Claudio Lolli l’ho incontrato quattro volte: una per davvero; le altre tre, diciamo così, per procura.
La prima volta ero con una ragazza, nella soffitta di casa dei suoi genitori. Avevamo entrambi diciotto anni e una passione sconfinata per le canzoni di Francesco Guccini. Questo ci portava anche a bere molto nelle ore più disparate del giorno e a vivere la discutibile e umida magia provinciale della nostra città, Parma, come fosse la Bologna delle sue canzoni.
In quella soffitta c’era un piatto per i vinili (siamo alla fine degli anni Novanta e la cosa non è per nulla usuale come oggi o come vent’anni prima: in quel momento viaggiano molto i CD mentre le musicassette stanno pian piano scomparendo, e il vinile è dato, senza alcuna lungimiranza, proprio per morto). La ragazza, vincendo la mia diffidenza («Questo Claudio Lolli non varrà una cicca in confronto a Guccini, figuriamoci!») mette sul piatto Aspettando Godot. Io, dopo un primo ascolto, vengo completamente rapito da Michel mentre la canzone che dà il titolo al disco la trovo sghemba, senza tutte le rime al posto giusto (cosa che non succedeva mai in quelle di Guccini) anche se la storia che racconta mi piace. Tempo dopo, quando comincio finalmente a fregarmene di rime e metrica, diventa una delle mie preferite.
Anche perché, andando avanti con gli anni e la frequentazione delle sue canzoni, comincio ad ascoltare Lolli al di là delle parole e sento la musica della sua voce, il suo tono caldo e dimesso che sembra parlare privatamente a ognuno. Ed è così che me ne innamoro definitivamente, con La giacca.
Poi c’è la volta in cui l’ho incontrato davvero. Siamo nel 2005 o nel 2006, nel cortile della Reggia di Colorno, in provincia di Parma. Concerto di Claudio Lolli accompagnato da Paolo Capodacqua e con alcune letture di Gianni D’Elia. Non avevo ancora mai visto Lolli dal vivo e mi sono precipitato immediatamente, trascinando con me la ragazza che frequentavo in quel momento, la cui passione musicale era però tutta dedicata ai Muse. La cosa, ovviamente fu un disastro. Non solo perché lei si annoiò a morte ma anche perché non avevo ancora una connessione internet a casa e non ero per nulla informato su come Lolli e la sua musica si fossero evoluti dagli anni Ottanta in poi. Così ci ritrovammo io, la ragazza, e altre sette persone (ricordo benissimo il numero perché constatare che eravamo così pochi mi mortificò profondamente), seduti ad ascoltare il suo, per me inaspettato, recitar-cantando, sbiascicante e offuscato dall’alcol. Ne rimasi piuttosto deluso.
Ma un momento di luce c’è stato ugualmente: Curva Sud. Parlata-sbiascicata più che cantata, ma straordinaria. Non la conoscevo e da allora è rimasta per me una delle sue canzoni più belle. Vera, dura, spietata e dolcissima, come la sua voce.
Finito il concerto mi avvicinai al palchetto al centro del cortile della Reggia e timidamente lo chiamai. Avevo preparato una cassetta con alcune mie canzoni registrate in casa. Gliela diedi pieno di assurda speranza in qualcosa (a pensarci oggi, il desiderio di un riconoscimento impossibile) e lui, con la stessa distaccata pacatezza con cui stava bevendo vino bianco da un bicchiere di plastica mi ringraziò e se la infilò in tasca senza nemmeno guardarla. Meglio così, avevo anche scritto i titoli tutti a mano con una grafia incomprensibile, probabilmente già vinto dall’emozione di incontrarlo prima ancora che accadesse.
La terza volta che l’ho incontrato per procura, è stato alla sua camera ardente allestita a Palazzo d’Accursio in Piazza Maggiore a Bologna. Era il 20 agosto 2018: Lolli era morto tre giorni prima, il 17. Insieme a due amici cantautori, Rocco Rosignoli e Emanuele Nidi, abbiamo preso il treno per andarlo a salutare. In quel pomeriggio poi, davanti alla bara, Rocco ha accompagnato Alessio Lega in Da zero e dintorni mentre Marco Rovelli ha cantato La giacca. Da qualche parte in rete c’è forse ancora il video di quei momenti.
Da zero e dintorni è una bellissima canzone d’amore dal disco Disoccupate le strade dai sogni, il secondo capolavoro di Lolli, dopo Ho visto anche degli zingari felici, pregno dei sentimenti e della violenza del ‘77 bolognese.
Tornando verso casa, a me, Rocco e Emanuele venne l’idea di improvvisare di lì a poco una “cantata anarchica” per Lolli. La organizzammo il 23, tre giorni dopo, nel tempietto del Parco Ducale di Parma. Scrivemmo la cosa su Facebook e niente più. Qualche sparuto astante si palesò, nel caldo torrido dell’agosto, e ognuno di noi cantò tre canzoni a testa, più una Zingari finale e un’Anna di Francia in apertura tutti insieme. Fu un momento molto bello. Eravamo lì solo per noi e per ricordare un maestro con la sua musica.
Negli ultimi trent’anni della sua carriera, Lolli è sparito completamente dai riflettori. Se negli anni Settanta e Ottanta ha avuto un ruolo e una voce per i giovani e per i movimenti politici di allora, nei Novanta il suo tempo sembra essere completamente sfumato. Ma lui ha continuato a portare le sue canzoni dappertutto, in piccoli locali e club, con un’opera di diffusione minoritaria ma capillare durante la quale era possibile conoscerlo davvero, in tutte le sue sfaccettature più umane e dolorose. Questa, in certo modo, è la quarta e ultima volta in cui l’ho conosciuto, sempre per procura, nei racconti dell’amico musicista Rocco Marchi, che ha più volte incrociato, insieme ad Alessio Lega, la sua strada con quella di Lolli durante gli ultimi anni.
Nel 2009, Luca Carboni ha cantato insieme a Riccardo Sinigallia gli Zingari, e nel video della canzone, come fosse già un fantasma, compare anche Lolli, sferzato dal vento e dal traffico di Bologna.
In chiusura di questa esortazione al riascolto camuffata da ricordi personali, non posso non mettere Analfabetizzazione, una delle poche canzoni in cui mi sento di poter scindere musica e testo (la prima bruttina, il secondo memorabile) e L’amore ai tempi del fascismo, un pezzo amaramente perfetto per questi nostri giorni.
Scrive fumetti e scrive di fumetti, poi scrive anche canzoni e le canta, insieme a quelle degli altri che gli piacciono. Il suo sito è www.francescopelosi.it.