Un giornale conservatore e moderato

Paolo Interdonato | Il fumetto di Babele |

Il “Corriere della Sera”, il quotidiano che aveva titolato «Re Umberto assassinato a Monza», era stato fondato ventiquattro anni prima da Eugenio Torelli Viollier, un giornalista napoletano, squattrinato ma pieno di idee, che, prima di giungere a Milano, era stato un garibaldino, un impiegato ministeriale, l’assistente tuttofare di Alexandre Dumas presso “L’Indipendente” a Napoli e un giornalista a Parigi. Proprio dalla Francia, esattamente come Bresci, era arrivato a Milano, rispondendo all’invito dell’editore Edoardo Sonzogno che aveva assegnato al giovane la direzione di due riviste culturali dalla tiratura estremamente contenuta: “L’illustrazione universale” e “L’Emporio pittoresco”.

Appena arrivato in città, aveva potuto osservare che, pur non essendo ancora uno dei grandi centri europei – come Monaco, Berlino, Vienna e, appunto, Parigi – Milano brulicasse di una vita culturale assai vivace.

L’incarico di direttore si era rivelato poco redditizio e di scarsa durata: nel giro di pochi mesi, Torelli Viollier, senza un’occupazione sicura, aveva iniziato a collaborare con le molte testate pubblicate in città e, covando un senso di insoddisfazione e rivalsa, aveva maturato un sogno.

Milano aveva meno di trecentomila abitanti, metà dei quali per giunta analfabeti. A quelli in grado di leggere erano offerti otto quotidiani diversi e oltre duecento pubblicazioni di ogni sorta e genere. In questo contesto complesso e affollato, Eugenio Torelli Viollier aveva raccolto a stento i capitali appena sufficienti a lanciare un nuovo quotidiano.

Durante le prime ore della sera del 5 marzo 1876, la galleria Vittorio Emanuele si riempie di strilloni inattesi. È la prima domenica di quaresima e, tradizionalmente, a Milano non si vendono giornali. Il quotidiano brandito dai venditori urlanti è “il Corriere della Sera” e si presenta con un editoriale che il neodirettore Torelli Viollier ha scelto di non firmare, perché intende parlare a nome suo, dell’intera redazione e del giornale:

«Pubblico, vogliamo parlarti chiaro. […] Noi siamo conservatori e moderati. Conservatori prima, moderati poi. Vogliamo conservare la Dinastia e lo Statuto, perché hanno dato all’Italia l’indipendenza, l’unità, la libertà, l’ordine. […] Apparteniamo cioè al partito ch’ebbe per suo organizzatore il conte di Cavour […].Il che non vuol dire che battiamo le mani a tutto ciò che fa il Governo. […] “Noi vogliamo, ha detto il conte di Cavour, la libertà economica, noi vogliamo la libertà amministrativa, noi vogliamo la piena ed assoluta libertà di coscienza, noi vogliamo tutte le libertà politiche compatibili col mantenimento dell’ordine pubblico”. […] Ci piace essere obbiettivi; ci piace ricordarci che tu, pubblico, non t’interessi che mediocremente ai nostri odî ed ai nostri amori; che vuoi anzitutto essere informato con esattezza; ci piace serbare, di fronte a’ nostri amici migliori, la nostra libertà di giudizio, ed anche, se vuolsi, quel diritto di frondismo ch’è il sale del giornalismo.»

Il pubblico cui quel giornale si rivolge è un’élite: la borghesia, la classe dirigente. Il primo numero va a ruba. Vende quindicimila copie, cinquemila più di quanto sperasse Torelli Viollier nei suoi momenti di maggior ottimismo. Bazzecole, se paragonate al milione di lettori del “New York World”. Eppure sufficienti a dare una spinta rivoluzionaria all’idea di giornalismo della nascente Italia unita. I lettori del “Corriere della Sera” non sono le future vittime dei cannoni di Bava Beccaris, non abitano le aree povere e depresse della città, non si spaccano la schiena di lavoro malpagato. Pulitzer vuole parlare con tutti; a Milano, le fondamenta devono essere gettate su un terreno assai meno esteso.

Note:

Le origini del “Corriere della Sera” sono raccontate (con una prosa che avrebbe meritato un editor più severo) in Il garibaldino che fece il Corriere della Sera: Vita e avventure di Eugenio Torelli Viollier di Massimo Nava (Rizzoli, Milano, 2011).

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