Posso anche ammetterlo, tanto non mi legge nessuno. A me tutta l’opera di Paul Nizan… dai, non guardarmi così, non importa se non sai chi sia, è irrilevante; mi serviva solo per il giochetto retorico con cui aprire il pezzo. Quindi, riprendiamo il discorso. A me tutta l’opera di Paul Nizan annoia quasi più, ed è strano che mi capiti per un francese, dei classici russi dell’Ottocento. (No, adesso non tirarmi in ballo Bulgakov. Lui lo amo, ma appartiene alla prima metà del secolo successivo).
A rendermelo insopportabile deve essere stata quella cazzata che ha scritto in Aden Arabia, e che è l’unica sua frase conosciuta, quella sul fatto che non avrebbe permesso a nessuno di definire i vent’anni l’età più bella della vita, perché lui li aveva avuti. Che idiozia! Anch’io li ho avuti, chiunque non sia morto prima li ha avuti. E personalmente li ricordo come il periodo più felice della mia vita.
Erano gli anni Novanta. E io ci stavo bene in quel decennio. Lo dico di continuo ed è la pura verità.
Avevo due posti dove andavo sempre. Anzi, in uno ci stavo (quasi) fisso. Il “Racanà”. Una specie di pub scrauso e fumoso, in via Sannio, che teneva la McEwans Scotch che a me piaceva tanto e non era facile da trovare. Adesso il “Racanà” non c’è più, da tanti anni. Al suo posto c’è un ristorante belga e ora ogni tanto ci vado, ma quando aveva chiuso il “Racanà” ero veramente triste.
Anche un’altra volta sono stato veramente triste: quando nel 2008 ha chiuso il “Rolling Stone”. Era l’altro posto dove andavo sempre in quel decennio lì, quello dei miei vent’anni. Sì, a ballare, ma soprattutto a sentire dei concerti incredibili (per lo meno, io adesso – nella mitizzazione dei miei vent’anni – li ricordo incredibili). Ci ho sentito i Negresses Vertes, i Ten Thousand Maniacs, i Ramones, Iggy Pop, i Bad Religion, i Body Count, i Sonic Youth e i Pavement. E chissà cosa mi dimentico.
Sono passati tre decenni e mezzo da quei miei vent’anni. E tanta di quella musica… come la chiamava Lester Bangs? Ah sì. Quel «frastuono più atroce» a cui devo il fastidioso acufene che mi accompagnerà ormai per sempre.
È sera. È marzo e fa buio ancora presto. Mentre ben altro frastuono – quello delle bombe di un’intollerabile aggressione imperialista – assorda i cieli dell’Ucraina, io guido. Su una strada tranquilla e sicura: quella che porta a Genova. La guerra è lontana, a più di duemila chilometri. Qui è impossibile sentire il rumore delle bombe e le raffiche delle mitragliatrici. Per tenere la mente sgombra dall’eco della guerra, che non sento fisicamente, ma che mi rimbomba comunque nelle orecchie quasi a sovrastare il mio acufene, penso al frastuono che amo da sempre, quello della musica. E metto su un disco (in realtà seleziono un file su Spotify): Somebody’s knocking.
Non è una scelta a caso. Volevo ricordarmi l’ultimo concerto a cui, per colpa del Covid, ho potuto assistere in un locale della mia città. Era il 28 novembre 2019, al “Fabrique”. Il tour per l’album che sto ascoltando. Il ricordo è vivo e nitido. Mark Lanegan, come sempre, immobile sul palco, appeso all’asta del microfono come fosse l’unica cosa a impedirgli di stramazzare al suolo. Immobile eppure inafferrabile.
Guido e penso che è una cosa strana. Quello di Mark Lanegan è l’ultimo concerto che ho visto prima che smettessero di farne. Lui è morto il 22 febbraio di quest’anno. Due giorni prima che cominciasse questa guerra vigliacca. Poche altre scomparse mi hanno fatto male come la sua. Quella di Helno, quella di Bonvi, più recentemente quella di Graeber. Intanto che me lo ricordo immobile, attaccato al microfono, penso a quale è stata la prima volta che l’ho incontrato. Quando mi viene in mente quasi sobbalzo. C’era una guerra anche allora.
Era il 17 febbraio del 1993, al “Rolling Stone”, una manciata di mesi dopo un memorabile concerto dei Sonic Youth aperto dai Pavement, e quasi a un anno dallo scoppio della guerra in Bosnia ed Erzegovina. Al sicuro tra le mura di quello che ti ho detto, era uno dei miei luoghi d’elezione, potevo permettermi di ignorare lo stridore di una guerra ancora più vicina, abbandonandomi alle chitarre distorte degli Screaming Trees.
Posso anche ammetterlo, tanto non mi legge nessuno. Allora manco sapevo chi fossero, ero lì per sentire gli Alice in Chain, il cui Dirt mi mandava letteralmente ai matti. Splendido set il loro, ma quella sera il mio cuore fu rapito dalla voce e dalla postura del cantante del gruppo che li supportava. Il gruppo in sé mi parve trascurabile: per carità, la storia poi dirà che probabilmente il grunge l’hanno inventato loro tra il 1986 e il 1989, ma quella sera suonavano soprattutto roba da Uncle Anesthesia e Sweet Oblivion, in cui concedevano troppo al metal (colpa, ma lo saprò molto dopo, della produzione di Terry Date…. Il produttore di un gruppo noioso come i Pantera, per darti un’idea). Era la voce del cantante, così avulsa dalle melodie e dalla stolidità dei testi di quelle canzoni. È vero, sarà pure una trita metafora usata dai giornalisti musicali in crisi di originalità, ma nella voce di Lanegan c’era l’inferno. Un inferno che nemmeno la voce di Isobel Campbell riuscirà a mitigare, esaltandolo, anzi, con il suo contrappunto. Nonostante la mia volontà di scapparne, ci ero piombato dentro. Intendiamoci. Anche nella voce di Layne Stayle c’era l’inferno ma non strideva con il suono degli Alice in Chain e con i testi delle loro canzoni. La voce di Lanegan non c’entrava proprio un cazzo con la musica e i testi degli Sceaming Trees. Strideva, appunto inafferrabile. Da quello stridore ero stato come catturato e cominciavo a rabbrividire.
E così che nei giorni seguenti, dopo essermi documentato sulle pagine dei miei vecchi “Mucchio Selvaggio”, sono andato da “Buscemi dischi” a prendere The Winding Sheet il primo disco solista di Lanegan, uscito nel 1990, due anni prima di Sweet Oblivion.
Ecco. Mi arriva questo ricordo e cambio subito disco su Spotify, metto The Winding Sheet. Adesso non rompere: lo so che i suoi capolavori verranno dopo, e sono in particolare Whiskey for the Holy Ghost e Blues Funeral. Ma sto guidando e quando guido non faccio critica. Inseguo emozioni. Nel primo album solista di Lanegan, oltre alla sua voce finalmente al proprio posto tra melodie e testi, c’è una canzone BELLISSIMA. L’undicesima traccia. Where Did You Sleep Last Night. Non è sua… cioè, certo che è sua, una canzone appartiene a chi la interpreta. Volevo dire che non l’ha scritta lui. Il pezzo è un blues tradizionale, di cui non si conosce l’autore, la cui prima registrazione è attribuibile a Leadbelly.
Prima di registrarla Lanegan l’aveva fatta sentire a Kurt Cobain e gli aveva chiesto di suonarci la chitarra e fargli i cori. Se ascolti bene lo riconosci.
Quando Lanegan spinge la sua voce fino a farsi male (lo senti che le corde vocali gli stanno chiedendo pietà) cantando l’ultima strofa:
«My girl, my girl, where will you go
I’m going where the cold wind blows
In the pines, in the pines
The sun, shine
I would shiver the whole night through»
In questo preciso momento non piangi, perché – come ha detto lo stesso Lanegan di sé – non ne sei il tipo. Ma i brividi sì. Quelli li senti. E profondi. Come quella sera di febbraio del 1993. Tremi perché sai che non c’è speranza. Né pace. Anche se tra i pini splende il sole. Sai che non avrai più vent’anni e che non potrai mai più sentire, da sotto il palco, quella voce che ti raccontava l’inferno che aveva dentro e che era il tuo stesso inferno. Quello stesso inferno che è l’inferno del mondo.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.