È notte. Nevica forte. Sydney Briar, la produttrice di uno show radiofonico della CKLF, una radio che trasmette notizie locali da una piccola città dell’Ontario, e Grant Mazzy, il dj, sono rannicchiati sul pavimento di uno sgabuzzino. Hanno bloccato la porta con un pezzo di cavo elettrico, e i tonfi che sentiamo sono quelli delle creature confuse e inferocite che cercano di sfondarla colpendola con i pugni, con la testa, la faccia. Nello studio abbandonato c’è sangue dappertutto, e i cadaveri massacrati di una bambina e della tecnica del suono. La bambina l’hanno ammazzata a calci Grant e Sydney. La produttrice sta ossessivamente scrivendo sul muro con un pennarello «Sono Sydney e oggi ho ucciso una bambina, mi dispiace». La tecnica ha cercato a lungo di spaccare la vetrata dello studio con la faccia per entrare e morderli.
È un horror, è Pontypool. Un film leggendario per chi ama le variazioni sul tema dell’apocalisse zombie (Arabella: Represent!) non solo per l’ambientazione (radio, Canada, neve) ma per il brillante switch dalla contaminazione del corpo a quella della lingua. La lingua inglese, in particolare.

Il regista Bruce McDonald ha chiarito: i “mostri” del film non sono zombie, ma “conversatori”. Il virus è linguistico. Dio, non sentite un brivido di gioia e di orrore profondo? Il linguaggio è la strategia primaria della civiltà. Non solo permette l’esistenza della poesia e delle conversazioni, ma dà forma alle emozioni, scrive i trattati, ordina i bombardamenti su Gaza. Comunica che i piccoli Bibas saranno restituiti da Hamas, ma poi sono i loro cadaveri. La lingua mente. Ama, odia, inventa. Dà forma a quello che succede in modo informe – la mia diagnosi. Chiede, spiega, coinvolge in una discussione. La sto usando ora. E il colpo di genio di Pontypoon è che il contagio avviene quando voi comprendete le parole che dico.
Il virus è entrato in alcune parole – intuisci che tutto è cominciato con un manifesto che segnala la scomparsa del gatto “Honey”. Honey, tesoro. Le prime parole infette sono infatti i terms of endearment della lingua inglese, le parole dolci come “tesoro” o “cara”.
Le vittime cominciano a ripetere in modo ecolalico una parola, poi il loro linguaggio diventa sempre più confuso e diventano incomprensibili. E se ne rendono conto. Il terrore negli occhi degli infetti è la cosa più spaventosa del film. Alla fine questa angoscia terrificante si trasforma in un berserkr che li costringe a sbranare altre persone, a staccare a morsi le loro mani, a strappare le gambe, ma soprattutto, guarda caso, a cercare di morderne la bocca.
Ho scoperto questo film seguendo una discussione su Reddit, a partire da un un post in cui l’OP sosteneva che Pontypool non è horror: è commedy.
Il mio piccolo contributo – anni dopo, è così che va su Reddit, a volte ti unisci a conversazioni cominciate l’anno in cui il film è uscito che proseguono per anni a mano a mano che la gente guarda il film e corre a cercare post che lo commentino – è stato: ti assicuro che se lavori in una radio l’idea di restare bloccata negli studi durante una apocalisse neurolinguistica a cui come radio, cioè gente che lavora con le parole, stai contribuendo, è horror.
Ha partecipato alla conversazione anche redditor Miklonario, che ha fatto una riflessione interessante sulla scelta della lingua inglese come veicolo dell’infezione.

Ovviamente la viralità dell’inglese e la possibilità di evitare il contagio usando il francese – l’esercito invierà dei comunicati alla popolazione invitando tutti a usare il francese, e Mazzy e Briar ci proveranno, ma ovviamente l’alpha Mazzy ne conosce tipo otto parole – hanno molto a che fare con il Canada e le due lingue che lo abitano, non sempre pacificamente.
Ma l’uso dell’inglese è una questione che riguarda il mondo. Io stessa leggo e ascolto podcast e guardo film e serie quasi esclusivamente in inglese. L’inglese abita la mia mente per ore ogni giorno, praticamente in ogni momento in cui non lavoro, non sono con i miei amici o non dormo. È una lingua che amo, anzi adoro, e che cambia radicalmente il mio funzionamento neurale: quando penso e scrivo in inglese ho una personalità diversa, più divertente, più sboccata, più veloce e coraggiosa nelle reazioni. Ma l’inglese ha anche caratteristiche uniche, che lo rendono più facilmente aggredibile e contaminabile dal virus. Dice Miklionario:
«Anche se concordo sul fatto che sia fondamentalmente una decisione pragmatica avere l’inglese come lingua principale parlata, nell’era moderna si è sviluppata una certa… elasticità nell’inglese, piuttosto unica per una lingua così radicata e diffusa; pur essendoci molte regole, ben poche di queste impediranno davvero di trasmettere il proprio significato se violate.
In pratica, quasi qualsiasi parola può essere trasformata liberamente in un sostantivo o in un verbo, i termini vengono presi in prestito senza problemi da qualsiasi altra lingua, si possono pluralizzare o rendere singolari le parole a piacimento, e c’è un approccio libero e creativo alla costruzione di parole composte e all’inserimento di elementi nel mezzo, che sembra una versione contorta e sovversiva del metodo germanico che inizialmente ha influenzato molto la sua sintassi (il mio esempio preferito di questo fenomeno è il termine assolutamente sorprendente “unfuckwithable” [n.d.t. con cui non puoi “fuck with”, nel senso di “non si scherza con”, “non puoi vincere contro”…. va be’, non riesco a tradurlo, ed è uno dei motivi per cui se è in inglese, lo leggo o lo ascolto in originale]). Per usare un’analogia con la segnaletica stradale, molte lingue hanno segnali di stop e semafori, mentre l’inglese ha un sistema flessibile di precedenze e rotatorie che tutti ignorano. E ora, dopo oltre 30 anni di diffusione massiccia di internet? Questa è una lingua profondamente strana e adattabile. Si adatta perfettamente all’atmosfera del film, secondo me [n.d.t. Scrive IMO, “in my opinion”: Miklonario è uno di quelli gentili].»
E io ho pensato: damn.

Il crescendo delle notizie che prima parlano di una rissa, poi di scontri, e infine di un massacro che ucciderà anche il corrispondente locale – lo sentiremo cominciare a straparlare, terrorizzato, mentre l’orda lo raggiunge – è coreografato alla perfezione. Ho scoperto il film perché un redditor, in una conversazione su quale fosse il suono più terrificante che avesse mai sentito in un film horror, ha citato il ragazzino mutilato che nel microfono, avvicinatogli alla bocca dal corrispondente terrorizzato, emette dei suoni che riproducono confusamente il pianto di un bambino che chiama la mamma. Sapevo che quel momento sarebbe arrivato, e ho trattenuto il fiato. Ma il pugno nel diaframma, per me, è stato Grant Mazzy che cita Roland Barthes.
Non so leggere gli autori difficili. Faccio davvero fatica a capire. Posso leggere una storia intricatissima di paradossi spaziotemporali, cogliere sfumature simboliche nelle trame più complicate, ma la teoria di qualunque cosa mi elude. Dalle istruzioni per montare la libreria ikea alla mappa della mia città, alla filosofia. A meno che non sia spiegata da gente come Mark Fisher (mi manchi). Che nelle sue lezioni si rivolgeva a dei ragazzi, non a degli accademici, e ha uno stile espositivo che a me fa sempre pensare che davvero lui aveva a cuore prima di tutto la Classe – ecco il linguaggio che si intreccia e confonde. Ho appena parlato di Fisher insegnante, ma ora parlo della lotta di classe. Si potrebbe pensare che la parola Classe veicoli un virus, vista la cura con cui viene evitata.
Quindi quando Mazzy che comincia a capire che qualcosa sta andando davvero storto dice «Trauma is a news photo without a caption» («Il trauma è la foto di una notizia senza didascalia») – e cita Roland Barthes io ho fatto Ouch e sono andata a leggere un po’. E mi sembra di capire che se le immagini possono essere comprese senza parole, e andare a colpire (punctum) chi guarda, e smuovere emozioni profondissime, addirittura raggiungere l’inconscio, cosa succede se sono le parole a essere punctum, a diventare immediate e letali? In questo caso il trauma è proprio una trafittura: la parola infetta perfora la nostra struttura senziente e distrugge il nostro hard disk. E raggiunge i livelli più profondi della nostra mente, della coscienza. Penso sempre alle neuroscienze che non sapendo più bene come giustificare l’esistenza dell’Io a volte lo chiamano Il Narratore. In Pontypool il narratore diventa un mostro. Perché se capisci le parole che ti dice sei morto.
Mi gela il sangue, mi toglie il fiato.
Sinceramente, non riesco a pensare a niente di più spaventoso.

Pontyoool è il film horror del 2008 diretto da Bruce McDonald (uscito in Italia col titolo orribile di Pontypool… Zitto o muori, che è spoiler e secondo me manca il colpo di alcuni penosi e determinanti millimetri). È tratto dal romanzo Pontypool Changes Everything di Tony Burgess, che ha anche scritto la sceneggiatura del film.
È infine diventato un adattamento in forma di radioramma. Non l’ho sentito, so che il finale è diverso, ma immagino che sia perfetto: è un dramma che si svolge in una radio, va da sé.
Quando Mazzy e Briar capiscono che la meccanica del contagio è quella della comprensione della parola, e che Briar ha già cominciato a ripetere una parola sbagliata, l’intuizione di Mazzy è quella di svuotare la parola di significato. E siccome Briar è devastata dall’uccisione, “kill”, della bambina – che tra l’altro disgraziatamente era nel costume del cast di Lawrence d’Arabia, e quindi sembra una piccola palestinese, e tu ti copri la faccia – Briar comincia a smontare la parola. «Kill is Kiss. Kill is Kiss. Kill is Kiss…». All’Infinito.
E lei, con il mondo smarrito e inferocito che perde il linguaggio fuori dalla porta, gli dice: «Kill me».
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.