e manifestano in primo luogo col voto, è stato tutto sommato semplice convincerli a votare attuando una perversa (ma del tutto meritata) nuova sovversione. Il trucco è stato accusare gli stessi presupposti strutturali che mettono un pavimento sotto all’esercizio democratico – e attenzione che uso questo termine riferendomi alla sua portata nominale, soprattutto oggi che il demos viene trattato sempre di più come una massa di utili idioti. Se volessimo cavarcela rapidamente sarebbe da dire che gli estensori di tale trattamento sono a loro volta degli idioti, ma sarebbe un filo sbrigativo e parecchio grossolano, ancorché non esattamente una falsità. Continuando a scuotere il triccheballacche di questo ragionamento sempre rigorosamente cialtronesco e privo di qualsivoglia certificazione o accreditamento, si potrebbe stuzzicare l’idea che in questa epoca i «tiranni democratici» e certi plutocrati siano ormai diventati i buffoni di sé stessi e che questo sia avvenuto un po’ per mera protervia e scadenti manie di protagonismo, ma anche, e forse soprattuttissimo, perché incorporare voce esterna, e quindi potenzialmente pericolosa, consente di mantenere il controllo mostrandosi però aperti alla critica e quindi ossequiosi rispetto a poteri immaginati come più alti – umani o divini che siano. Come dire che siamo passati da sovrani che si tengono il buffone per fare quattro risate mentre quello ricorda loro i limiti, di nuovo umani e divini, a cui devono sottostare, a neo-sovrani en travesti che perculano il demos ricordando a quest’ultimo limiti e pochezze dai quali i primi potranno salvarli o emendarli, ovviamente solo e se sarà fedele e si impegnerà, sia ad avallare qualunque stupro all’ordine costituito (che pure è il medium e l’abilitatore primo che ha reso possibile la scalata al potere), sia a sconfiggere, reprimere, schiacciare una o più tipologie di nemici.

C’è sempre un sacco di lavoro, per l’antropologia, la sociologia, la psicologia clinica e altre discipline che potrebbero provare a dare sistematicità scientifica allo studio di questi fenomeni. Il problema è che poi i frutti non arrivano alla gente, il distillato demotico spesso impoverisce e appiattisce, talvolta perverte pure – ma deve essere una preferenza del grande pubblico, c’è poco da fare. Si parlava poco fa del diktat dei novelli bonaparte ad andare contro il costituito: credo che mai richiamo abbia avuto più successo in epoca contemporanea. Tutto, non solo i vaccini, le scie di condensazione degli aerei, le reti di comunicazione che rendono possibile la comunicazione (tra deficienti inclusi), tutto è diventato il nemico da ribaltare, contro cui associarsi e fare le barricate, si badi bene però, solo a parole. Alla maggior parte di noi non capita di entrare in contatto con gli apparati costituiti, se non brevemente e in modo puntuale, intorno a questioni come morti, nascite e poco più. Nella maggior parte dei casi siamo ben felici di non avere a che fare con i movimenti, o la carenza di, delle agenzie dello Stato democratico repubblicano. Siamo diventati mitridatizzati rispetto a una vista presuntiva che immagina, e sappiamo che non è che avvenga immotivatamente, una prevalenza di corruzione, nepotismo, burocrazia costrittiva, approcci punitivi, mentalità da Falaride di Agrigento. Quello verso cui, in molti, abbiamo messo in atto questa disillusa desensibilizzazione, diventa il nemico interno perfetto, altro che quinte colonne… Se poi ci mettete anche il nemico esterno, lo straniero, preferibilmente nero, stupratore e omicida, siamo a posto. Ché poi non importa a nessuno che, per esempio, se si guarda alle statistiche sugli omicidi in Italia (paese che nel 2022 ha il livello di omicidi più basso tra i paese UE) e prendiamo quelli che hanno per vittima le donne, le vittime di nazionalità italiana vengono uccise nel 94,3% dei casi da italiani, mentre le donne straniere solo nel 43,8% da connazionali. Ovviamente gli stranieri sono sovrarappresentati nelle statistiche criminali, ma ci arrivate anche da soli alla conclusione che questo accade proprio perché quella mitridatizzazione di cui dicevo poco fa è anche un po’ un privilegio. Col frigo pieno viene meglio.

È il trionfo degli idiòtes, nell’accezione greca, come si diceva la volta scorsa, quelli che non sanno perché sono fuori dalla discussione sulla cosa pubblica. Ecco, la cosa pubblica se la sono presa, infine. Non serviva conoscerla, la prende uno per tutti, così imparano. Il nostro uomo (è quasi sempre un maschio, mi pare, al netto di alcune evidenti eccezioni), ci pensa lui. E questo rappresentante è, invariabilmente, uno con un CV evidentemente totalmente inadatto per essere rappresentante dei rappresentati. Eppure…

Il Matto dei Tarocchi, cugino archetipico dei buffoni (ma lo è anche l’Appeso…)

Ovviamente il buffone embedded nel tiranno democraticamente eletto fa ridere solo gli scemi, i fan e gli aficionados (categorie che sono solo una quota degli elettori, attenzione. Non è indispensabile essere cognitivamente disfunzionali per sostenere la causa), agli altri, inclusi parecchi presumibili oppositori, un po’ di sgomento li assale ma alla fine non prende posizione quasi nessuno, s’ha comunque da campare e, in ogni caso siamo all’interno dei presupposti democratici – anche se hai a che fare con gente che parla di terzo mandato dopo cinque minuti dall’insediamento (o pure dopo, vale anche per certi nostri governatori regionali) o fomenta assalti alle istituzioni. È come se il potere se lo fosse avocato a sé un buffone per nulla divertente. Vi gusta l’immaginario tolkeniano e se non vi fanno analogie utilizzando contesti familiari non capite le astrazioni e le generalizzazioni? Bene, è Grima Vermilinguo e voi siete quel coglione di Re Theoden. D’altro canto anche in questa predilezione per la favolistica di un linguista sudafricano che unisce il prevedibile razzismo (dio bon, non c’era ancora stato bisogno di coniare il termine apartheid, l’impero britannico andava avanti grazie a istituti giuridici borderline con la schiavitù) contro gli uomini neri dell’est a un approccio che non potremmo che definire inclusivo (nanetti coi piedi pelosi, nani più grossi e incazzosi con le asce, esseri un po’ ariani un po’ immortali un po’ no co le orecchie a punta, altezzosi ma poi amici de tutti, popoli vari che si ritrovano) ci trovo la trave nell’occhio di quella selettività acritica che oggi si manifesta ancora di più nell’analfabetismo cognitivo di chi capta e acquisisce solo la parte dei messaggi che alimenta i suoi bias di conferma.

Lo stato della satira è un buon indicatore indiretto dello Stand der Dinge. Dire che la situazione, qui da noi, è penosa, è dire poco. Passa per satira il far sorridere sulle vicende triviali del privato, del quasi inevitabile delle istituzioni sociali di base, tipo il rapporto con la mamma o la moglie assillante. Gente che paga il biglietto per tizi il cui massimo spunto di coraggio si esprime nel prendere per il culo un familiare, suo o del pubblico, non importa. Un panorama deprimente. E una concausa decisiva dell’assenza dell’attività satirica probabilmente è sempre il solito dover sbarcare il lunario – bello tutto ma il mecenate dell’antibuffone di corte è un ruolo che non esiste, e se sei ricco col cazzo che ti metti a prendere per il culo il potere. L’affitto, il mutuo, i costi della metropoli, tutto questo ha messo la mordacchia al senso critico e alla comprensibile aggressività che scaturisce dal venire presi sempre e impunemente per il culo dagli occupanti il potere. Oggi Baal il poeta più che dalla paura degli sgherri di Mahound viene prostrato dalla consapevolezza di essere una voce inascoltata. Oggi non so più se le voci di singoli che appaiono silenziate tradiscano ancora una paura di non trovare una capacità di ascolto del pubblico o se non siano altro che implementazioni di liste di proscrizione. [spoiler: più la seconda che ho detto, ma sempre perché lo decide la vox populi]

Tra le categorie di addetti all’interpretazione non ho messo i filosofi. Per una serie di ottime ragioni che sono probabilmente le stesse che intuite anche voi, quindi non mi ci vado a impelagare. Nel tempo presente la filosofia non può avere Kant o Platoni, non si può più mettere sopra – non è certo una novità, però può probabilmente aderire a quel dettato deleuziano che dice che la filosofia deve necessariamente rattristare,

«perché una filosofia che non rattristi, che non riesca a contrariare nessuno, che non sia in grado di arrecare alcun danno alla stupidità e di smascherare lo scandalo, non è filosofia. Posto che sembra non esserci alcuna disciplina al di fuori della filosofia che si prefigga lo scopo di opporsi criticamente a tutte le mistificazioni, qualsiasi origine e finalità esse abbiano, l’unico modo in cui la filosofia potrà essere usata consisterà nel denunciare la bassezza del pensiero in tutte le sue forme, nello smascherare le finzioni con cui le forze reattive hanno il sopravvento e, nella finzione, il miscuglio di bassezza e stupidità che dà luogo a quella sorprendente complicità tra vittime e carnefici. Essa dovrà inoltre trasformare il pensiero in un qualcosa di aggressivo, attivo e affermativo, formare uomini liberi, che non confondano cioè i fini della cultura con gli interessi dello Stato, della morale o della religione, combattere il risentimento e la cattiva coscienza che hanno usurpato in noi il pensiero, sconfiggere infine il negativo e il suo falso prestigio».

Gilles Deleuze, Nietzsche e la Filosofia

È ben scritto, ma con il cinismo del momento attuale non posso che pensare che mi ricorda quello che mi racconta un amico consulente aziendale freelance, cioè che molti suoi clienti gli dicono, candidamente, che la loro strategia consiste nel «diventare leader di mercato». Deleuze, in quel passo, ci dice il risultato ma non come arrivarci.

Stańczyk, il buffone, riflette preoccupato sulla perdita da parte del Granducato di Lituania di Smolensk, occupata dal Granducato di Mosca, mentre la corte si intrattiene fatuamente in un ballo

E comunque eccoci arrivati in questo modo all’anello di congiunzione tra l’idealtipo di Baal o del buffone di corte e la filosofia. Oggi (e ho scritto quest’avverbio di tempo già un po’ troppe volte in questo pezzo) che il buffone di corte è stato sostituito non dalla AI ma dalla panza del potere, il vuoto che lascia potrebbe essere riempito proprio da una attività filosofante che potrebbe essere trasmessa, che ne so, sulla portante della stand-up comedy, dove la possibilità di ridere è l’unico eccipiente che consenta di fronteggiare certe tristezze strutturali che l’approccio filosofico mette in evidenza. Servirebbe il buffone per farsi dire le cose come stanno. Ma poi qui le cose iniziano a farsi nebulose, confuse. Il buffone di oggi lo paghi a prestazione, non te lo tieni a corte (dove mai vorresti averla una corte, cara grazia se abiti in due vani più bagno senza ripostiglio e cantina e poi dovresti fargli un contratto da cortigiano, una fattispecie inesistente e inutile ai potenti che possono stipendiare i lacchè più comodamente con soldi pubblici), la corte magari ce l’ha lui sotto forma di follower. Siamo in una situazione che è più prossima al sesso a pagamento che ad altro. O alla gita a San Giovanni Rotondo in bus con dimostrazione del set di pentole. Si tratta di una esperienza di consumo, e quando c’entra il consumo quello tende a dominare il senso dell’esperienza stessa. Le risate e la transazione marcano una distanza che estroflette in un altrove questo nucleo dolorante che potrebbe anche essere che sentiamo tutti ma evitiamo accuratamente di affrontare frontalmente.

Il mondo del lavoro (vi stavate chiedendo quando ci si arrivava, vero?) diventa un’altra zona, un po’ poligono di tiro, un po’ stanza di compensazione, un po’ discarica, un po’ camera oscura, che possiamo sempre e comunque fingere di poter tenere separata da una vita «altra». La vita privata, la vita lavorativa. Come se le radiazioni dell’assurdo non ci seguissero quando torniamo a casa o andiamo a goderci la presunta «libertà».

L’opinione del capo nelle società preistoriche doveva essere meno pericolosa per la specie di quella dei capi odierni: è una banale considerazione sulla concentrazione del potere e sul moltiplicatore tecnologico che influenza il danno potenziale in modo esponenziale. Se il tuo capotribù diecimila anni fa era un coglione e tu e gli altri sottoposti non lo soppiantavate eravate fottuti e così spariva un gruppo di qualche decina di individui. Dove siamo adesso i numeri in gioco sono un po’ più alti – bastano guerre, carestie e pandemie contemporanee a darcene qualche saggio: siamo facilmente nell’ordine delle centinaia di migliaia di persone annientate. Rendiamo i capotribù ancora più allucinati, ancora più idiòtes, e arriviamo a un potenziale di annichilimento diverso da quello della Guerra Fredda ma niente affatto inferiore.

Cosa guida questi nuovi capi? Di base niente di nuovo, la bramosia di più soldi, più potere, più adorazione. Quest’ultima, in particolare, come la ottengono? Se il buffone di corte era l’incarnazione di una ritualità propiziatoria, se dare asilo al potenziale contestatore, ancorché vestito in modo ridicolo, da parte del potente poteva valere una dispensa divina, l’eccezionalismo di questi nuovi regnanti non conosce invece limiti o timori – se non quello della morte, ma temo che sia proprio l’ansia di morte a innescare quel perverso outsourcing delle cattive inclinazioni che porta con sé anche fenomeni di identificazione clamorosi, per i quali il tycoon o il dittatore diventano magicamente emissari divini e paladini dei lavoratori. Oh, e ci credono proprio tanto.

Ai tempi in cui le rivoluzioni erano vere rivoluzioni l’odio di classe era consolidato e condiviso in modo molto chiaro. I palazzi mostravano le facciate, le aristocrazie si muovevano in carrozze sfarzose, gli unici punti di contatto erano quelli lungo la linea di faglia padroni-servi ma, nel complesso, immagino che non ci fosse una presunzione di conoscenza di quelli che stavano sopra da parte di quelli che vivevano sotto. Il senso di alterità doveva essere intenso. Così è andata per un po’ di secoli, a occhio dal Medio Evo fino a ben dentro l’età industriale – è stato l’emergere di sfumature lungo quella linea che ha consentito di desacralizzare la stratificazione codificata della società e aprire la possibilità che (quasi) chiunque possa fare (quasi) qualunque cosa. Che ci può anche stare, l’ordine feudale era una vera merda per i ninetynine-percenters (anche oggi, ma allora i modi erano ben più crudi e cruenti, ecco), però qualche ombra di limite è necessaria, per non diventare totalmente pazzi. E con questo non voglio dire che ci sia una sanità essenziale del demos che verrebbe improvvisamente compromessa perché gli amministratori si comportano in modo erratico: questo è il facile argomento di chi si sente puro non andando a votare, scambiando l’occasione come una cessione dell’anima e l’astensione come una misura profilattica. No, la malattia mentale collettiva investe tutti, è nel sistema di riferimento, ne sono afflitti anche quelli che ne combattono una o più sfaccettature. Alle riunioni dei Viventi Anonimi non puoi dire: no, io ne ero fuori, non ci ho mai avuto a che fare.

Capisco molto di più gli imbarazzati dalla vita, senza ombra di dubbio.

Un’altra considerazione cialtronesca sul transfert sociale, collettivo, di cui trattavo poco addietro mi si affaccia in questa stanca capoccia, lo si è già capito. La acciuffo e vado a chiudere questo breve saggio non richiesto. Prima chiedevo perché i capi autocratici sono sempre puntualmente adorati: se una parte della spiegazione risiede in quello stupido patto mefistofelico che tanta gente si fa in testa, scambiando una propria opinione di consenso per un tratto essenziale dell’identità, tale per cui voti Tizio fino alla morte o finché quello te lo consente (e ti va bene lo stesso), credo anche che giochi un ruolo la fantasia di esternalizzazione a terzi dell’esercizio dell’aggressività. Nelle società tribali e pre-umane mi viene da immaginare che la casta dei guerrieri, con in testa il capo, fosse la destinataria di questa missione – adesso mi pare che questa aspirazione sia rimasta viva ben oltre la sua utilità, continuando però a fare gran danno. In etologia il concetto di comportamento deimatico (da dèimos, paura, e mi fa abbastanza sorridere che da dèmos a dèimos ci corra così poco) ricomprende tutte le soluzioni che gli animali adottano per sembrare più grandi, forti e cattivi, spaventando così gli altri, che di solito stanno tentando di farli fuori, spesso per scopi alimentari. Lo vedete il filo della cialtroneria? Uniamo la rappresentanza democratica infusa di mediaticità estrema (tale per cui guardi a chi è celebre votando con un follow e a chi amministra valutandolo come star) al vestigiale ma vivissimo bisogno di riconoscere qualcuno che sta in prima linea per te (povero illuso) a snudare i canini e a minacciare brandendo femori scarnificati e, da ultimo, alla gratificazione del comportamento deimatico esercito da terzi (o da remoto) e abbiamo il cocktail perfetto per andare dove in effetti stiamo andando. E come piace il comportamento deimatico che minaccia i già sconfitti, i poveri, i deboli, i reietti. Uhhhh, quella roba lì arrapa tutti in un modo indicibile, specie se quelli che si gonfiano e minacciano, i bulli, sono brutti, laidi e dozzinali.

L’ansia di morte alimenta tutta questa attività psichica che gli individui rappresentano a sé stessi formulando argomenti dall’aspetto razionale, simulanti oltretutto competenza e cognizione (avete presente quanti virologi, quanti esperti in relazioni internazionali, e compagnia cantante?), ma, in ultimo, ottiene per la collettività il risultato di avere una funzione simile ai pod in cui risiedono effettivamente gli umani di The Matrix. Sei un animale in batteria, la tua stessa fisiologia nutre la tirannia ma non sei necessariamente un coglione, è la logica del potere a determinare questo stato di cose. La differenza sostanziale è che gli sfruttatori non sono macchine o alieni ma altri umani, mossi dal disegno interamente folle (ancorché apparentemente razionale) di ingannare la morte. Chissà, potrebbero anche farcela ma non sono sicuro che possano esorcizzare il terrore della morte stessa. Mi viene da sentire la voce del buffone che li deride per l’ansia e la noia assolute in cui vivono, probabilmente condizionati a prassi tecnologiche e organizzative rigidissime per garantirsi la sopravvivenza (se pensate che il sacrificio umano sia un orizzonte pessimistico ripartiamo, per esempio, dalla considerazione di come vive e muore chi estrae dalle miniere i rari elementi che servono per costruire i nostri dispositivi digitali). Da questo punto di vista i morti come Baal il Poeta trionfano, i viventi vincenti perdono, ma questo non si avvicina neppure lontanamente a concretizzare un senso di giustizia.

O a lenire questa sensazione di confusione parossistica.

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