(Le illustrazioni sono di Lucia Lamacchia, che è responsabile di quanto segue almeno quanto lo sono Ugo e Michel.)
Mi pare che questa storia sia iniziata proprio così. Pensieri oziosi intorno al bello mentre mi giro tra le mani un oggetto che mi pare brutto. Non sono in grado di dire quanto pesi. Un paio di chili, forse. È un’ottima riproduzione di una statua a cui non riesco a riconoscere alcun valore, se non quello della materia di cui è composta. Mi pare orribile. Un pensatore seduto su una base che pare la tazza del cesso. E invece di essere rilassato e inerte, tutto preso dal meditare, ha tutti i muscoli contratti. Servono una fatica e una spinta incredibili per far uscire questo pensiero.
Però adesso so alcune cose. Prima che ce la rubasse, Armando Guittoni ha detto che questa statua è di Camille Claudel. Stando a Christine, che avrebbe condiviso con la scultrice anni di manicomio, questa riproduzione apparentemente perfetta è stata lavorata a memoria. E lo smalto rosso che pare imbrattarla fa parte dell’opera. Non c’è rabbia o risentimento o vendetta. Fa proprio parte dell’opera. È stata pensata così.
Se la guardo con questa consapevolezza, ecco che quella che prima mi sembrava una brutta statua diventa bellissima. Mi costringe a interrogarmi sull’identità di chi l’ha fatta, sulle sue intenzioni. E non posso più essere un destinatario indifferente alle volontà dell’opera e della scultrice.
Devo sapere tutto di questa forma. Accettare la supremazia della sensibilità pura nell’arte. Le apparenze esteriori della natura non offrono alcun interesse; solo la sensibilità è essenziale. L’oggetto in sé non significa nulla. L’arte perviene all’espressione pura senza rappresentazione.
«Cosa stai facendo?» È Michel che mi fulmina con uno sguardo. Poi continua, «Appoggialo, per favore. Se ti cade si rompe e rovini il parquet. Una lamatura, in questo periodo, è fuori discussione!»
È iniziata proprio così. Ci guardiamo stupiti. Poi, scoppiamo a ridere. Appoggio con attenzione il Pensatore di Claudel e abbraccio l’uomo della mia vita. Resteremmo così per un tempo lunghissimo se, dopo alcuni secondi, Michela non richiamasse la nostra attenzione. Picchietta sul tavolo il cucchiaio con cui continua a pescare marmellata dai barattoli, «E adesso cosa facciamo?»
I capelli, non lunghi, le si sono asciugati da soli durante la colazione e hanno assunto un aspetto leonino. Il livido sul viso è quasi scomparso. Si alza, muovendosi lenta e felina. Indossa un paio di jeans e una camicia bianca che ha scelto, con assoluta indifferenza, dal mio armadio. E non le vanno neanche troppo larghi. Dannazione! I pantaloni le stanno anche meglio che a me. Si avvicina e appoggia le mani sulla mia spalla e su quella di Michel. L’abbraccio si allarga, accogliendola.
«Nascondiamo il Pensatore e torniamo a far visita a Guittoni.», dico, «Ci deve delle spiegazioni.»
Prima di muoverci ci godiamo l’abbraccio. A lungo.
In reception non hanno neanche dovuto lasciare i documenti. Ugo, Michel e Michela sono già stati registrati sul sistema e, in quell’occasione, hanno anche firmato i fogli della normativa sulla privacy. Ormai conoscono la redazione di “Cash art” come fosse la casa di un amico. Si muovono senza difficoltà e i due cani da rapina che sono andati ad accoglierli sono costretti a seguirli. Puntano l’ascensore senza indecisioni e pigiano il bottone del quinto piano. A ben vedere, i due gorilla sembrano conciati peggio dell’ultima volta. Come se qualcuno li avesse di nuovo pestati bene. Il livido sul volto di quello con il tatuaggio sul collo sfuma dal viola scurissimo in corrispondenza degli occhi fino al giallo distribuito sull’intero viso. Sembra quasi che un monaco tibetano discromatopsico abbia usato la sua faccia per disegnare un mandala in cui sperimentare l’intera gamma dei colori malati. L’altro ha ora entrambe le braccia fasciate e, mentre sposta lo sguardo da Michel a Michela, nei suoi occhi si accende a intermittenza un’intensa nota di terrore.
«NON LASCIATE CHE MI SI AVVICINI!», grida Armando Guittoni, quando la piccola comitiva entra nel suo ufficio senza esitare. Il sedicente critico ha una grossa medicazione sulla guancia, occhi colmi di terrore, e agita l’indice della mano destra in direzione di Michela.
Ugo e Michel, spostano lo sguardo dal ditone tremante al volto rilassato della donna che sembra più preoccupata dal fatto che i jeans tendono ad abbassarsi che dalla reazione isterica al suo ingresso.
Michela, sentendosi osservata, si scopre il viso tirando indietro i capelli con la mano destra e fa un sorriso ampio, mostrandoci denti bianchissimi. Guittoni squittisce, si lascia cadere sulla sedia e si nasconde il viso tra le mani.
Michel attraversa la stanza, appoggia entrambi i palmi sulla scrivania e si sporge verso il critico. «Se non vuole che lo rifaccia, adesso ci dice tutto.», dice, «Ci vuole pochissimo perché si scopra di nuovo il viso e sorrida in quel modo che la paralizza di terrore… Basta che glielo chieda con gentilezza.»
I due cani da rapina si accasciano accanto al padrone. Guittoni inizia a singhiozzare.
«Dirò tutto!»
La guardiamo mangiare famelica. Ci siamo fermati in questo fast food in cui la gente fa ancora colazione. Abbiamo ordinato tre menu large, quelli con il bicchiere e la vasca di patatine fritte più grandi, e ci siamo seduti.
Ora guardiamo Michela divorare panini che tanfano di plastica e patatine molli.
Continua a spostarsi i capelli all’indietro con le mani un po’ unte e ci sorride.
Ci ha promesso che, dopo aver zittito la fame, ci spiegherà tutto.