di Francesco Milo Cordeschi
Vogliamo bene ad Armillaria per diversi ottimi motivi. A dimostrazione della solidità delle ragioni del nostro affetto, l’unico saggio dedicato a Wonder Woman, in occasione degli ottant’anni della supereroina, riporta in copertina proprio quel marchio: Wonder Woman: Un’amazzone tra noi di Francesco Milo Cordeschi.
Le note della casa presentano così il libro:
«Nel dicembre del 1941 – bella come Afrodite e saggia come Atena, con la velocità di Mercurio e la forza di Ercole – Wonder Woman arriva in edicola per squassare il sonno dei benpensanti americani. Lascia Paradiso e le consorelle Amazzoni per venire a salvare la Terra degli Uomini ma quello che fa davvero è compiere uno dei più clamorosi sabotaggi culturali del contemporaneo. Negli ottant’anni della sua carriera, Wonder Woman è stata riletta e reinterpretata tantissime volte. E Francesco Milo Cordeschi ci guida in questo viaggio dell’eroina con un saggio denso che indaga e celebra tutte le figurazioni di forza femminile che la Donna Meraviglia nei decenni ha incarnato. Perché Wonder Woman non è solo una delle icone più mainstream della cultura pop e del nostro immaginario ma è quintessenzialmente una storia del femminile e del femminismo, di cui cavalca e assorbe tutte le ondate.»
Di seguito alcuni stralci del saggio qui proposti per concessione dell’editore e dell’autore. Per leggere il resto, clicca QUI e fatti un regalo: questo libro rosso sta benissimo sotto l’albero.
Supreme – The Wonder Woman
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Per quanto pretestuoso possa sembrare parlare ora di utopie in rapporto a femminismi e stravaganti guru della persuasione, è interessante notare delle coincidenze.
Le suddette utopie furono il corollario antologico di un sentimento da molte e molti condiviso. Tra quei molti troviamo indubbiamente il nostro Marston che, da teorico dichiarato di un femminismo preminente, sostiene l’indubbia superiorità morale della donna sull’uomo. Sfida impavido le litanie comportamentiste dei suoi colleghi (John B. Watson e in parte Lewis Terman, tra i padri del test sul QI), che vedono nel femminismo una sorta di devianza, dettata dall’incapacità della donna di adattarsi sessualmente ai codici normativi. […] Ma Marston non si accontenta di controbattere con le sue idee, no. Rapito da un impeto perfezionista, vuole dimostrarne la validità scientifica. Tra il 1919 e 1921, lui e la moglie Elizabeth coinvolsero dieci donne e dieci uomini in un esperimento dai tratti assai controversi: misurando la pressione arteriosa sistolica con la sua macchina della verità, tentano di dimostrare che le emozioni delle donne sono più complesse perché radicate nella loro sessualità. William era a suo modo un visionario, credeva di essere un progressista profetico in anticipo sui tempi. C’erano in lui tutti i presupposti, culturali ed epistemici, per immaginare che ben presto si sarebbe imbattuto nell’immaginario delle Amazzoni. Come accennato, però, qualcuno arrivò ben prima di lui. Nell’era del pieno fermento creativo delle utopie femministe c’era da aspettarselo.
Il 1913 vede infatti l’uscita del racconto di Max Eastman Child of the Amazons, and Other Poems, il primo richiamo esplicito all’universo amazzone, che narra il turbolento rapporto tra un uomo e un’Amazzone. All’epoca Eastman è molto vicino al socialismo ed è membro fondatore della Men’s League for Women’s Suffrage, che coadiuva attivisti uomini in favore del suffragio universale. L’anno dopo è invece il turno di Ines Hayes Irwin col romanzo Angel Island, incentrato sulle vicende di cinque uomini americani naufragati su un’isola abitata da donne «super-umanamente belle», come da descrizione. Ora il quadro è più chiaro. A metà del ‘900 il terreno è fertile: gli uomini, i piccoli Capitan America del mondo anglofono, stanno per imbracciare le armi e combattere un nemico fisico, reale; alle donne spettano nuove forme di aggregazione e rappresentanza. È giunto il momento che Wonderland conosca finalmente Herland. Fu proprio in questa comunione che avvenne il vero colpaccio di William; non soltanto perché, dopo la cantonata di Hollywood, trova finalmente la sua vocazione nel mondo del fumetto, nel quale incanala buona parte delle sue teorie psicologiche e cognitive (celebre l’elogio a Max Gaines per il lavoro svolto su Superman), ma soprattutto per l’incredibile cortocircuito generato nell’immaginario popolare del tempo. E se pensate soltanto all’aver catapultato un’eroina in un mondo di soli eroi maschili, siete fuori strada.
«Bella quanto Afrodite e saggia quanto Atena, con la velocità di Mercurio e la forza di Ercole, è nota soltanto come Wonder Woman, ma chi sia o da dove venga, nessuno lo sa!» Questo claim presenta tutti i requisiti di una dichiarazione d’intenti. Potremmo coglierne alcuni punti in comune con l’avanguardia novecentesca: il linguaggio dinamitardo, l’ambizione sfegatata di un nuovo team creativo e, come ogni avanguardia che si rispetti, il desiderio impietoso di percuotere e sconcertare. Certo, i toni non mancano di una certa retorica trionfalista; d’altro canto, è il dicembre del 1941 e a pochi giorni dall’attacco a Pearl Harbor la macchina della propaganda è più che mai in azione. Sensazionalismo a parte, queste righe squassano il sonno della ragione dei benpensanti d’America, diffondendo un messaggio ben preciso: non è una diceria, da oggi anche la donna è super. Anzi, non proprio super; è la donna delle meraviglie.
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Paradiso, tra gioco e sogno
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Nelle sue apparenti sfumature kitsch, la terra natia di Wonder Woman ha avuto il grande merito di restituire popolarità su larga scala a un intero corpus che, per decenni, era stato adombrato dalla produzione letteraria maschile. Paradiso riscatta la lunga invisibilità di quelle utopie, di quei matriarcati pacifici delineati da scrittrici come Gilman, che rifiutavano la divisione ‘naturale’ dei ruoli mirando a una ridefinizione complessiva della società. I nostri compagni di viaggio più minuziosi potrebbero controbattere: capisco il tuo pensiero, però mi domando, se Paradiso è il manifesto identitario che dici, perché Diana se lo lascia alle spalle? In verità è un ottimo quesito. Rimanete seduti.
There’s no place like home? No grazie
Capiamoci subito, non esiste alcun confronto plausibile tra Wonder Woman e le stimatissime controparti maschili che l’hanno preceduta. Il suo passato non è burrascoso, non è vessata da alcun trauma, non ha ombre; lei è pura luce, è una Donna Meraviglia. Le sue abilità sono ontologiche, sono quelle di un’Amazzone. Non si è imbattuta in un mago, non è incorsa in un esperimento, mutazione genetica o incontro accidentale. Il suo superpotere è lei. La sua forza sono le sue scelte. Prima fra queste c’è il suo espatrio volontario: il passaggio da una dimensione deistica, iperurania e privilegiata, alla fragile umanità. Diana non fugge da un mondo in rovina. Nella sua isola prospera una rigogliosa vegetazione e diverse risorse naturali, non esiste indigenza né malattia, nessun odio, nessuna guerra. Paradiso non è Krypton, è evidente («Vorrei vedere» avrebbero commentato sornioni Marston, Holloway e Byrne: «a Krypton vigeva pur sempre il patriarcato!»).
In un certo senso quello di Diana è un viaggio che, configurato nell’ecosistema di Wonderland, potremmo riconoscere in un espediente diegetico all’epoca molto in voga. il cammino dell’eroe. Voi che siete lettori e lettrici sagaci (e per di più seriofili) sapete già che non era in voga solo nella Golden Age dei fumetti: affonda le radici nell’epica classica per poi sfociare in canali di trasmissione sempre più vasti. Alcuni degli esempi più recenti li abbiamo già menzionati: dalla produzione d’appendice al romanzo di formazione. La narrazione mainstream, e lo stesso filone supereroistico, cannibalizzano quest’esperienza per offrire una nuova vitalità semiologica ai valori principali dell’identità anglosassone (e non solo). Uno di questi è la casa, home. Non ci sono altri posti come casa al mondo, è parte carnale di noi ed è anche ciò che siamo; è la nostra terra madre (ennesimo plot twist, si torna a Herland!). A parlarcene sono state, non a caso, due grandi icone: Judy Garland e Vivien Leigh; stesso anno (1939), stessa regia (Victor Fleming), cambiano i film: Il mago di Oz e Via col vento (due monumenti). «There’s no place like home» mormorava a mo’ di mantra Dorothy per tornare finalmente nel suo Kansas agreste, come agreste era anche Tara, la terra-madre di Rossella, invocata con gloria epifanica in quel finale indimenticabile: «Home. I’ll go home. And I’ll think of some way to get him back. After all, tomorrow is another day» (alba trionfante, sagome nere, Max Steiner come se piovesse, brividi e fu storia). Wonderland ci ha fatto credere che, alla fine, saremmo sempre tornati a casa. E che se pure fossimo degli alieni umanoidi di una civiltà estinta, ne potremmo trovare un’altra – anche se ciò ci costringesse a infilarci in una discutibile tuta rossoblù. Giunti a questo punto vi starete chiedendo: ma quindi, cosa fa Wonder Woman di così diverso? Mi sembra ormai evidente, è un discorso più semantico che logico: il suo è il viaggio dell’eroina, non dell’eroe. Torniamo alle origini: che cos’è Wonderland? Anzi, cos’era Wonderland prima che Banti ne facesse un concetto? Era un luogo, uno spazio liminale a metà tra lo spiegabile e il percepibile. Lo attraversa Alice nel magnifico delirio schizoide di Lewis Carroll del 1865. In quella Wonderland, in quel viaggio convulso e psichedelico, c’era già tutta la grammatica popolare del ‘900. Grazie alla quest, la ricerca, la protagonista intraprende una sorta di rito di passaggio dall’infanzia alla pubertà: abbandona lo stato puerile per diventare un’adulta pienamente inserita nella società. Wonder Woman spezza questo dogma, se ne libera. Quante volte l’abbiamo vista infrangere catene dai polsi imprigionati? È la sua iconografia, il suo marchio di fabbrica.
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Un altro eroismo
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C’è stato un tempo in cui tramandare miti e tragedie, parlare di Zeus come personificazione aurea del potere e di Atena dell’intelletto, era un utile viatico per fornire risposte, per intercettare la morale collettiva e orientare la vita comunitaria. Come è noto, questa lezione non tardò nel tempo a maturare in altre forme e linguaggi. Parliamo quindi di un filo rosso, tracciato già nelle ere più antiche, arrivato a contemplare l’epica cavalleresca e, molto più avanti, questo breve spaccato della contemporaneità che stiamo raccontando.
William Moulton Marston è stato soltanto uno dei numerosi apologeti di un’inedita ‘teogonia’ novecentesca introdotta dal fumetto, che aveva come principale proposito la riscoperta e la riattualizzazione del canone classico. Non dobbiamo tener conto soltanto dell’influenza esercitata da Superman e dagli altri modelli imperanti del supereroismo maschile (sebbene l’esempio impartito da Shuster e Siegel sia stato una base imprescindibile). Giunti a questo punto, è necessario concentrarci su ciò che ha rappresentato Wonder Woman come caso editoriale.
Rispetto a quanto ci è stato restituito tradizionalmente dai meri dati biografici, sarebbe giusto pensare alla principessa Amazzone come il frutto di un’opera collettiva. Penso sia opportuno discostarsi dalla visione uniforme, per la quale l’eroina ha avuto un solo e unico creatore. Non vi fu solo un padre ma, ricordiamolo a gran voce, anche due madri, Olive Byrne ed Elizabeth Holloway Marston. Per essere più scrupolosi, andrebbe annoverato anche un altro nome: quello di Joye Hummel, la vera ghostwriter della serie dedicata all’Amazzone, autrice di oltre settanta storie tra il 1944 e il 1947. Complice l’ingombrante pseudonimo di Charles Moulton, che corredava la maggior parte delle prime vignette, i meriti di Hummel passarono clamorosamente in sordina per venire riscoperti più avanti. Solo nel 2014, grazie a un’intervista dell’accademica Jill Lepore per il libro The Secret History of Wonder Woman, la fumettista ha chiarito il dietro le quinte: quale ex studentessa di Marston, venne assunta dallo psicologo come assistente al lettering della serie, per poi divenire, dopo neanche cinque mesi, una delle autrici di punta assieme a Dorothy Woolfolk (editor che si stava affermando anche nel comparto creativo di Superman, a lei si deve l’intuizione della kryptonite).
Gran parte della caratterizzazione dell’Amazzone e dei canovacci narrativi dei suoi primi albi furono, quindi, figli di un lavoro a più mani. L’intuizione embrionale fu di William. A dispetto delle prime esitazioni di Elizabeth, titubante all’idea che il pubblico del tempo fosse pronto ad accogliere la prima paladina donna, perseverò in quella che divenne un’autentica crociata personale: dar finalmente linfa e vitalità a quel «nuovo tipo di donna che avrebbe dovuto governare il mondo», come lui stesso affermava trionfante.
Il successo fu, man mano, travolgente. Wonder Woman non solo fece irruzione nel parnaso degli eroi su carta della Golden Age, ma giunse a destrutturarlo dall’interno. Obbligò a riflettere sul fatto che un altro eroismo era possibile: non solo perché poteva essere incarnato da una donna (fin troppo semplice come assunto), ma anche perché, per la prima volta, essere eroi, anzi, eroine poteva essere il prodotto di una scelta e non di un destino già scritto.
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Ritorno a Herland
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Nell’epoca della piena affermazione della seconda ondata del femminismo, animata da voci e istanze rinnovate, la scintilla della Guerriera Amazzone sembra essersi affievolita nelle brume della globalizzazione e nelle antinomie dell’Occidente sviluppato. Potremmo azzardare una diagnosi: non c’è più interesse a rendere Diana un personaggio popolare; al riparo dei comodi statuti moraleggianti del dopoguerra, nessuno osa più raccontarla nella sua tridimensionalità politica. Non è più un’audace interprete di moti e fermenti. Nessuno vuole più scommettere sul suo protagonismo. Unica soluzione plausibile, un sano atto di ribellione. Sull’esempio di quanto avvenne coi suoi primi passi editoriali, quando l’ingresso di Diana aveva destrutturato gli automatismi e topoi narrativi di Wonderland, rimodulando la logica del viaggio dell’eroe e il concetto dozzinale di supereroismo, un ennesimo sabotaggio culturale. Certo, da sola può fare ben poco. Prima di ritornare nella Terra degli Uomini da principessa guerriera, Diana deve anzitutto tornare a Paradiso: le donne devono riappropriarsi della loro Amazzone. È nell’aria un riscatto semiologico. La contemporaneità sta per incedere di nuovo. La linea del tempo sta per deviarsi.
Prima di riacquisire titolarità nell’apparato supereroistico, a Wonder Woman serve un nuovo rilancio mediatico. L’eroina deve presentarsi ai lettori e alle lettrici con un’identità di rottura, del tutto inedita. Per tornare al centro della scena pubblica, deve ripristinare il dialogo con la modernità. Considerando il limbo creativo dei decenni precedenti, l’Amazzone deve essere catapultata in un nuovo presente. È l’editrice e attivista Gloria Steinem a destarla dal suo ‘sonno antologico’. È lei a reimmergerla nuovamente nel flusso eracliteo della storia. E senza badare agli eufemismi.
Nel primo numero della rivista “Ms.” (1972) fondata da Steinem, Wonder Woman figura in copertina con il suo outfit originale (corpetto, lazo e tiara): con delle proporzioni mastodontiche, quasi un enorme Kaijū nipponico, la Guerriera Amazzone sovrasta un’immaginaria cittadina statunitense divisa in due frazioni: l’una trafficata, con pedoni, macchine e palazzi (una delle costruzioni ospita un manifesto dalla vistosa dicitura Peace and Justice in ‘72); l’altra, invece, rasa al suolo, sfibrata da bombardamenti aerei, fumi di napalm e mitragliatrici.
[…] Con l’iniziativa di Steinem, Wonder Woman entra a gamba tesa in uno scenario caotico e multiforme, orchestrato da nuovi conflitti. A un primo sguardo, un panorama del genere sembra fuori dalla sua portata.
Che apporto può offrire un’icona degli Anni ‘40 alle incombenze di un paese stravolto, con rapporti di forza completamente riscritti? La risposta sta tutta nel titolo scelto da Steinem e Joanne Edgar per quel numero: in testa all’imponente raffigurazione di Anderson si staglia, come un fulgido amarcord, la scritta Wonder Woman for President.
Insomma, la risposta è nel passato. O meglio, nella memoria: nel riconoscimento del proprio retaggio e nel coraggio di saperlo ridefinire. Ecco, questo è il vero riscatto semiologico; un atto che, in qualche modo, sublima il senso della contemporaneità.
Sembra quasi un’operazione avanguardista. Riappropriazione, decostruzione e rinascita: queste tre voci orienteranno una nuova stagione. Wonder Woman sta tornando a Paradiso. Sta per riconciliarsi con la sua storia e le sue sorelle, per rigenerare e accogliere nuovi valori. Questo percorso mappa un altro protagonismo, all’altezza di un nuovo presente.
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