Tutto fa brodo se sei fascio e ti serve una scusa per fare una vittima
I fascisti sono come le pippe: funzionano cinque contro uno. Si gonfiano il petto con un certo culto della virilità declinato secondo una pletora di espressioni tutte rigorosamente ridicole, ma, se ti devono venire a prendere, vengono in gruppo, con gli amichetti, e ti circondano. Mica che ti fronteggino uno a uno, ci mancherebbe, vogliono andare sul sicuro. Poi, però, quando uno reagisce piangono, d’un pianto unilaterale. Negli anni Settanta è morto solo Ramelli, Fausto e Iaio chisselincula, brutte e cattive BR ma i NAR so’ ragazzi, e le Foibe? Si ricorda solo la parte che fa comodo. Perché alla fine i fasci hanno imparato a piangere, e lo fanno bene per davvero. Si può dire che sia diventata la loro cifra. E non parlo solo di fasci-fasci, senza timore di esagerare vado per estensione, comprendendo in questo atteggiamento vigliacco & vittimista un po’ tutta la destra machista e ultraconservatrice, di cui potrei fornire una rappresentazione sintetica raccontando di quando Berlusconi venne a Brescia per quella visita che segnò un po’ la sua prima morte politica, anche se pare che sia più resistente di uno scarafaggio. Bene, mentre la piazza lo shakerava di fischi, un suo adepto sui 25 anni, giacca e pantaloni da fighetto (non elegante, fighetto), con un gagliardetto della Juve tatuato sul petto nudo ci urlava «Comunisti! Tornate a Cuba! Tornate in Cina!». Rigorosamente dietro un solido cordone di agenti in assetto antisommossa. Un’immagine grottesca quanto calzante degli anni a venire.
Sì, perché ad aver sviluppato questa strategia difensiva costruita sul pianto è un po’ tutta la destra ultra conservatrice che, attualmente, ha trovato una nuova, comodissima, velleitaria fonte d’oppressione in quello spazio che sta tra il woke e la cancel culture. Sì, ok, l’ha detto anche Chomsky, lo so porcoddue, non venite a farmi la predica. Non è che nell’area liberalprogressistasinistrorsa gli eccessi non esistano, ma questo giochino della distopia orwelliana declinata secondo le regole dello specchio riflesso è patetica come minimo.
«E non si può più dire niente»
«Ecco se sbagli a parlare ti mettono in croce»
«E per fortuna che dovreste essere voi quelli che amano la libertà»
«Razzismo al contrario»
Un veloce campionario, questo, delle stronzate assortite della destra machovittimista, vittima di un immaginario regime di ostracizzazione culturale. Loro, che invocano la linea dura. Col culo degli altri perché, quando qualcuno fa notare loro che categorie – che per anni sono state insultate, dileggiate e prese in giro (se va bene) senza fiatare o poco più – hanno deciso che a un certo punto i coglioni girano un po’ a tutti e lo fanno notare, no, allora non va bene. Perché quelli li si deve poter trattare come pezze da piedi, ma se fai una battuta che ricorda il parallelismo fra quello che amava così tanto gli italiani da farli accompagnare da altri italiani nei campi di concentramento e la pratica più comune di conservazione dei salumi, sei un violento, sei uno stronzo e gne gne gne. E non fa niente se per voi Woke è la pentola per cucinare cibo cinese, non fa niente se di cancel culture non sapete fare lo spelling perché c’è dentro “culture” e voi con quelle robe lì non avete dimestichezza, è tutto materiale che fa da stampella alle vostre lamentele e allora va bene, come le Foibe, che quando a non so quale ufficio stampa è venuto in mente di pubblicizzarle non ci credevate di avere anche voi la vostra Shoah, perché anche questa sesquipedale cazzata mi è toccato sentire.
Fate la voce grossa, ma non valete un cazzo.
L’avete dimostrato anche negli anni di quel ventennio che glorificate, ma che avete fatto finire in una burletta. Tornando nella mia città, Brescia, vi racconto di Massimo Minini, un gallerista di un certo calibro mica l’ultimo degli stronzi che si improvvisa colto, come vedo fare a certi buffi personaggi che proprio a casa mia fan campagna per le comunali giusto quest’anno. Ora, Minini è stato messo in croce per aver espresso un parere sul Bigio, nomignolo dato a una statua un tempo collocata in Piazza Vittoria, a Brescia, tolta dalle palle perché il suo vero nome è “L’Era Fascista” quindi direi a ragion veduta. Ora, la statua è bruttarella. Anzi, fa cagare proprio. E giustamente Minini l’ha detto: è robaccia senza senso e ne andrebbe fatta ghiaia. E i fasci giù a piangere. Gnoooo gnooooo l’aaaaaarte gnon si tocca. Fino a ieri la vostra cultura si fermava alla formazione dell’Inter ma tutto d’un tratto difendete l’integrità storica della piazza. A parte che non è la prima volta che un’opera viene riciclata per farci qualcosa di più utile, il vero gesto storico da rispettare è quello di chi L’Era Fascista l’ha tolta dalle palle, fisicamente e metaforicamente. Perché a lasciarvi piangere pian piano avete cominciato a tirar fuori le testoline dalle fogne, galleggiando sulle vostre lacrime di coccodrillo come gli stronzi sul pelo dell’acqua putrida.
Stefano Tevini e l’Onorevole Beniamino Malacarne sono un reboot del classico Dottor Jekyll e Mister Hyde ma, invece di seguire il trend contemporaneo dell’inclusività, deviano dal canone nel fatto di essere ambedue dei fetenti. Nati entrambi nel 1981, uno è una specie di scrittore (romanzi, fumetti, articoli, quella roba lì), l’altro è un lottatore di wrestling. Tevini ti parlerà di fumetti, fantastico e simili, Malacarne di Wrestling (oltre a occuparsi della gestione operativa dei reclami e soprattutto di chi li esprime).