La parafrasi del tempo
Douglas Trumbull ha solo ventitré anni quando, mostrando un’intraprendenza smisurata, decide che la malsana idea di Stanley Kubrick di spostare la produzione di quel film di fantascienza gigantesco da Los Angeles all’Inghilterra non lo deve fermare. Ottiene il numero del telefono di casa del regista, lo chiama e si presenta: è stato lui a dipingere una galassia a spirale in rotazione, a filmarla con un obiettivo fish-eye e a proiettarla su una cupola costruita su misura; è stato lui a progettare quell’effetto stupefacente. Kubrick, colpitissimo, fa comprare subito il biglietto per il volo del ragazzo e se lo porta a Londra. Gli dà un budget, un autista che lo scorrazza per la città perché compri tutto quello che gli serve e totale libertà creativa. Quando, nel 1968, esce 2001: Odissea nello spazio, Trumbull ha ventisei anni e ne è stato il supervisore degli effetti speciali. Purtroppo, Kubrick si dimentica del ruolo di quel giovane intraprendente quando, qualche mese dopo, la pellicola viene insignita dell’Oscar per i migliori effetti speciali, attribuiti al solo regista. Trumbull, giustamente, si infuria e ne seguono strascichi legali e dieci anni di rabbia e sguardi in cagnesco. Ma a quel punto, ormai, la sua carriera nel cinema è iniziata alla grande. In qualità di pioniere riconosciuto degli effetti speciali, collaborerà a Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg, Star Trek di Robert Wise, Blade Runner di Ridley Scott, The Tree of Life di Terrence Malick e decine di altre pellicole.

Nel 1972, è il regista di un film di fantascienza magnifico e disturbante: Silent Running. Lascia che ti riassuma la storia di questa corsa silenziosa – e angosciante e claustrofobica – in un universo senza fine.
La Terra è diventata un deserto inabitabile e l’umanità ha mandato nello spazio enormi serre geodetiche per preservare gli ultimi ecosistemi naturali. La “Valley Forge” è una di queste navi, e a bordo ci sono il botanico Freeman Lowell e tre suoi colleghi. Mentre gli altri considerano la missione una seccatura, Lowell ne comprende a pieno il valore: quelle foreste sono l’ultima speranza per la vita terrestre.
Un giorno arriva l’ordine dalla Terra: il programma viene cancellato, le serre devono essere distrutte con delle testate nucleari e l’equipaggio deve tornare a casa. Gli altri accettano senza troppi problemi, ma Lowell impazzisce all’idea di perdere tutto. Uccide i suoi compagni, salva una delle serre e prende il controllo della nave, fingendo un’avaria per restare isolato nello spazio profondo. A quel punto, i suoi soli assistenti sono i tre droidi – Paperino, Paperina e Paperone – che riprogramma per assisterlo nella cura della foresta.
La solitudine lo divora e i suoi errori fanno sì che uno dei droidi venga perso e un altro danneggiato. Solo, impotente, rassegnato, disperato, folle, spedisce l’ultima serra nello spazio profondo con un droide a prendersene cura, mentre lui si fa esplodere con la nave, lasciandoci con il barlume della speranza che quella foresta possa sopravvivere da qualche parte, nell’universo senza fine.
Un film lancinante, con una preoccupazione ecologista che oggi è ancora più comprensibile. Per una sorta di giustizia poetica, quei cialtroni dei distributori italiani decidono di cambiare radicalmente il titolo del film in traduzione: Silent Running diventa 2002: La seconda odissea, nella speranza di poter godere dell’onda lunga dei riscontri positivi del film di Kubrick dal quale Trumbull era stato epurato.
Il 2002, nel film, non viene mai citato. Nel titolo, invece, diventa un punto di contatto. Come a dire al pubblico che si sta per assistere a un seguito.
Già: il 2002 è davvero un seguito, è davvero l’anno dopo.
Il 2002 del titolo del film non esiste, è uno specchietto per allodole e allocchi. Ma anche il 2002, l’anno incastonato nella scansione cronologica del tempo, è stato un anno costruito su minacce, conseguenze, promesse, controindicazioni e illusioni. Ecco perché vale la pena di guardarlo meglio, da vicino.
Millenovecentotrentasei virgola ventisette
1936,27. È questo il numero che chiunque, in Italia, ha sempre in mente. Un’intera popolazione che, pur avendo espresso matematici di genio, ha sempre avuto enormi difficoltà con i conti, i bilanci e la gestione trasparente dei numeri, in particolar modo quando riferiti ai quattrini, si ritrova a fare sistematiche moltiplicazioni e divisioni. E uno dei due termini dell’operazione è sempre quel numero reale, arrotondato per comodità a “duemilalire”.
La lira italiana, così come la valuta nazionale degli altri undici paesi dell’Unione Economica e Monetaria europea, sta per sparire. E sono tante le persone che tengono sempre con sé una calcolatrice semplificata – magari elargita come utile regalia dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi – chiamata confidenzialmente “euroconvertitore”.

All’inizio dell’anno, questa preoccupazione riguarda quasi 57 milioni di italiani. È il decimo anno di fila durante il quale nelle cliniche nascono meno bambini di quante salme vengono interrate nei cimiteri. A compensare il saldo negativo dei residenti sul territorio c’è il flusso migratorio e questa è un’altra grave preoccupazione degli italiani.
All’inizio dell’anno gli umani sono 6 miliardi e 272 milioni. Entro la fine del 2002 quel numero cresce di un’ottantina di milioni. A raccontarci la crescita demografica sulla superficie dell’intero pianeta c’è, anche in questo caso, il rapporto tra le culle e le bare: 134 milioni di nati contro 53 milioni di morti. La durata media della vita umana è di poco più di 67 anni. La mortalità natale è del 7% circa. In realtà, la metafora delle culle e delle bare è una mia sciocchezza, un lusso da italiano pasciuto con l’euroconvertitore in tasca: quasi il 27% della popolazione umana, un miliardo e seicentonovanta milioni di individui sopravvive in condizioni di estrema povertà.
Nell’anno dell’entrata in vigore dell’euro, nell’anno in cui escono di scena tutte le monete che, fino a quel momento, avevano caratterizzato il discorso intorno all’economia e allo scambio e anche un sacco di barzellette, l’attenzione di tutti si concentra su quanto ogni cosa costi di più, sugli arrotondamenti nelle conversioni che sono sempre svantaggiosi, sulla perdita di potere economico. Ma, davvero, quell’evento dirompente che sconvolge il portafogli degli europei non è il più importante dell’anno. Per esempio, fa sempre più caldo.

Il 2002 è il secondo anno più caldo da quando abbiamo iniziato a registrare i dati su clima e temperature ed è quello con il mese di giugno più caldo di sempre, con temperature più alte, da 3 a 5 gradi, in gran parte dell’Europa, dell’Asia Orientale e in alcune regioni degli Stati Uniti. Poi, succede anche che, improvvisamente, i media riservano un’attenzione sempre più spiccata alle piogge eccezionali e alla siccità, ai terremoti, alle eruzioni vulcaniche e agli uragani. Non c’è prova alcuna che questi eventi si verifichino con una frequenza maggiore; potrebbe essere che non ci sia stato un numero anomalo di catastrofi rispetto alla media storica e che, delusi dalla mancata realizzazione dell’apocalisse millenarista, i giornali abbiano deciso di enfatizzare catastrofi e disastri naturali. Eppure, questo è l’anno in cui il cambiamento climatico smette di essere solo un tema scientifico per diventare un’ansia culturale. Non è più soltanto materia da studi e conferenze: entra nei notiziari, nelle conversazioni quotidiane, nell’immaginario. Qualcosa si è incrinato, e l’idea che il mondo possa cambiare irreversibilmente diventa un tarlo che inizia a scavare. Un remake, o anche un semplice rilancio, di Silent Running, con le sue serre alla deriva nello spazio per salvare la vita terrestre, avrebbe ben fotografato lo spirito dei tempi.
Lo avrebbe fotografato, ma non esaurito. Tanto i giornali quanto le persone hanno anche altri argomenti importanti da trattare. Perché l’economia e il clima preoccupano, certo. Ma la guerra, quella, è sempre lì.
E lo shock fu subsonico
All’inizio dell’anno, abbiamo ancora negli occhi le immagini delle torri del World Trade Center che collassano e fanno sparire lo skyline di New York in una nuvola di polvere e macerie. Ani Di Franco vede quelle immagini, esattamente come ognuno di noi. Ma lei è davvero poesia, un raggio di luna che scivola giù per il collo di una giraffa, e cattura tutte le nostre sensazioni e le comprime in un recitativo che intitola Self-Evident (la traduzione è di Lella Costa).
«E lo shock fu subsonico
e il fumo assordante
perché eravamo tutti al lavoro in orario quel giorno
e tutti ci siamo imbarcati su quel volo
e poi mentre le fiamme infuriavano
ci siamo tutti arrampicati sul davanzale
e poi ci siamo presi per mano
tutti e ci siamo lanciati nel cielo
e ogni distretto ha alzato gli occhi
quando ha sentito il primo scoppio
e ogni stupido film d’azione di colpo è sembrato superato
e quell’esodo di persone e automobili
assomigliava alla guerra
più di ogni altra cosa che abbia visto finora
finora, per ora».
E quell’atto che assomiglia alla guerra più di ogni altra cosa che abbiamo visto finora, per ora, scatena davvero una guerra. Il nemico è difficile da identificare: non ha un simbolo chiaro ed evidente sotto cui si muove, una svastica, un fascio littorio o un martello e una falce incrociati in campo rosso. Allora è necessario renderlo astratto. E la guerra diventa una “Guerra al Terrore”.
Lo sai, vero, cos’è il terrore? È il nemico più grande, quello contro il quale bisogna serrare i ranghi della Sicurezza, magica chimera dal volto disumano che proteggerà ognuno di noi. Certo, chiede un obolo di rinunce: dobbiamo essere meno liberi, più controllati, più spaventati, ma cazzo, che bello! In cambio ne avremo… Sicurezza. Qualunque cosa sia.
Prima ancora che vengano definite regole internazionali, consolidate e condivise, per difendere, appunto, la Sicurezza, le nazioni si impegnano in operazioni contro il terrore. Chiunque venga classificato come “sospetto terrorista” perde lo statuto ontologico di umano e non ha più diritti.
“Enduring Freedom”, “Pace duratura”, è l’operazione militare con cui gli Stati Uniti forniscono un supporto diretto a tutti i paesi in cui si possa riconoscere un intento terroristico. Ma chi è in grado, tra pallottole ed esplosioni, di dire se quella che ha lasciato quei corpi esanimi sul selciato sia stata un’operazione militare, da reputarsi legittima, o un vigliacco atto terroristico. E, in uno scontro di culture, ogni atto terroristico è, senza dubbio, un atto di terrorismo islamico.
Stati Uniti, Russia e Australia dichiarano il proprio diritto di attuare attacchi preventivi contro i gruppi terroristici stranieri. Il presidente statunitense, George W. Bush, in cerca di una chiara definizione del nemico nell’antitesi manichea, chiama “asse del male” una compagine di cattivi. Li allinea in una sola frase: Iran, Iraq e Corea del Nord. L’Iraq, poi, è indicato quale produttore di “armi di distruzione di massa” e l’ONU lancia un ultimatum perché quello stato, per non essere invaso dall’esercito statunitense, si presti alle ispezioni sugli armamenti entro la fine dell’anno.

Nel corso dell’anno, inoltre, fioccano i mandati di cattura internazionali di presunti terroristi sospettati di essere coinvolti nella preparazione di futuri attentati. Arresti arbitrari, deportazioni, detenzioni a tempo indeterminato: queste sono le accuse prevalenti di violazione dei diritti umani mosse verso gli Stati Uniti. Il modo in cui vengono trattati i detenuti nel campo di Guantanamo, arrestati nel corso della Guerra al Terrore, assomiglia in maniera straordinaria alla tortura. E in questo turbinio di paura e Sicurezza, Cina e Russia si appellano all’antiterrorismo per intraprendere azioni contro le minoranze uigura e cecena.
Terrore in ogni dove
Sono giorni strani. In nome della Guerra al Terrore possono essere giustificate un sacco di cose. I conflitti in Afghanistan, Cecenia e Palestina vengono ascritti d’ufficio alla guerra santa contro il terrorismo islamico.
In Afghanistan siamo nella fase iniziale della guerra guidata dagli Stati Uniti contro i talebani e Al-Qaeda, dopo l’invasione del paese avvenuta nell’ottobre 2001 in risposta agli attacchi dell’11 settembre. Il governo talebano e Osama bin Laden, a capo di Al-Qaeda, si erano ritirati nelle zone rurali e montuose. Nel 2002, l’Afghanistan è ufficialmente sotto un nuovo governo sostenuto dall’Occidente, ma il conflitto non è affatto terminato. La guerra contro i talebani continuerà fino al 2021, quando questi torneranno al potere.
La Seconda Guerra Cecena, iniziata nel 1999, è in corso. La Russia cerca di consolidare il controllo sulla regione e la resistenza cecena combatte con tattiche di guerriglia e terrorismo. Il 23 ottobre, un commando di una cinquantina di ceceni armati prende in ostaggio 850 persone nel teatro Dubrovka di Mosca. Chiede il ritiro delle truppe russe dalla Cecenia. Dopo tre giorni di confronti a muso duro, le forze speciali russe fanno irruzione. Usano gas narcotizzanti e uccidono tutti i terroristi ma ci sono anche delle vittime collaterali; 130 ostaggi uccisi proprio dal gas dei liberatori. Dopo l’attentato del teatro Dubrovka, la risposta russa è brutale: rastrellamenti, torture, esecuzioni sommarie e la distruzione di villaggi sospettati di ospitare ribelli. L’FSB (precedentemente noto con il nome di KGB) usa squadroni della morte per eliminare i leader separatisti.

Siamo nel pieno della Seconda Intifada, iniziata nel 2000, ed è uno degli anni più violenti della crisi. Israele risponde con durezza agli attacchi palestinesi, in particolare agli attentati suicidi, e avvia operazioni militari su larga scala nei territori occupati.
Il 27 marzo un attentatore di Hamas si fa esplodere in un Hotel, uccidendo 30 persone. L’evento viene battezzato “Massacro di Pasqua” e innesca l’avvio dell’Operazione “Scudo Difensivo”, un nome che ispira Sicurezza per un intervento militare israeliana su larga scala nei territori palestinesi, il più grande dai tempi della Guerra dei Sei Giorni del 1967. L’esercito israeliano, muovendo l’accusa di sostegno al terrorismo, assedia il quartier generale di Yasser Arafat a Ramallah, bloccandolo nel suo compound per mesi, sotto stretta sorveglianza.
Ma il 2002 non è solo Guerra al Terrore: c’è un incendio che divampa su mappe sempre più sbrindellate.
Un brindisi a tutti quelli che…

Quando tutto attorno è dolore, l’unica cosa che ti resta da fare per mettere a tacere la sensazione di impotenza, dice ancora Ani Di Franco, è versarti da bere:
«E allora facciamo un brindisi
a tutti quelli che vivono in Palestina
Afghanistan Iraq El Salvador
un brindisi a tutti quelli che vivono nella riserva di Pine Ridge
sotto lo sguardo gelido e pietrificato
del Mont Rushmore
un brindisi a tutti quei medici
e quelle infermiere
che ogni giorno permettono alle donne di scegliere
che affrontano una minaccia grande come Oklahoma City
solo per ascoltare la voce di una ragazza
un brindisi a tutti i condannati a morte
che in questo momento aspettano la loro ghigliottina
soffocati dal terrore
e possono fuggire solo in se stessi
per trovare la pace in forma di sogno».
A non avere pace, nel 2002, non ci sono solo i condannati a morte. I rifugiati, nel mondo, sono circa dodici milioni; ma chi può saperlo veramente? Chi può averli contati?
Le guerre in corso, durante l’anno, sono 31. Quattro in meno rispetto al 2001. Quelle in cui muore più gente non sono ascrivibili alla Guerra al Terrore, non sono – come spesso accade – quelle di cui la stampa si occupa di più: ci sono conflitti terribili in Colombia, Burundi, Kashmir, Nepal e Sudan.
In Colombia, le Forze Armate Rivoluzionare (FARC) occupano le zone smilitarizzate e rapiscono la candidata presidenziale Íngrid Betancourt,che in quelle zone si era introdotta per ottenere visibilità elettorale. Quel rapimento è il solo motivo per cui ricordiamo il suo nome: la grande copertura mediatica internazionale le garantisce meno dell’1% dei voti e la cittadinanza onoraria conferitale immediatamente da un po’ di paesi della provincia italiana.
I negoziati di pace, in corso dal 1999, si interrompono e il presidente Andrés Pastrana ordina l’invasione della “zona di distensione”, un territorio grande come la Svizzera che era stato concesso alle FARC per i negoziati. Da quel momento i gruppi paramilitari, con il supporto di settori dell’esercito e dell’élite economica, intensificano gli attacchi contro sindacalisti, contadini e comunità accusate di sostenere la guerriglia e di minare la sicurezza del paese. Le elezioni vengono vinte da Álvaro Uribe che si presenta con una linea durissima contro le FARC, promuovendo una strategia militare chiamata “Seguridad Democrática”. Già, ancora la Sicurezza.
Tra attacchi spettacolari, attentati, autobombe e sequestri, le FARC intensificano un conflitto indistinguibile dal terrorismo. Le reazioni, supportate dagli Stati Uniti, sono terribili. Entro la fine dell’anno, 200.000 colombiani vengono sfollati.
Il Burundi è nel pieno della guerra civile iniziata nel 1993 e che si concluderà solo nel 2005. Il conflitto era iniziato dopo l’assassinio del primo presidente democraticamente eletto, Melchior Ndadaye, di etnia hutu, da parte dell’esercito dominato dalla minoranza tutsi. Il 2002 è un anno di transizione: ci sono i primi tentativi di accordo di pace, ma sono poco notiziabili, forse anche perché nessuno fa accenni alla Sicurezza. Gli scontri tra governo e forze armate ribelli producono massacri e sfollamenti di civili.

Lo stallo alla messicana tra India e Pakistan nel Kashmir è l’unico conflitto diretto tra nazioni nel 2002. Alla fine del 2001, un attacco terroristico al Parlamento indiano attribuito a gruppi pakistani porto l’India a mobilitare 500.000 soldati al confine con il Pakistan, che risponde con una mobilitazione simile.
Alla fine dell’anno, si riesce a evitare la guerra aperta tra potenze nucleari grazie alla diplomazia internazionale, ma il conflitto nel Kashmir rimane irrisolto, con continue violenze e tensioni lungo il confine.
La guerra civile in Nepal si intensifica, con un numero di vittime pari alla somma di tutti i morti in quella stessa guerra tra il 1996 e il 2001. Metà dei morti è costituita da civili, presi di mira sia dal governo nepalese sia dagli insorti. Ma, anche qui, niente appelli alla Sicurezza e, di conseguenza, poche notizie sui giornali.
Il Sudan è nel pieno della Seconda Guerra Civile, iniziata nel 1983 e destinata a continuare fino al 2005. Si tratta di un conflitto tra il governo centrale di Khartoum, dominato dagli arabi musulmani del nord, e l’esercito di liberazione del popolo, che rappresenta le popolazioni cristiane e animiste del sud. Dopo quasi 20 anni di guerra, che ha causato milioni di morti e sfollati, ci sono i primi progressi diplomatici. È difficile muovere le armi della pace tra i massacri etnici, gli attacchi contro i civili, le carestie e il petrolio, scoperto nel sud del paese. E il petrolio, si sa, dona un sacco di Sicurezza.
Guerra, massacri, sfollamenti. E sempre, ovunque, la stessa parola a legittimare tutto: Sicurezza. Non ti senti più tranquillo? Allacciati la cintura e seguimi in un posto in cui andrà tutto bene.
Lasciaci tornare ai nostri temporali

Il primo mandato di Silvio Berlusconi come Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana, nel 1994, si risolve dopo appena 251 giorni. È ricordato come primo e unico governo della storia della Repubblica nella cui composizione di maggioranza c’è stato il Movimento Sociale Italiano. Peccando di ottimismo, ci siamo illusi fosse il punto più basso che potessimo raggiungere: il tempo ci darà torto.
Berlusconi si insedia per il suo secondo mandato l’11 giugno 2001 e, per 3 anni, 10 mesi e 12 giorni, presiede il governo più longevo della storia della Repubblica italiana e il secondo dall’Unità d’Italia, dopo il governo Mussolini. A poco più di un mese dalla sua nomina, il Presidente del Consiglio è a Genova a presiedere il Gruppo degli 8, meglio noto come G8. È lecito chiedersi cosa facciano i governanti delle grandi potenze – economiche e militari – occidentali chiusi in un castello kafkiano. Lascio che a rispondere sia il sito di quell’evento:
«Dal 1975, i capi di stato o di governo delle principali democrazie industrializzate si incontrano annualmente per occuparsi delle maggiori problematiche economiche e politiche a cui vanno incontro le loro società e la Comunità internazionale nel suo complesso.»

A Genova, tra il 20 e il 22 luglio 2001, il filo spinato disegna chiaramente i confini della zona rossa, escludendo, in nome della Sicurezza, i cittadini dallo spazio urbano. Un anno dopo, il filo spinato è quello che separa Guantanamo dal resto del mondo, quello che chiude i centri di detenzione per migranti, quello che continua a disegnare il confine tra Israele e Palestina. L’illusione della Sicurezza si costruisce sulla separazione. Ma chiudere fuori un problema non lo risolve: lo nasconde, lo ingigantisce, lo rende ancora più feroce.
Lo spettacolo della società
Berlusconi, al suo secondo mandato da Presidente del Consiglio, ha i numeri, ha il potere, ha l’impunità, ha la macchina perfetta per controllare e per garantire che la stampa, la magistratura e la società civile non possano ostacolarlo. Il suo scopo è il consolidamento del suo potere. E non si preoccupa di nascondere questo obiettivo, neanche malamente: per raggiungerlo deve smontare i suoi nemici e blindare i suoi interessi.

Esprime il suo dominio in due modi: da un lato, occupa con sistematicità assoluta lo spazio politico e mediatico; dall’altro, lasciandosi irrorare dallo spirito dei tempi, usa la Sicurezza, sempre lei, come giustificazione per trasfigurare l’Italia, plasmarla e renderla a sua immagine e somiglianza. Per farlo, come insegna il libro della Genesi, deve fare un bel po’ di fango.
Infatti, trasforma ogni atto politico in una pantomima della quale è il protagonista assoluto e gli altri – alleati o oppositori – sono semplici comparse.
Pensa all’editto bulgaro, quando, il 18 aprile, da Sofia, accusa Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi di aver fatto «un uso criminoso» della TV pubblica. Non è una critica, è un ordine: quei tre devono sparire dalla RAI. E infatti spariscono. È la normalizzazione del controllo sui media, un atto di forza che annuncia, senza ipocrisie pelose, che il dissenso non ha spazio nel sistema editoriale di Berlusconi. Neanche su Rai3, normalmente dedicata al cicaleggio delle opposizioni.

E poi, ancora, pensa al rientro dei Savoia. Quando il Parlamento abolisce l’articolo della Costituzione che vietava il ritorno in patria dei discendenti di Casa Savoia, non sta mettendo in solaio un vecchio arnese: sta facendo ingollare agli italiani l’accettazione dello schifo, vestendolo di pacificazione. Una decisione simbolica e populista: il ritorno dei reali diventa un evento mediatico, un’operazione nostalgia che maschera il vero messaggio politico. Se persino i Savoia possono tornare, allora tutto è possibile: il passato non è più un problema, il potere può riscrivere la storia come meglio crede. E da lì in avanti lo farà. Oh, se lo farà.
E pensa, infine, all’attacco all’articolo 18. Il governo Berlusconi si scaglia contro il mondo del lavoro con il tentativo di modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che protegge dal licenziamento senza giusta causa. Probabilmente, non si aspettava che le proteste esplodessero con tanto vigore, culminando nel grande sciopero generale del 16 aprile. Un milione di persone in piazza a Roma, in una delle manifestazioni più imponenti della storia italiana. Ma per Berlusconi e i suoi, il messaggio è chiaro: la precarietà è il nuovo ordine, e ogni resistenza è solo un fastidio che sarò presto risolto. Da lui o da qualche gregario mascherato che lo segue nella volata.
Berlusconi sa bene che per condurre una trasformazione brutale capace di fortificare i suoi interessi, deve trasformarla in una guerra la cui causa possa essere abbracciata dalla massa di persone più ampia possibile. Per farlo deve trovare dei nemici. E sa sceglierseli.

Il primo è un nemico alla moda, di quelli che, in quest’anno che viene dopo quello di cui è simulacro, si portano con eleganza e disinvoltura: il terrorismo.
Probabilmente Berlusconi ha un fremito quando, il 18 aprile, un piccolo aeroplano si infila nel grattacielo Pirelli a Milano. Tutti, sentendo quello schianto, per qualche ora, siamo certi di essere di fronte a un attacco in sedicesimo del terrorismo islamico. La relazione d’inchiesta dell’agenzia nazionale della sicurezza del volo chiarisce che: «La causa più probabile dell’incidente è da ricercare nell’incapacità del pilota di gestire in maniera adeguata la condotta della fase finale del volo in presenza di problematiche tecnico operative e ambientali».
Più facile ascrivere al terrorismo l’omicidio di Marco Biagi, assassinato dalle Nuove Brigate Rosse a Bologna. Il giuslavorista è un’ottima preda: ha collaborato alla riforma dell’articolo 18 ed è stato lasciato senza scorta.
Il secondo nemico di Berlusconi ha proprio l’aspetto del malvagio. Indossa un costume nero come la notte, che arriva fino ai piedi, impartisce punizioni, a volte esemplari, in accordo a codici complicatissimi e spesso incomprensibili, e si riunisce in congreghe dai nomi misterici come “Magistratura”. Quello tra Berlusconi e i giudici è proprio uno scontro a puntate da feuilleton. Nel corso dell’anno subisce alcune sconfitte in tribunale (la condanna di Previti per corruzione, le indagini sui suoi affari) e reagisce con una strategia che un po’ alla volta prende forma: delegittima la magistratura, grida al complotto, si presenta come vittima di una persecuzione. Ogni processo diventa un attacco politico, ogni accusa è un golpe giudiziario.
Ma è il terzo e ultimo nemico a essere il più interessante. Perché è quello che consente di conquistare il numero maggiore di consensi. Perché è quello che permette di iniziare una guerra senza pallottole vaganti. Perché è quello che si lascia stritolare in maniera evidente dai tentacoli della sicurezza.
Se avessimo ascoltato quella sensazione che si insinuava tra l’aorta e l’intenzione, togliendoci il fiato e appesantendoci il petto, saremmo rimasti umani. La notizia più agghiacciante c’era arrivata con cinque anni di ritardo, nel 2001, e riguardava un incidente occorso nel Natale del 1996. Un barcone carico di persone provenienti da India, Sri Lanka e Pakistan, che viaggiano da circa quattro mesi e hanno comprato la loro libertà in Italia pagando la prima metà dei 14.000 dollari, è stato gravemente danneggiato durante le operazioni di trasbordo dei naufraghi da un’imbarcazione all’altra, in mare aperto. La barca si spacca in tre e il suo carico umano finisce in mare aperto a 35 chilometri da Portopalo di Capo Passero, in provincia di Siracusa. I morti sono almeno 283, ma chi può dirlo. I pescatori di Portopalo, nei giorni successivi, iniziano a trovare resti umani e relitti nelle reti, ma né loro né le autorità locali denunciano il fatto: un’indagine potrebbe interrompere la pesca, unica fonte di sostentamento.
Nel 2002, a guardare le cronache, i migranti che muoiono nel Mediterraneo sono almeno centoventi, ma sappiamo che il numero è molto più grande. Sappiamo la disperazione, il dolore, il sacrificio: gente che mette tutte le proprie speranze e il proprio denaro nelle mani di trafficanti che promettono un trasporto in un luogo molto migliore di quello da cui si fugge. Per affrontare un viaggio lunghissimo, stipati in imbarcazioni fatiscenti e insicure, con pochissima acqua e cibo, scortati da gente armata e priva di scrupoli, bisogna essere molto motivati. Chi sopravvive al viaggio arriva in un paese inospitale, che priva il migrante di umanità enfatizzando la sua alienità e chiamandolo clandestino.
E, allora, si possono mettere in campo gli strumenti della retorica della Sicurezza e trasformarla in norma: il 16 luglio, il Senato approva una nuova legge sull’immigrazione, firmata dal ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu e dai due leader della destra più reazionaria, Umberto Bossi e Gianfranco Fini: la regolarizzazione della presenza su suolo nazionale diventa impossibile in assenza di un contratto di lavoro e migliaia di persone vengono costrette nell’irregolarità. È la politica della paura: il migrante non è più una persona, ma un problema di ordine pubblico. Gli italiani sono autorizzati ad averne paura e a considerarlo un nemico, senza sentire il fetore del sospetto del proprio razzismo.
The Revolution Will Be Televised
«Dopo Genova, pensavamo che non fosse che l’inizio. Credevamo che la lotta dovesse e potesse continuare», mi dice Diana, il sorriso intriso di amarezza. Poi sospira e aggiunge: «Ci siamo accorti in men che non si dica che era l’inizio della fine.»
Nel 2002, chi ha partecipato alla manifestazione contro il G8 a Genova si ritrova a navigare in una terra di mezzo fatta di rabbia e smarrimento. Quel giorno – tra corpi pestati, denunce e prognosi cupe, tra fumogeni che offuscano la verità e il sangue di Carlo Giuliani che segna inconfondibilmente il volto feroce di uno Stato – si è compiuta una frattura irreversibile. In quel caos, lo Stato non appare più come un garante, ma come il mostro dalla mascella spietata, un’entità che ha trasformato l’ordinario cittadino in un nemico da abbattere.

Nel frattempo, alcuni cercano di ricompattarsi politicamente, rifugiandosi nei centri sociali, nei collettivi studenteschi e nei sindacati di base, e continuano a mobilitarsi contro la Guerra al Terrore in tutte le sue forme. Il Social Forum Europeo di Firenze, tenutosi a novembre, richiama centoventimila persone: un ultimo, disperato tentativo di dimostrare che il movimento non è morto. Quella manifestazione, però, è anche il simbolo del progressivo svuotarsi di energie: organizzare nuove edizioni diventa estenuante, e ogni incontro sembra testimoniare una crescente fatica, una stanchezza che si traduce in rinuncia e disincanto.

Mentre l’onda rivoluzionaria, un tempo impetuosa e schiumosa, si riduce a un lento riflusso, molti si ritrovano abbandonati alle poltrone e ai divani, privi di quella scintilla che un tempo li aveva spinti a lottare. Forse è solo il tempo che passa, l’età che avanza. Siamo invecchiati, senza aver costruito una piattaforma di condivisione dell’immaginario a venire, e la sola eredità che abbiamo lasciato è fatta di specchietti, pietre da poco che luccicano e cocci di vetro che non valgono la fatica fatta dal mare a levigarli. A quel punto, seduti in poltrona e inconsapevoli della pochezza del nostro lascito di chincaglieria e pensiero fuori fuoco, possiamo iniziare a parlare male delle generazioni successive che non sono state capaci di raccogliere la nostra eredità di lotta e di rivolta. E adesso spostatevi. Ve lo buchiamo quel futuro!
Sharif don’t like it
Groucho Marx aveva ragione: « Military intelligence is a contradiction in terms».
Durante la prima Guerra del Golfo, nel 1990, la radio dell’esercito statunitense suonava all’impazzata Rock the Casbah dei Clash e il titolo di quella canzone veniva scritto sulle bombe sganciate durante l’operazione Desert Storm. Te la ricordi? Quel brano straordinario è la reazione di Joe Strummer al divieto dell’ayatollah Khomeini di suonare o ascoltare musica rock. E allora, se al potere non piace, bombardiamolo con i nostri suoni. Peccato non si possa chiedere a chi veste una divisa di capire le metafore, mica sono poesia iperdistillata come noi e come Ani Di Franco. Pare proprio che, quando Strummer ha saputo che la sua canzone era diventata un inno di morte, abbia pianto tantissimo.
Nel 2002, il panorama musicale si divide in due mondi ben distinti. Nei centri sociali, nelle occupazioni e nelle manifestazioni – come quelle che animano il Social Forum Europeo – risuonano gli inni della ribellione: Rage Against The Machine, Audioslave, Manu Chao, 99 Posse, Asian Dub Foundation, Zebda, Massilia Sound System, Fugazi, Primal Scream… Questi suoni incarnano la lotta, la voglia di un’alternativa, un’eco contestataria che fa da colonna sonora a un mondo capovolto in cui tutto è da rifare.
D’altro canto, il mercato riflette un’altra realtà. I dischi più venduti sono The Eminem Show di Eminem, Let Go di Avril Lavigne e persino una raccolta un po’ fuori contesto come ELV1S: 30 #1 Hits di Elvis Presley. In un’epoca in cui i CD erano ancora il formato principale – ben lontani dalle app di streaming che sarebbero venute dopo – le copie vendute calavano dell’8% rispetto all’anno precedente. La causa? La pirateria. Napster, la piattaforma che aveva rivoluzionato il modo di ascoltare musica, aveva chiuso nel 2001 e il suo tentativo di trasformarsi in un servizio a pagamento naufraga e si infrange contro il fallimento dell’azienda.

Il 3 febbraio, gli U2 si esibiscono al Superbowl e trasformano uno degli eventi musicali più seguiti al mondo in un tributo alle vittime dell’11 settembre. E mentre il gruppo di Dublino dimostra, ancora una volta, che la musica pop non può restare indifferente davanti alle cicatrici del mondo, Britney Spears, ventenne e simbolo del nuovo volto del pop, è incoronata da “Forbes” come celebrity più potente del pianeta.
Ed è proprio il pop, nell’anno della prima edizione del talent show “American Idol”, a segnare la cronologia delle uscite discografiche: Enrique Iglesias, Robbie Williams, Christina Aguilera e persino Mariah Carey, che all’inizio dell’anno pareva essere stata silenziata con 28 milioni di dollari da Virgin Records.
Michael Jackson, oscillante tra il ruolo di icona antirazzista e la sua crisi personale, passava dall’essere un simbolo di protesta (il caso Tommy Mottola) a compiere gesti assurdi, come spenzolare il figlio dal balcone di Berlino, per poi dichiarare che era stato un terribile errore.

In Italia, la 52ª edizione del Festival della Canzone Italiana, a Sanremo, vede Pippo Baudo premiare i Matia Bazar con Messaggio d’amore. Di solito, nei premi minori, il festival trova sempre spazio per qualcosa di strano, un outsider, un gesto di apertura verso il bizzarro: Elio e le Storie Tese, gli Aeroplanitaliani, Lucio Corsi vent’anni dopo… Ma nel 2002 il massimo dello scarto è Daniele Silvestri, che pure è bravo, ma ormai è un sanremese di professione e porta una canzone che non lascia il segno.
A chiudere un anno di suoni così così, senza alcuna intenzione metaforica, ci arriva la notizia della morte, a soli cinquant’anni, di Strummer, proprio lui. «Sharif don’t like it».
Il trauma della rimozione
Intessere la trama e l’ordito dei fili della memoria è complicato. Il tappeto che ne viene fuori è pieno di nodi sbagliati, buchi, sfrangiature. Il 2002 non fa eccezione.

Ad Alessandria d’Egitto, viene inaugurata la Bibliotheca Alexandrina, un monumento che non solo richiama la leggendaria biblioteca dell’antichità, ma si erge come simbolo della continua ricerca umana del sapere perduto. La cerimonia di apertura, con capi di stato e intellettuali da tutto il mondo, è un rito politico e culturale insieme: il passato diventa un’ombra ingombrante nel cuore di un mondo che fatica a trovare nuovi riferimenti.
Nella narrativa italiana, la letteratura di movimento ha due punti di riferimento chiari: Wu Ming e Valerio Evangelisti. Il collettivo bolognese pubblica 54, romanzo che intreccia intrighi della Guerra Fredda, cinema e resistenza partigiana. Evangelisti, invece, continua a portare avanti i suoi cicli: l’inquisitore Nicolas Eymerich torna in Mater Terribilis, mentre la frontiera americana di Pantera si allarga con Black Flag. Due scritture diversissime, ma unite dall’ossessione per la storia come campo di battaglia.

Intanto, il lato oscuro dell’immaginario prende vita con Coraline di Neil Gaiman e Dave McKean, una favola nera che gioca con l’orrore della perdita e il desiderio distorto di una realtà più confortevole. La paura che striscia nel romanzo è la stessa che si insinua nel mondo reale, raccontato dai saggi che provano a dare un senso al caos globale.
Ci sono libri che inseguono la storia mentre accade. Anna Politkovskaja, con Un piccolo angolo d’inferno, testimonia l’orrore della seconda guerra cecena, un conflitto che il resto del mondo preferirebbe ignorare. Il prezzo che pagherà per il suo giornalismo è noto a tutti. Naomi Klein, con Recinti e finestre, cambia rotta: dopo le analisi di No Logo e Shock, abbandona la teoria e si immerge nel racconto delle proteste globali. È il segno di un’epoca in cui non basta più scrivere un libro a tema, ma è necessario che le idee scendano nelle piazze, senza mediazioni.
Il grande tema dell’anno è la globalizzazione, affrontata da prospettive opposte. Da un lato, Toni Negri e Michael Hardt, con Impero, provano a dare una teoria della nuova era, un capitalismo senza più confini e con nuovi strumenti di dominio. Dall’altro, Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, pubblica La globalizzazione e i suoi oppositori, un attacco frontale alle istituzioni economiche internazionali. Se Negri e Hardt immaginano nuovi scenari, Stiglitz si concentra sugli ingranaggi che determinano le disuguaglianze del presente.
A leggere questa disanima di titoli, si potrebbe pensare a un 2002 di lettori impegnati, avidi di analisi e di strumenti critici. Ma non è così. La verità è che, mentre il mondo brucia e alcuni provano a raccontarlo, la gran parte del pubblico cerca conforto altrove. Non nelle piazze, non nella storia, ma tra le pagine di narrazioni più rassicuranti. La piccola ombra di Banana Yoshimoto o il ciclo di Harry Potter di J.K. Rowling sono la vera colonna portante delle librerie. La battaglia per il senso del presente, quella, resta confinata a pochi scaffali.
Di nuovo l’illusione del nuovo

Prima o poi doveva succedere. Il 22 febbraio muore Chuck Jones, l’anima dei “Looney Tunes” e delle “Merrie Melodies”, all’età di ottantanove anni. È interessante osservare come la scomparsa di questo gigante che è stato un pioniere dell’animazione tradizionale avvenga nel momento in cui Disney decide di chiudere gli studi 2D, perché poco redditizi.
Sul grande schermo il 2002 si presenta come l’anno dei grandi franchise. Tra i maggiori successi troviamo Il Signore degli Anelli: Le due torri, secondo capitolo della trilogia di Peter Jackson, Harry Potter e la camera dei segreti, la continuazione dell’epopea magica tratta dai libri di Rowling, e Spider-Man di Sam Raimi, che trasforma l’eroe in un’icona pop, capace di ottenere gli incassi più grandi nel fine settimana di apertura che si siano mai visti e ha scalzato dall’immaginario del pubblico quel logo fatto personaggio di nome Batman. A testimoniare l’espansione globale del cinema, il più grande successo non statunitense è Hero di Zhang Yimou, capace di unire estetica, epica, azione e narrazione in un contesto del tutto orientale e al contempo facile da globalizzare.
Ci sono anche film che vanno molto peggio di quanto ci si aspettasse: Star Wars: L’attacco dei cloni, secondo episodio della prima trilogia di tre, ma uscita per seconda, di un ciclo di fantascienza puerile e molto amato, è il primo film del ciclo a non essere il campion e di incassi dell’anno. Chissà la delusione per chi era abituato a produzioni sempre vincenti. La morte può attendere è un film del ciclo di 007 con quel pupazzettone di Pierce Brosnan a interpretare un James Bond che non riesce a tenere il passo coi tempi. Il pianeta del tesoro è il film Disney di cui non si ricorda più nessuno e che, nel momento della sua uscita, ha prodotto un’indifferenza così fragorosa che non si è girato nessuno.

A compensare l’insuccesso Disney, Lilo & Stitch emerge come l’ultimo baluardo dell’animazione 2D: un film minore uscito lontano dall’alta stagione natalizia che, pur segnando la fine di un’era (è pure morto Chuck Jones), ci mostra in tutto il suo fulgore il genio di Chris Sanders.
Inaspettatamente e pare solo a un gigantesco passaparola, il pubblico si lascia conquistare anche da Il mio grosso grasso matrimonio greco, scritto e interpretato da Nia Vardalos e diretto da Joel Zwick, che regala una ventata di freschezza e ironia, ribaltando le aspettative di un mercato dominato da grandi produzioni.
Ma il 2002 non è stato solo il regno dei franchise e delle commedie leggere. È anche l’anno in cui il cinema riscrive i generi perché il crollo di quelle due torri ci si è iscritto nell’immaginario: The Bourne Identity, tratto da Robert Ludlum e diretto da Doug Liman, riscrive lo spy movie, sostituendo l’iconico agente segreto con una figura più realistica e paranoica, mentre Minority Report di Steven Spielberg dipinge un futuro in cui la sicurezza diventa sinonimo di sorveglianza onnipresente. A completare questo quadro, Bowling for Columbine di Michael Moore indaga sulla violenza di Stato e sulla cultura delle armi negli USA, presentandosi come documentario e rimarcando l’assenza della finzione filmica.
Se fossi un pessimista che racconta un mondo che precipita, a questo punto la chiusura sarebbe facile. Mi riaggancerei a Silent Running, con cui ho iniziato, e ti direi di come il tentativo di riscrivere il passato e di reinterpretare il presente sia paragonabile alla disperazione di chi manda nello spazio delle serre geodetiche per salvare un mondo naturale perduto.
Invece, lo so bene. Me lo ha spiegato Philip K. Dick, ricordi? Non c’è una traiettoria storica. L’evoluzione dei saperi e delle vite umane è un costrutto. La realtà è un simulacro. È proprio l’abito di dio e quello sciagurato imbevuto di solipsismo è indifferente a continuità, coerenza, piccolezze umane e sicurezza: si veste come gli va. E ogni volta ridefinisce il mondo in cui viviamo.

Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).