The Waste Wonderland

Lorenzo Ceccherini | Il bassista non se lo incula nessuno |

Non so veramente niente di Wonder Woman. Niente, davvero. Ricordo solo Lynda Carter dagli anni Ottanta. Un metro e ottanta di fisicità prepotentemente atletica, occhi blu, mutandoni blu a stelle, corpetto rosso e dorato, stivali rossi al ginocchio, tiara dorata. Solo questo e neppure bene.

Why 'Wonder Woman's' Lynda Carter Left Hollywood For Washington D.C. -  Biography
Più o meno, così

Così, diventa complicato trovare un posto dalle parti del tema monografico di questo mese. Per non andare completamente altrove, mi restano i due concetti costitutivi, la meraviglia e la donna. Abbiamo già fatto varie escursioni nel campo dei generi, non che il tema si possa esaurire rapidamente per carenza di donne eccezionali ed eccellenti ma stavolta passerei la mano. L’attenzione quindi si appunta sulla meraviglia – e lì penso che ci siano spunti perseguibili per congedarci in modo consono e recuperarci direttamente nel ’22. Anche perché questo mese non avremo il secondo dei non-ritrovi, quello dove parlo di libri, musica e film, associati senza licenza de’ superiori né particolare titolo a farlo. Questo è quindi, per quest’anno, l’ultimo trenino che lascia la stazione carico del suo messaggio frammisto di lamentazione e familiarità con l’ignoramento, grida nel deserto e Kaddish mormorati fino alla fine dei tempi per tutto il buon senso morto, moribondo e morituro, di questa epoca in cui agli uomini un Prometeo strafatto di Adderall ha fatto dono di trombe caotiche potentissime e casse di risonanza planetarie per fare un casino senza pari. E poi venitemi a dire che il Natale non serve a niente: come minimo mette una sordina a questa rubrica del disagio, è già qualcosa…

Platone, nel Teeteto, dice che la filosofia nasce dalla meraviglia, ma è la solita considerazione che può fare un figlio di aristocratici – non che l’incanto e lo stupore di fronte ai fenomeni naturali e alla constatazione degli incredibili equilibri dell’esistere siano una brutta cosa, ci mancherebbe, se così non fosse non ci saremmo fatti tutta una serie di domande per rispondere alle quali abbiamo costruito, come specie, un livello di conoscenza ragguardevole e un sentire poetico e artistico non trascurabile. Come specie, come individui un po’ meno, spesso. Però bisogna ricordare che c’è anche un ruolo inevitabile, nell’alimentare il tuo senso di soddisfazione o meno, delle forme di organizzazione sociale in cui ti sei formato – se sei abituato ad andare tre settimane a Gstaad per le vacanze natalizie e quest’anno magari non puoi perché c’è la pandemia, ci sta che tu ti senta un tapino. C’è questo peccato originale nei miti fondativi di questa presunta civiltà occidentale e nell’agiografia di certi costrutti da diorama modellistico, rilevabili in ogni tentativo di costruzione di una società giusta: ‘sti gran pensatori greci, padri di questa democrazia, campavano sulle spalle di quote rilevanti della società composte da schiavi. Facile così. Lo schema si è poi ripetuto innumerevoli volte. Nondimeno, sui ragionamenti di quegli uomini si è fondata la costruzione di un sistema che dovrebbe dare dei diritti attivi di indirizzo del governo della società a tutti (con l’unico limite della maggiore età e della non avvenuta sospensione dell’esercizio di tali diritti per ragioni giudiziarie). Peccato che, prendiamo Atene come esempio, all’assemblea (ecclesia, nome preoccupante, no?) nella quale il demos (il popolo) conveniva per esercitare la sua sovranità non potevano partecipare tutti. Solo i cittadini maschi liberi che potevano permetterselo – visto che fino a un certo punto non erano neppure previste indennità di presenza. Quanti erano i liberi e quanti i non? Stimare il rapporto tra schiavi e liberi non è semplice ma l’ipotesi prevalente è quella che dice che per ogni cittadino libero c’erano tre o quattro schiavi.

Nel frattempo (o forse un po’ prima, la datazione è particolarmente difficoltosa) pare che Siddharta del clan Gautama decidesse di abbandonare la sua vita privilegiata da nobile e ricco, anche se non vi sono certezze sulle sue motivazioni – sono troppe le storie e i frammenti di storie contenuti nei sutra, nei vinaya, nei canoni prodotti in duemilacinquecento anni, in aree del continente asiatico diverse, vaste e parlanti idiomi difformi. Siddharta si impunta sul fatto che il dolore e la sofferenza appaiano come la sostanza costante e primaria dell’esperienza dell’esistere e che lo facciano in modo assolutamente ciclico e perpetuo. Trovare una via della liberazione diventa l’obiettivo – la partecipazione al governo della società non è il punto. Un percorso tutto personale, fatto di rinuncia (un altro cliché per ragazzi ricchi, vedi Francesco di Assisi e epigoni) però sotto auspici diversi da quelli dei rinuncianti occidentali, i cui ascetismi erano essenzialmente autopunitivi e transazionali verso un’entità giudicante dalla quale si intenderebbe ottenere salvezza, a differenza di quelli del buddhismo, per il quale, per quanto un’economia morale del bene e del male, del giusto e dello sbagliato, la si possa prevedere, non ha poi una gran relazione di causalità nel determinare una salvezza.

Spesso mi chiedo come sarebbe un mondo di persone illuminate, ciascuna dall’esperienza del proprio nirvana, ma non riesco ad approssimare neppure da lontano questa immagine. Mentre provo a farlo si compone piuttosto la raffigurazione a mosaico impazzito di tutte le gemmazioni in correnti, scuole, interpretazioni, intervenute nella storia del buddhismo – con una produzione di corpus dottrinali imponentissima, con un dinamismo forse superiore a quello del cristianesimo, al quale non sono mancate affatto inclinazioni centrifughe ma che, essendo stato associato in modo esplicito a questioni di trono, ha subito anche una notevole pressione centripeta dettata dall’esigenza del mantenimento di un potere de facto imperiale. Arriva un momento in cui le esigenze del culto sopraffanno quelle dei singoli, profeti, patriarchi e messia inclusi.

Quando ti cuciono addosso il culto e non puoi più farci niente

Sia come sia, Platone, Siddharta, uomini della classe dominante. In epoca storica antica, quando le figure rilevanti vengono da posizioni sottomesse e si fanno notare, perlopiù sono Spartaco e finiscono male. Quando l’Impero si apre a scalate da parte di non italici e non particolarmente nobili, si sta già sfaldando. Se per i benestanti la meraviglia sorge da un certo tipo di contemplazione, per i sofferenti l’incazzatura monta per l’oppressione e fa mettere su rivolte sanguinose – con ragioni inoppugnabili, ma destinate alla repressione da parte di personaggi come Pompeo e Crasso, per i quali lo sforzo di provare a raffigurarveli vi vede costretti a immaginare un mix tra un plutocrate moderno, un politico, un capoclan e un generale di corpo d’armata. Crasso, che si ritiene essere stato l’uomo più ricco della storia repubblicana di Roma, perirà miseramente nella battaglia di Carre contro i Parti, nel 53 a.C., confermando in effetti che chi di spada colpisce di quella potrebbe pure perire. Una prossimità tra l’uccidere e il venire uccisi che l’era tecnologizzata ha trasformato in un canyon quasi insormontabile – solo nelle guerre asimmetriche tra XX e XXI secolo i capi di una parte hanno potuto essere presi di mira, e solo in alcuni casi. Per il resto c’è la guerra termonucleare ma anche quella non dà garanzie di eliminazione dei comandanti nemici, quindi, nel tempo presente, non incontrandoli più sul campo di battaglia sono a tutti gli effetti contumaci, assimilabili a non esistenti, o meglio, sostituiti dai loro simulacri mediatici: Putin e Biden (ammesso che si sappia chi sono) da questo punto di vista sono più che altro le macchiette dei meme Internet – l’anziano che si addormenta alla conferenza sul cambiamento climatico, l’ex capo del KGB ritratto a colpi di fotomontaggio a torso nudo in groppa a un orso (ma anche senza Photoshop quando è ai comandi di un bombardiere strategico Tupolev Tu-160: togli l’orso, metti il bombardiere, solita storia).

Ragazzi ricchi col tempo per stare a pensare alle cose, si diceva. Tra i due citati prima, mi sento più vicino al principe nepalese, per aspetti di esperienza più che per affinità scoperta ai tempi del liceo leggendo il libro di testo di filosofia (Nicola Abbagnano era ovviamente un po’ più concentrato sui greci). La natura dolorosa dell’esistere non è evitabile e tende a pesare di più dei momenti isolati di meraviglia, il cielo stellato e tutto il resto. Non che questi non contino niente, tutt’altro, perché specie quando sei giovane ti danno tanti spunti per voler sapere, fare, andare, dire, baciare, lettera, testamento. E magari anche dopo, è sempre una buona cosa, ci rimancherebbe. Però non serve essere Leopardi per riconoscere che, probabilmente, la dinamica entropica che caratterizza questo universo in termini di leggi fisiche non può che tradursi in una qualche esperienza di sofferenza essenziale. Ci siamo inventati Faust e Mefistofele e tra un po’ qualche decina di riccastri potrà campare più o meno indefinitamente ma per i più non vedo un percorso di accesso a una condizione eudaimonica diverso dal solito (cioè: se ti riesce essere contento, buon per te – chi vuol essere lieto sia, insomma). Nella giostra del saṃsāra si riscontrano i tre sigilli del dharma e uno è duḥkha, la sofferenza. Se ci aggiungi che gli altri due sono l’impermanenza e l’illusorietà dell’esistenza del sé, si capisce come l’omelia di don Orazio alla messa domenicale delle dodici, tutto sommato, metta meno in difficoltà, anche se ormai è venuta a noia, con sempre le solite storie e il solito assortimento stagionale di considerazioni su aneddoti consunti. La ritualità codificata non è stato un rifugio del solo cristianesimo, è evidente, diciamo però che quest’ultimo ha seguito traiettorie di popolarizzazione che, in ultima analisi, potrebbero averlo minato ben più che se avesse mantenuto la liturgia in latino dove, in pratica, nessuno capiva un cazzo ma tutti ripetevano con alacre fervore, come i cardinali del Belli che «barbotteno l’uffizzio a ttesta sotto». Quando le parole iniziano ad assumere un livello di comprensibilità qualcuno inizia a fare delle domande. Ma non c’è pericolo, visto che, oggi, nel dibattito sia pubblico che privato, con l’italiano svuotato di significato che abbiamo, martoriato da concetti spuri, locuzioni aliene usate ad cazzum e scorie di ogni sorta, c’è la garanzia di non andare da nessuna parte, proprio perché si tende a un rapporto segnale-rumore che approssima lo zero.

Come gnometti confusi in una fabbrica dalla mission incerta e senza un Santa Claus alla guida, abbiamo fatto un pastiche incredibile tra filosofia meraviglia-driven, codificazione feticistica (e metastatica) della democrazia e elaborazione religiosa spiccatamente transazionale (peccato come debito, redenzione a colpi di buone azioni, spesso monetizzabili). Si stava cercando un senso, ma ci si è persi di brutto.

La ricerca di un senso è una di quelle cose che somigliano ai problemi non risolti e forse irrisolvibili della matematica tipo la congettura di Collatz (il famigerato problema del 3x + 1). Se provi a risolverli in maniera empirica non hai possibilità integrali di successo – al più puoi sperare in una confutazione, ma quando arrivi a numeri tipo 1022 e continui a insistere a cercare, l’unico sicuramente felice è quello che ti vende l’hardware su cui fai girare i tuoi algoritmi. Tu resti ancora con un fortissimo sospetto che però non assomma a una certezza.

Nel ragionare sul senso, poi, se ti metti a scrivere e cerchi di essere onesto, senza, cioè, metterti a nuotare negli slogan che ti rigurgiti addosso da solo, è facile che tu parta con un tono da diporto, non particolarmente ambizioso, finanche scherzoso, trovandoti però, dopo poco, a un livello di furia e chiarezza comunicativa da Finnegan’s Wake, senza però, ovviamente, un neppure lontanamente comparabile equivalente valore artistico, finendo facilmente nel grammelot concettuale, se non nella vera e propria supercazzola, tarapia tapioco come fosse antani.

Ma poi, di quale sofferenza stiamo parlando? C’è quella intrinseca, esistenziale che non è così difficile da sentire come caratteristica apparentemente naturale ma c’è anche quella che Calvino raffigurò elegantemente nel concetto di inferno dei viventi. Un’eleganza immeritata per i viventi, vista la qualità di questi ultimi. Sì perché, come società, facciamo esempi triviali, non riusciamo neppure a definire la quantità di contenitori dei rifiuti necessari a un condominio data una certa frequenza di ritiro dei rifiuti stessi né un’idea certa di come gestirli una volta ritirati. La democrazia di oggi è che mettiamo allegramente il buon senso a pi greco mezzi e mandiamo in vacca tutti i passaggi di qualunque processo e ci ritroviamo così, con la classica tragedy of the commons, vissuta anche sul piano dello smaltimento degli scarti oltre che su quello del consumo di risorse – il che è ancora peggio, visto che siamo in quasi otto miliardi a produrre tanto ciarpame – che fa sì che chi primo arriva meglio alloggia. Chi non prende il tempo giusto impila i suoi rifiuti come può. I coglioni come me (e te, e te, ma non siamo troppi) se li tengono a casa, i creativi gli trovano una destinazione… Idioti a monte, idioti a valle, idioti lungo la catena. Il risultato è garantito e il bubbone purulento continua a far gioco come pietra dello scandalo della mala gestione dell’amministrazione che vuoi soppiantare alle prossime elezioni. Ottenendo, oltretutto il balsamo populista di risulta prediletto dagli antidemocratici contemporanei: la svalutazione della democrazia da parte, proprio, di quelli per i quali sarebbe più preziosa, quelli che nell’Atene di Platone sarebbero stati quasi sicuramente schiavi che non contavano un cazzo.

Rifiuti condominiali, un bidone di indifferenziata per ventiquattro appartamenti. In strada: ancora più creatività

Parole di astio, queste, senza dubbio, ma se ci vogliamo togliere le note di colore e l’incompetenza di chi scrive in varie discipline che parrebbero scomodate in questa sede, possiamo andare da chi le considerazioni le fa su rilevazioni statistiche, le quali avranno i limiti che hanno, però sono un po’ meno opinabili del pregiudizio in salamoia del qui scrivente. È uscito il rapporto del CENSIS sulla situazione del paese nel 2021. Anche se per leggerlo tutto devi da paga’, vi garantisco che le risate, rega’, risate che non vi dico, ci se le porta a casa anche solo con qualche anteprima e sinossi:

L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale. Per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni) il COVID non esiste, per il 10,9% il vaccino è inutile. E poi: il 5,8% è convinto che la terra è piatta, per il 10% l’uomo non è mai sbarcato sulla luna, per il 19,9% il 5G è uno strumento sofisticato per controllare le persone

Anche lasciando stare per qualche minuto il virus, viene fatto di soffermarsi sulla trasformazione di quel 5,8% di terrapiattisti in un valore assoluto. Viene fuori un circa tre milioni di tizi che pensano di stare sull’unico pianeta piatto del sistema solare. No, perché, da come si staglia l’ombra sulla Luna lo vediamo tutti che non è un piattello, no? E così tutti gli altri corpi planetari. Ma vaglielo a spiegare… D’altra parte ce lo dice anche l’epigrafe evangelica che Leopardi volle piazzare in apertura del suo La Ginestra:

«Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι / µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς»

«E gli uomini vollero / piuttosto le tenebre che la luce»

Oggi, l’assemblea dei cittadini non si riunisce più sull’Acropoli, richiamata al dovere dai trecento schiavi (appunto) della Scizia che, impugnando un pesante cordone intinto in un color ocra, marcavano quanti si attardavano nell’agorà invece di partecipare alle riunioni dell’ecclesia. Chi, tra quanti avevano avuto le vesti macchiate, veniva trovato fuori dall’assemblea durante le sedute, veniva multato. [Come metti su un parlamento l’assenteismo va subito di moda, mi pare evidente]

Ma oggi l’ecclesia si riunisce qui:

Fosse stato: ore passate al giorno nella biblioteca di Alessandria, forse ci si cavava fuori qualcosa…

Quindi se la massa si è persa in una enorme adunanza globale un po’ eterodiretta e un po’ no, cosa ci resta? Qualcuno dirà: la bellezza.

Difficile non ricondurre la bellezza a qualcosa di elitista – se per elitista, in fin dei conti, si intende personale e per bellezza la creazione della bellezza: l’empireo dei creatori è come il piano di sopra del 747, parecchio esclusivo (anche perché è un mercato…). Collettivamente facciamo schifo, facciamocene una ragione. Siamo pessimi. Non riusciamo a manovrare fuori dai problemi se non, quando va bene, con attriti e dolori atroci. E il più delle volte invece non ci riusciamo proprio, o neppure ci proviamo, come è accaduto per le questioni del cambiamento climatico negli ultimi trenta o quaranta anni. La nozione scientifica era evidente, la si è ignorata, semplicemente, perché lo si poteva fare impunemente, grazie al prevalente livello di storditaggine e di non comprensione della situazione da parte di quelle torme di imbecilli ai quali si vanno a estorcere consensi elettorali ogni qualche anno. Dire «populismo» è riduttivo.

Nel frattempo Magnus Carlsen ha esteso il suo vantaggio nel campionato mondiale di scacchi con un’altra vittoria sullo sfidante Ian Nepomniachtchi, dopo quella di sabato, una maratona incredibile in centotrentasei mosse e oltre otto ore di partita. Non c’entra niente, gli scacchi non producono progresso per l’umanità, almeno non in modo evidente, eppure c’è gente che ha una testa così mentre tanti non sono più buoni manco a comporre un pensierino in stile scuola elementare. I campioni di scacchi di oggi sono sempre più bravi, gli scemi aumentano, sicuramente in valore assoluto vista questa crescita demografica vertiginosa degli ultimi cento anni, chissà in termini relativi. Dove cade la media della scemenza della popolazione umana? In che direzione si sta spostando? Io una mia idea me la sono fatta… Qualche anno fa qualcuno iniziò a ventilare l’ipotesi che l’effetto Flynn si stesse invertendo.

Dopo le nostre spazzature e i nostri terrapiattismi, prima di salutarci per ritrovarci dall’altra parte, voglio scegliere due eventi grotteschi che riguardano gli Stati Uniti, questo mondo così influente, così lontano e vicino allo stesso tempo, in questo 2021 agli ultimi conati: l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio e la possibilità sostanziale che la Corte Suprema azzeri il diritto all’aborto con un pronunciamento sul ricorso dello stato del Mississippi che vorrebbe rendere l’aborto illegale dopo la quindicesima settimana di gestazione. Lo so, sto trascurando un discreto quantitativo di persone di colore ammazzate dalla polizia o da gentaglia del vicinato, con bamboccetti con la fazza da poppante assolti nonostante abbiamo ammazzato manifestanti disarmati, ma se ci mettiamo a parlare anche di questi argomenti non ne usciamo più. Sovranismo, natalismo, testadicazzismo, con gente impaccata di soldi, potere e debito che solleva le masse contro i simboli dell’ordine democratico che di quelle masse sarebbero garanti – il segreto è stato renderli odiosi, farli diventare detestabili come una aristocrazia da Ancien Régime e il gioco è stato fatto.

Probabilmente l’opera di arte visuale più profetica degli ultimi decenni è Idiocracy di Mike Judge. Probabilmente, è in quella direzione che ci stiamo muovendo.

Quest’anno, il ventiquattro – chi sa come si fa e ha un seguito abbastanza pesante, faccia una petizione su change.org – le emittenti televisive, invece del solito Una Poltrona per Due, dovrebbero trasmetterlo e indicare finalmente, a tutti, la via. Feliz Navidad e buon anno nuovo a tutti.

Il presidente Dwayne Elizondo Mountain Dew Herbert Camacho. Ci stiamo arrivando
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