Secondo alcuni fisici, tempo e spazio sono collegati, fanno parte di un’unica struttura dove coesistono e si relazionano e dunque tutto, passato presente e futuro, accade contemporaneamente – e l’ultimo avverbio assume un senso vago e sfuggente. La teoria si chiama eternalismo. In parte filosofia, in parte legata agli studi di Einstein sul tempo e la relatività.
Solveig Dommartin muore l’11 gennaio 2007. Io l’ho vista pochi giorni fa, è la trapezista di un circo scalcagnato di cui si innamora un angelo ne Il cielo sopra Berlino. Il regista, Wim Wenders, è stato a lungo il compagno di Solveig.
L’ho vista pochi giorni fa, dicevo. Quando ancora non sapevo che è morta da più di 15 anni, pensavo fosse ancora viva. Le biografie che trovo on line sono incerte sulla data di nascita, posta fra il 1958 e il 1961. Comunque sia, una morte prematura che mi turba, dopo averla appena vista volteggiare sul trapezio. Chioma leonina, lineamenti non perfetti ma seducenti, a iniziare dal sorriso, non sorprende che nella realtà diegetica del film possa aver affascinato un angelo, convincendolo ad abbandonare le ali per diventare umano.
La spiegazione scientifica dell’eternalismo non mi è chiara. Non mi sembra lo sia neppure per quei fisici, figurati per me. Però, se la teoria è vera, Solveig è morta da poco, da quando l’ho saputo, oppure già da quindici anni, oppure è viva e io la sto vedendo proprio ora, volteggiare sul trapezio o abbandonata in un ballo sulle note acide dei Crime and The City Solution.
Gli U2, prima di annacquare la propria creatività fino a smarrirla, pubblicano un album bellissimo e incompreso, Zooropa. Stay (faraway, so close) è in quel disco. Una canzone adattata al film di Wenders, anche se non realizzata per quella pellicola. La vicenda è slegata dal film, ma un Bono molto in vena scrive un testo che parla di chi osserva ma è impotente nell’agire, assiste e partecipa al dolore altrui, senza poterlo alleviare.
Se nel film di Wenders la donna e l’angelo che rinuncia all’immortalità trovano l’amore, in Stay la storia è diversa, gioca fra due diversi dolori. Quello fisico della donna, che soffre in quanto vive, e quello dell’angelo, che soffre proprio perchè non vive. Ma la loro condizione diversa li rende, paradossalmente, vicini. «Faraway, so close», appunto.
Internet, nel suo essere una miniera di informazioni, a volte è solo un riverberare di errori. Così, ovunque leggo che Solveig è morta per un infarto. In realtà è stata una malattia, terribile e veloce, a ucciderla. Lo racconta Wenders in un’intervista al “Corriere della Sera” del 4 dicembre 2015. Il giornalista usa parole toccanti per descrivere la scena. Il regista «ha la voce molto bassa e lo sguardo fisso su un punto indefinito della parete. Parla piano. Con tristezza e tenerezza infinite.» E dice: «Non ha avuto paura, neanche alla fine. Fu spaventoso vederla deteriorarsi così velocemente. Solo lei poteva convincere il pubblico che un angelo avrebbe rinunciato a volare per darle una carezza.» Parole, per una volta, da non tradire né tradurre né raddrizzare.
Mi piacerebbe pensare che davvero il tempo non esista, che tutto avvenga e sia avvenuto e avverrà, ovunque e contemporaneamente. Faraway, so close, ancora. Ed ecco che Solveig vive. Volteggia e incanta me e l’angelo Damiel, nella bellezza irrisolta che può avere un attimo.
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.