«Ma come fanno a piacerti le MMA?», chiede Francesca. Le dico che, nelle arti marziali miste, mi appassiona il confronto tra due individui che hanno un solo scopo: la sconfitta dell’avversario in un contesto che non tracima in un omicidio solo per il regolamento e per la prontezza di riflessi dell’arbitro. Mi guarda disgustata, inarca il sopracciglio e mi fa notare che sono un pazzo fascista che si emoziona guardando due uomini unti, sudati, sanguinanti e in mutande che si avvinghiano e si picchiano. Le chiedo cosa ci sia di male, visto che la mia è una delle patologie più diffuse in occidente. E a quel punto, Francesca si stupisce per il fatto che le MMA sono tra gli sport più seguiti al mondo, poco dopo il calcio e il basket. Non riesce a proprio a credere che siano un fenomeno POP!
Mi tocca dimostrarglielo con una storiella edificante.
Durante un incontro di MMA, il Madison Square Garden di New York può contenere 20.789 persone. Nella tarda serata dello scorso 16 novembre, tutta quella gente si è alzata in piedi e ha iniziato a scandire un nome. Stavano festeggiando la vittoria di Jon Jones su Stipe Miocic, ma il nome scandito come uno slogan non era quello del campione. Si trattava di una sigla di tre lettere, gridata da tutti all’unisono: «U F C… U F C… U F C…». Quella sigla, che è poi quella della più importante federazione delle arti marziali miste, in quel momento, era il più reazionario tra gli slogan politici. E tutti i presenti in quella cattedrale dello sport stavano aderendo spontaneamente a un invito fascista neanche troppo dissimulato.
Te lo ricordi l’agosto del 1936? Come dici? Non c’eri ancora? Beh… neanche io. Non è una giustificazione.
In quel mese, a Berlino, ci sono state le Olimpiadi. La Germania era già nazista, ma la decisione di tenere l’undicesima edizione dei giochi olimpici nella capitale tedesca era stata presa nel 1931, due anni prima che Hitler conquistasse il potere. Nonostante i dubbi espressi da molte nazioni, il Comitato Olimpico aveva confermato, con la consueta pervicacia, la scelta: l’ennesima cazzata in nome di una coerenza innecessaria. La Germania aveva varato le leggi razziali nel 1935; tenerci le Olimpiadi l’anno dopo contraddiceva un bel po’ il senso di quell’evento che, almeno nei propositi di Pierre de Coubertin, intendeva lo sport come simbolo di pace e fratellanza tra i popoli.
Le Olimpiadi del 1936 offrirono al regime nazionalsocialista l’occasione di mettere in scena la propria imponente macchina propagandistica, celebrando la forza fisica come simbolo della rinascita tedesca. La Germania, sconfitta e messa in ginocchio alla fine del primo conflitto mondiale, riconquistava la sua grandezza agli occhi del mondo. Le Olimpiadi di Berlino concretizzarono quanto Hitler aveva scritto nel Mein Kampf: «milioni di corpi allenati nello sport, imbevuti di amor patrio e di spirito offensivo diverranno, in un paio d’anni, un esercito».
E via di camicie brune, passo dell’oca, svastiche e «Sieg Heil».
Oggi quel grido è fuori legge o inopportuno. Ma chi si può lamentare se il pubblico, per intendere «Saluto alla vittoria», inizia a scandire «U F C… U F C… U F C…».
Ma torniamo al 16 novembre e cominciamo dall’inizio.

Jon Jones è il più iconico tra i lottatori di MMA. È nato il 19 luglio 1987 a Rochester, New York. Ha iniziato la sua carriera professionale nel 2008. Da allora ha combattuto 28 volte: 26 vittorie, una sconfitta per squalifica per una gomitata non regolamentare e un no contest per doping. Ha vinto il titolo dei massimi leggeri nel 2011 e da allora ha difeso il titolo fino a quando non ha dovuto smettere di combattere per un po’ per qualche problemuccio legale.
È un combattente eccezionale: cattivissimo, determinato, gelido. Dà un senso al nome della disciplina che pratica: quella si chiama Mixed Martial Arts e Jones combina wrestling, boxe, muay thai, jujitsu brasiliano…
Nella tarda serata del 16 novembre, durante gli incontri battezzati “UFC 309”, Jones difende il titolo dei pesi massimi contro Miocic. Alla terza ripresa di un incontro che affronta apparentemente senza sforzo, vibra un calcio girato, tipo mulo, e conficca il tallone nell’addome del suo avversario. Quello si piega con chissà quante costole incrinate e crolla sotto una gragnuola di pugni.
L’arbitro interviene e interrompe l’incontro, certificando la vittoria di Jones. E, certo, a quel punto, il pubblico esulta, grida, inneggia. Ma non è quello il momento più caldo della serata.

A quel punto, Jones esulta e fa un balletto strano, poi allunga il braccio e indica una persona fuori dall’ottagono: la camera segue il suo dito e inquadra un tipo anziano dal sorriso inquietante con i capelli arancioni seduto accanto a Dana White, il padrone di UFC. Dannazione! È Donald Trump. Ed è tutto inorgoglito per il balletto che è stato fatto solo per lui.
Poi c’è tutto il rito della premiazione: l’annuncio da baraccone, il braccio levato, la lattina della bevanda che fa da sponsor brandita con indifferenza e… l’intervista al vincitore a bordo ring.
Joe Rogan fa le domande di rito e Jones dice le cose che deve dire uno che ha appena difeso il titolo mondiale, spiega la fatica, loda il suo avversario, si congratula con la sua squadra, poi prende una breve pausa. E, con effetto calibrato, ringrazia il presidente Donald Trump per essere lì. A quel punto, rifà il suo stupido balletto e pure io capisco che è lo stesso balletto, sulle note di Y.M.C.A. dei Village People, che Trump esegue nei suoi comizi elettorali dal 2020.
Trump rifà il sorriso, si mette in posa da Cristo compagnone e incassa la vittoria di Jon Jones. Pure quella.
A quel punto, l’intervistatore riconquista il microfono e coinvolge tutto il pubblico del Madison Square Garden: 20.789 persone che hanno pagato il biglietto (il cui prezzo varia, a seconda di dove sono sedute, tra i 400 e i 1.700 dollari) che iniziano a scandire il loro slogan: «U F C… U F C… U F C…». Un inno alle MMA, allo spettacolo, a Dana White, a Jon Jones e a Donald Trump. Un inno al fascismo. Cosa c’è di più POP!?
Già, le MMA sono davvero lo sport più POP! che c’è. E lo sono perché lo spettacolo è tutto. Quella gabbia ottagonale è un palcoscenico perfetto, un’arena chiusa dove la violenza è regolata ma mai addomesticata. Le entrate dei fighter sono teatrali, costruite per accendere il pubblico. Luci, musiche, effetti speciali, danze, coreografie: sembra il trailer di un film d’azione. Anche quando sono timidi o schivi, i lottatori diventano personaggi, con il loro stile, la loro postura, il loro modo di parlare. Il match inizia molto prima che i due combattenti entrino nell’ottagono: negli sguardi feroci al face-off, nelle conferenze stampa dove spesso volano insulti, nelle dichiarazioni postate sui social. UFC ha preso dal wrestling la capacità di trasformare ogni combattimento in una storia, una narrazione fatta di eroi e villain.

Le MMA sono un punto d’incontro tra culture lontane. Da un lato, il portato filosofico e rituale delle arti marziali tradizionali: la disciplina del jujitsu brasiliano, l’arte sottile del karate, la brutalità tecnica della muay thai. Dall’altro, la spettacolarizzazione americana, con il culto del corpo, della personalità, della vendita del prodotto. L’unione di questi mondi ha creato un fenomeno irresistibile: una disciplina che sembra antica e futuristica allo stesso tempo, che attinge alla lotta greco-romana e ai reality show contemporanei.
E poi c’è l’influenza reciproca con gli altri media. Il cinema ha sempre preso ispirazione dalle arti marziali e con le MMA succede ancora più spesso. E oggi accade anche il contrario: i combattenti si costruiscono (o sono costruiti) come i personaggi di film d’azione. Il loro linguaggio corporeo, le loro espressioni, le loro mosse diventano materiali per i videogiochi, per i film, per le serie. Il combattimento di MMA è il punto d’arrivo di un’estetica contemporanea in cui ogni gesto deve essere iconico, riproducibile, trasformabile in GIF, meme, reel, highlight su YouTube. Hai presente Israel Adesanya e Sugar Sean O’Malley? Che personaggioni! Perdono un sacco e restano nel mito.
E poi c’è il pubblico. Che è globale perché le MMA non hanno bisogno di essere spiegate: guardi due che si prendono a calci e pugni, si tirano ginocchiate volanti, cercano di strozzarsi e li capisci. Ti bastano gli occhi. Non c’è il fuorigioco o qualche altra regola astrusa e insensata che per capirla devi fare un atto di fede. La lotta è universale. UFC ha fan in ogni angolo del pianeta, da Tokyo a Rio, da Parigi a Las Vegas, da Mumbai a Pioltello. Ci sono fighter russi, cinesi, brasiliani, africani. Ogni evento è un melting pot. Le storie dei combattenti diventano miti. Khabib Nurmagomedov è l’eroe caucasico che combatte per l’onore della sua famiglia e da bambino si è allenato con gli orsi. Conor McGregor è il pirata irlandese che sfida il mondo con la sua arroganza. Jon Jones è il prodigio caduto e risorto mille volte.
«E quindi?», chiede Francesca.
Quindi le MMA sono POP! nel senso più pieno del termine. Perché sono spettacolo, perché creano miti, perché si nutrono dei media e li influenzano. Perché il pubblico le ama con la stessa devozione che riserva alla musica, al cinema, ai supereroi. E perché, alla fine, è lo stesso pubblico a decidere cosa vuole: l’eccesso, la provocazione, la violenza ritualizzata.
«Ma il POP! è tossico?»
A volte sì, a volte no. Dipende da chi lo maneggia. Dipende da quanto siamo disposti a lasciarci trascinare dentro la macchina dello spettacolo, senza chiederci chi la guida. Dipende se, presi dall’entusiasmo, siamo capaci di perdere di vista il senso del gioco e ci mettiamo a declamare un inno fascistizzante.
Forse, dopo aver visto 20.789 persone levarsi all’unisono all’interno del Madison Square Grarden per lanciare il loro «Saluto alla vittoria!», il loro «Sieg Heil!», dovremmo aver paura del potere di quella violenza e boicottare UFC.
Ai nazismi non servono catene: crescono nell’entusiasmo, nella folla, nell’illusione di essere parte di qualcosa di più grande. E spesso iniziano con un applauso. O con un voto.

Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).