Come se fosse Antani (7 di 12)

Boris Battaglia | come se fosse Antani |

Capitolo settimo – Vialetto del tramonto

Capitolo settimo di dodici. Dove ti racconto, davvero per sommi capi, la trama di Brancaleone alle crociate, e ti parlo della morte, provando a definire la poetica di Mario Monicelli.

Il giorno stesso che Giovanni Vivaldi, il protagonista di Un borghese piccolo piccolo – interpretato da un Alberto Sordi in stato di grazia – raggiunge l’agognata pensione, sua moglie Amalia – interpretata da Shelley Winters, l’inquietante Lea di Gran Bollito – che non si è mai ripresa dal malore che l’aveva colpita alla notizia dell’assassinio del figlio, muore. Il funerale si svolge in una chiesa disadorna, alla presenza di pochissime persone. Il prete (interpretato dall’ottimo caratterista Renato Scarpa) conclude l’omelia funebre con queste improbabili parole:

 «Come sono piccoli gli uomini. Che mangiano, dormono, bevono, si accoppiano, mingono, defecano, e poi vanno all’altro mondo. Soltanto chi come noi è costretto ad ascoltare ogni giorno nel segreto del confessionale i racconti che gli uomini fanno delle loro sporcizie, delle loro nequizie, può esprimere un parere sul genere umano. Sulla futilità delle cose terrene. Degli stati, dei regni. E sulla vita nascosta dentro le case. Se dovessi dare un mio giudizio complessivo, emettere una mia sentenza, io volentieri invocherei il diluvio universale. Ed emetterei serenamente una sentenza inequivocabile di morte generale.»

Non ricordo se questo lapidario sermone è presente anche nel romanzo di Vincenzo Cerami o se è stato scritto apposta per il film dai due sceneggiatori (Sergio Amidei e lo stesso Monicelli). Una cosa è certa: è difficile trovare altre parole per definire la poetica di Mario Monicelli.

Non è come l’ha interpretato – per esempio – Gianni Canova in un articolo dal titolo bellissimo rubato a Jacques Attali: Figure di un ordine cannibale (raccolto nell’inutile volume Marsilio del 2001, Lo sguardo eclettico), ma tutto sbagliato nell’assunto e nelle conclusioni. Sostanzialmente Canova sostiene che l’impiego del tema della morte che Monicelli fa nel proprio cinema è sempre declinato verso l’assurdo beckettiano. Assurdo che si trasmuta in parossismo porno-baudrillardiano, perché è lo strumento di cui il regista si serve per mostrare il collasso della socialità nell’Italia a lui contemporanea. A parte il fatto che, fosse vero, dovrebbe essere un collasso durato più di quarant’anni: dal 1955 di quel gioiellino di Un eroe dei nostri tempi al 1999 dell’imbarazzante Panni sporchi

Adesso scusami, ma devo fare uno dei miei soliti incisi, poi riprendo pari pari da dove mi sono interrotto, promesso. Prima però devo chiarire un punto. Sono fondamentalmente convinto che tutti dovrebbero smettere di lavorare prima di compiere i sessant’anni. Il decadimento cognitivo, parlo per esperienza diretta, a quell’età è ormai tale che dovremmo solo starcene seduti davanti al mare a bere vino bianco, a mangiare fritto misto e a parlare dei tempi andati; ma soprattutto è la capacità di capire il presente che è ridotta al lumicino – in me resta vigile solo perché amo contrappormi ai miei coetanei nostalgici e rincoglioniti. Insomma, i vecchi dovrebbero avere due cose: una rete di welfare che gli permetta di smettere di fare danni lavorando anche se non hanno accumulato il diritto di andarsene in pensione, ma soprattutto l’obbligo di andarci, perché, quando è ora di basta, è ora di basta. Per Monicelli il momento del basta sarebbe meravigliosamente stato il 1986, con quel film riuscitissimo (una sorta di testamento) che è Speriamo che sia femmina. Aveva 71 anni, poco meno dell’età di Billy Wilder (e stiamo parlando di un cazzo di genio al cui confronto Monicelli è il Monsù Travet del cinema) quando ha firmato l’ultimo film. Smetteva e si sarebbe evitato tredici anni di un decadimento imbarazzante.

Comunque: io quei tredici anni glieli perdono; almeno per due motivi. Il primo è Parenti serpenti, un brutto film, tutto sbagliato sul piano formale, ma fondamentale dal punto di vista ideologico – te ne dico tra un attimo – e poi e soprattutto per il fine vita che si è regalato, al contempo ridicolo e tragico, intimo e plateale, individuale e collettivo, assolutamente amorale, come tutta la sua opera e come la vita. Ecco, non lo so se volevo arrivarci davvero, ma l’ho detto. La morte di Monicelli è stata coerente, probabilmente con tutta la sua vita – ma non ho le conoscenze necessarie a poterlo affermare con certezza – e soprattutto con la sua opera. Questo lo affermo senza tema di smentita: la messa in scena della propria morte è stata il suo capolavoro finale. Per molti versi aderente esteticamente e ideologicamente alla sequenza finale di Amici miei.

Dubito tu non lo sappia. Nella remota ipotesi però che ci sia invece, a differenza di te, qualcuna o qualcuno tra chi ha il tempo da buttare per leggere questo saggio, che ne sia all’oscuro, la racconto qui, la morte di Monicelli.

Erano circa le nove di sera del 29 novembre 2010, quando Mario Monicelli, ricoverato per un cancro terminale alla prostata nel reparto di urologia dell’Ospedale San Giovanni-Addolorata di Roma, si getta dalla finestra della sua camera al quinto piano. Pioveva. Troveranno i suoi resti sfracellati nel fango delle aiuole del vialetto del reparto. Tutti a chiedersi perché mai lo avesse fatto. Il più stolido di tutti, Carlo Verdone (per come la vedo io, uno dei peggiori e più sopravvalutati registi della storia del cinema italiano, secondo solo a Dario Argento) dichiarò a caldo che “era una persona stanca di vivere, che non sopportava più la vecchiaia”. Può anche darsi, aveva 95 anni e che fosse stanco ci sta. Ma quello che Monicelli quando decise di suicidarsi non voleva sopportare, non era la vecchiaia, era il dolore di quel cazzo di canchero che lo avrebbe comunque, lentamente ucciso. Una lunga agonia che gli avrebbe tolto anche quella residua dignità che la vecchiaia gli aveva lasciato.

Finito l’inciso. Adesso riprendo il discorso esattamente da dove lo avevo interrotto.

…e poi Monicelli non era mica Pier Paolo Pasolini. Non ha mai avuto una visione etico-messianica della propria opera, e soprattutto non ha mai creduto in una presunta precedente età dell’oro in cui la società italiana era legata e animata da un’identità collettiva fatta di povertà, purezza e innocenza. Non c’è alcuna nostalgia in ciò che ci racconta. Ciò che la morte rappresenta nel suo cinema non è una condanna morale della contemporaneità. Quella «sentenza inequivocabile di morte generale» pronunciata dal prete in Un borghese piccolo piccolo, non è una sentenza in senso giuridico, non è un giudizio. Il giudizio è stato dato prima, con l’invocazione del diluvio universale. La sentenza finale è da intendersi in senso scolastico (nell’ottica di Tommaso D’Aquino, non certo in quella della più burocratica delle classi professionali: gli insegnanti), l’espressione filosofica (infatti la pronuncia un prete, mica un giudice) di una conseguenza, la constatazione di un destino.

Però intendiamoci. Se Monicelli non era un regista particolarmente estroso sul piano formale e le sue inquadrature, a differenza – per esempio – del suo amico Germi, sono poche e sempre funzionali al racconto, fino alla banalità, così non è per la sua struttura ideologica. Se si fosse limitato a constatare che la morte è il nostro destino, sarebbe stato più banale e lapalissiano di Jorge Louis Borges, quando scriveva in Sei problemi per don Isidro Parodi: «La morte è un’usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare.»

Nella sua opera Monicelli sostiene non che la morte sia il nostro destino, ma che essa è l’artefice del nostro destino. Toh, è morta la nonna, film del 1969 è programmatico in questo senso, con la morte della vecchia Adelaide che fa da catalizzatore di tutte le vicende; ma già dieci anni prima, quando firma il suo primo capolavoro, I soliti ignoti, Monicelli ha chiara l’idea che è la morte a creare le condizioni del nostro agire. Infatti, è per la morte di Cosimo, finito sotto un tram durante la fuga dopo un tentato scippo, che la rapina assumerà finalmente i contorni di una possibilità reale. Se in Romanzo popolare (1974) è a causa di un funerale che si consuma il tradimento di Vincenzina, in Un borghese piccolo piccolo, la morte è il motore primo e la ragione che guida le azioni di Giovanni Vivaldi e segna il destino di chi lo circonda. In Parenti serpenti, l’ultimo film non completamente imbarazzante di Monicelli, come ti dicevo, il ruolo della morte quale definitrice di destini, è reso ideologicamente esplicito: pur come extrema ratio, essa aleggia fin dall’inizio su tutti i personaggi – borghesi più piccoli del Vivaldi e senza una ragione, che non sia l’abitudine alla vita, per restare vivi – e diventa il collante degli elementi, altrimenti disgiunti, del più piccolo tra i nuclei sociali: la famiglia.

Lo sviluppo più articolato e, in qualche modo, teorico dell’idea della morte come beffarda sceneggiatrice delle nostre vite, Monicelli – con i fidati Age & Scarpelli – lo realizza nel 1970 con Brancaleone alle crociate.

Per quanto io sia certo che non possa esserci nessuna tra le lettrici e nessuno tra i lettori di questo saggio, che non l’abbia visto almeno due volte, ritengo opportuno dedicare l’ultima parte di questo capitolo a descrivere come procede il discorso monicelliano in questo film. Se hai paura di annoiarti salta direttamente all’ultimo paragrafo.

Scampato, in modo comico e ambiguamente fortuito, al massacro della compagnia con cui sta per recarsi in Terra Santa, Brancaleone (un Vittorio Gassman perennemente in overacting) si sente coperto di vergogna. Per questo invoca la morte che, senza farselo ripetere, si presenta al suo cospetto (sotto la pesante maschera da teschio si celava Gigi Proietti) pronta ad accontentarlo elencandogli una serie di possibilità: «Ti fo scegliere: un coccolone? Peste improvvisa? Verniculite? Ovvero un fulminante disciogliersi de lo corpo?»

È interessante notare che la morte recita in fiorentino. Questo stabilisce una sorta di collegamento (a posteriori certo) con il film che Monicelli girerà 5 anni più radi e che è l’argomento centrale di questo saggio.

Indignato da così vili proposte, Brancaleone dichiara che a lui si addice una morte gloriosa. La morte, convintasi delle sue ragioni, gli concede una dilazione di sette lune e gli da indicazioni precise su dove trovarla. Seguendole, il nostro improbabile cavaliere vivrà una serie di avventure esilaranti e farà una serie di incontri fondamentali, tra cui quello con la strega Tiburzia (una Stefania Sandrelli, qui – a mio avviso – più bella che mai) che salverà dal rogo. Quando Brancaleone sta finalmente trovando la sua gloriosa morte, viene salvato da Tiburzia che è segretamente innamorata di lui. Inferocito per l’intervento della strega, Brancaleone la insegue per ucciderla, ma a questo punto ricompare la morte: il tempo è scaduto e lei è lì per riscuotere il suo credito. Dopo un violento duello, durante il quale riesce anche a portare un fendente al ventre dell’angelo sterminatore (ma non si può uccidere la morte), Brancaleone si arrende e rassegnato porge la testa alla falce della sua antagonista. Ma tra lui e il colpo di falce si frappone Tiburzia, che viene colpita al suo posto. La morte ha avuto una vita. Soddisfatta se ne va. Nell’ultimo atto di agonia, Tiburzia confessa a Brancaleone il proprio amore.

Limitatamente alla trama, chi ha definito il film una parodia del Settimo sigillo di Ingmar Bergman non ha tutti i torti. Monicelli ha sempre negato di essersi ispirato al film del regista svedese, e questa è una balla a metà. Le attinenze ci sono eccome: il medioevo e le crociate, l’incontro con la morte, la dilazione, l’incontro con la strega sul rogo, e mille altri dettagli. Ma è completamente diverso l’assunto teorico. Quello di Bergman, sostenuto da una regia in cui ogni dettaglio ha valore simbolico ed estetico, riguarda l’angoscia del nulla che ci attende, per dirla un po’ alla buona: il senso della vita; quello di Monicelli, tenuto insieme da una regia – ammettiamolo – un po’ raffazzonata, non si interroga su nessun senso, la vita è una commedia paradossale e la morte ne è contemporaneamente autrice e personaggio.

A Monicelli non frega nulla delle questioni esistenziali e filosofiche. Le cose stanno così e basta. La morte crea il destino delle nostre vite perché noi cerchiamo in continuazione di sfuggirle, addirittura, alle volte – e qui sta il paradosso (sottolineato dalla sequenza finale del film, quando la strega Tiburzia torna in forma di gazza da Brancaleone) – proprio morendo.

Forse non ci hai mai fatto caso. La voce narrante di Amici miei, film che Monicelli eredita da un morto, è – come in Viale del tramonto (prima non l’ho mica citato a caso, Billy Wilder) – quella di un morto. Se ti ho fatto uno spoiler, perdonami, però le cose stanno così, il film si conclude con il funerale del Perozzi.

Sfuggire alla morte morendo. Fa ridere, ma stiamo parlando del maestro della commedia all’italiana. La sua poetica è tutta lì, in quel corpo schiantato lungo un vialetto di un ospedale. Che probabilmente, prima di gettarsi ha pensato come il suo personaggio:

«Allora levatevi da’ coglioni che devo morire.»

E non è per niente una poetica da poco.

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