Ok, facciamo che sei a uno show di wrestling. Non importa chi ti ci ha portato, né con quale stratagemma ti ha convinto. Conta che sei lì, birretta in mano, snack schifezzino al ciocconocciolacaramello nell’altra e il primo match è appena cominciato. La campanella ha fatto din din din e i tuoi occhi sono fissi a centro ring, su quei due primati da combattimento che tracciano un cerchio immaginario girandosi intorno nel tentativo di trovare un varco nella difesa avversaria con i fari sparati forse un pelo troppo che fanno brillare nella notte l’abbondante dose di olio di cui sono cosparsi. Ed eccoli che scattano in avanti in un abbraccio mortale, che i profani definiscono come clinch ma per flexare il mio essere un insider ti indico con il nome corretto, lock up, che magari qualche ricordo non proprio meraviglioso te lo sblocca ma almeno puoi sfoggiare la tua competenza esotica al prossimo apericena. Ora, proprio in quel momento, in quel preciso istante in cui il lock up avviene, ti chiedo di guardare in basso. Per la precisione, butta un occhio ai piedi dei lottatori. No, questo non è un pezzo sulle parafilie a tema sportivo, ti sto proprio rivelando uno dei misteri del wrestling, uno di quei segreti custoditi tanto gelosamente che Tana delle Tigri manderà dei sicari a farmela pagare a suon di prese del cobra e sediate nei denti.
Quindi onora il mio sacrificio e presta attenzione.
Bene, ora che hai puntato le pupille sui piedi dei due energumeni, ti renderai conto che si sono alzati sulle punte. Come le ballerine. Non serve che controlli la tua birra, nessuno ci ha messo niente. Quel che stai vedendo è perfettamente vero, e se lo stai vedendo è perché i due lottatori sono bravi. Ok, ma qual è il senso di questo passo di danza classica? Semplice: lo fanno per sembrare più alti. Perché uno dei concetti chiave del wrestling è questo: sembrare di più. Più alto. Più grosso. Più minaccioso. Più che normale. Larger than life. Per questo, teoricamente, un wrestler dovrebbe arrivare all’arena vestito elegante, diciamo in giacca se non proprio la cravatta. Perché i fans che lo vedono hanno l’impressione istintiva di trovarsi davanti un professionista, una persona importante. Ed è questo uno dei motivi per cui i wrestler ai promoter piacciono particolarmente se sono più grossi del normale. Non tanto per quando li vedi sul ring, ma per quando li vedi giù dal ring, in mezzo alla gente, fanno impressione. Un wrestler esperto, una volta, mi ha detto che un buon professionista vende i biglietti all’aeroporto. Cosa significa? Che un wrestler, quando sembra per qualche motivo fuori dal normale, vuoi per la stazza vuoi per qualche altra caratteristica fisica, ti accorgi che c’è il wrestling in città e fin da quando va a bere un caffè o a fare una passeggiata prima dello show tu lo incontri e dici «Wow! Stasera c’è quello lì! Che pezza! Che tipo strano! Mi è venuta la scimmia di vederlo! Ecco cosa faccio stasera!»
Ora, il punto è questo: che il wrestling è coreografato lo sanno anche i sassi. Non dire finto perché non è carino, specie se lo dici a uno più grosso del normale. I risultati del wrestling sulle riviste sportive non si pubblicano più da decenni perché non ha più senso, quindi il wrestling ha preso un’altra strada, che è quella dell’esagerazione. Lo sai che è uno spettacolo, quindi noi facciamo in modo che sia spettacolare! Da qui i costumi colorati, da qui le musiche, da qui le battaglie al microfono a suon di promo, sfide e proclami per portare avanti trame e sottotrame da soap opera in cui una serie di tradimenti e cambi di fronte dà vita ad altrettante occasioni di prendersi a castagne sui denti. Perché uno non passa il sabato sera a guardare il Signor Medio contro Mister Normale che si prendono a schiaffi per un parcheggio. O meglio, il parcheggio può essere il casus belli ma per vedere gli Avengers dal vivo che si rimescolano le ossa. I supereroi del discount, se vuoi, perché è pur vero che non abbiamo i milioni per gli effetti speciali che vedi al cinema, ma pur sempre qualcosa di straordinario a modo suo.
Poi, diciamocelo, non siamo tutti così enormi. Sui ring italiani vedi fisici nella media, persone fuori forma e anche qualche ragazzino ossuto che dici «Ma sì, questo lo meno io». Ed è vero, che vuoi che ti dica, questo è il motivo per cui uno compensa come può. C’è chi come me ha la lingua svelta e al microfono ti fa incazzare con due frasi piazzate lì a bruciapelo. C’è chi ha un costume che sembra uscito da un manga e già solo quello ti fa dire «Wow! Che figo!», c’è chi fa le capriole da saltimbanco atterrando sulla punta dei capelli e tutti per un istante fanno «Ooooooooh». Ecco, quello è il motivo per cui saliamo sul ring: quel momento di «Oooooooh». Quella risata. Quell’insulto che riusciamo a strapparti. E l’essere straordinari, proprio nel senso di fuori dall’ordinario, è ciò che abbiamo per riuscirci. Da noi non trovi l’invasamento del tifo sportivo, anche se non è che non ci sia dietro una preparazione atletica, da noi non trovi il potere ipnotico di un concerto del Boss che dura mezzo turno di lavoro, da noi non trovi l’assorbimento mistico di una pièce di teatro, anche se in qualche modo degli attori siamo cugini. Da noi trovi intrattenitori che, a modo loro, sono più che umani. Più grossi. Più agili. Più rumorosi. Più qualcosa. Più della normalità. Perché se qualcosa ci manca, è proprio quella.
Stefano Tevin e l’Onorevole Beniamino Malacarne sono un reboot del classico Dottor Jekyll e Mister Hyde ma, invece di seguire il trend contemporaneo dell’inclusività, deviano dal canone nel fatto di essere ambedue dei fetenti. Nati entrambi nel 1981, uno è una specie di scrittore (romanzi, fumetti, articoli, quella roba lì), l’altro è un lottatore di wrestling. Tevini ti parlerà di fumetti, fantastico e simili, Malacarne di Wrestling (oltre a occuparsi della gestione operativa dei reclami e soprattutto di chi li esprime).