[In ritardo sul mese “A testa in giù” (come sempre), Arabella ci teneva a festeggiare comunque il compleanno di QUASI e la festa più bella che c’è]
In una tavola bellissima la fumettista Gemma Correll disegna un’infinità di piccoli pezzi di puzzle che rappresentano, però, evidentemente, parte di scene diverse, e scrive: «Bipolar Disorder feels like… knowing you have all the pieces but funding it impossible to remember how they fit togetherI».(«Il disordine bipolare – traduco io, male – ti fa sentire come se sapessi di avere tutti i pezzi ma ti riuscisse impossibile ricordare come si incastrano insieme.»)
In questa conversazione unipolare che sto conducendo con te che leggi mi domando se non sto citando un po’ troppo la mia sindrome bipolare. Ma poi penso che è come avere un’aura gigantesca che mi circonda, luminosa oppure oscura, che getta la sua luce e la sua tenebra su tutto quello che ho intorno, e forse un pochino anche sule persone. Niente superpoteri, più un personale tempo atmosferico. Quindi tanto vale prenderne atto e farlo presente anche agli altri, così che possano tutelarsi quando credendo di trovarsi davanti la te stessa A, che irradia allodole e arcobaleni, si trovano davanti la te stessa B, e pioggia a catinelle. Così adesso, tra tuoni, lampi e allodole, andiamo a parlare di una carta speciale, magica, iconica ma che a me sta abbastanza – perché sono superficiale, ma lo scopriremo poi – sul cazzo.
Tutte le modulazioni umorali di me hanno in comune una carta del mazzo dei tarocchi marsigliesi che ci fa uscire di testa, ed è quello dell’Appeso. Io lo detesto, l’appeso, perché diavolo non ci mostra le mani? voglio dire, sei lì appeso per un piede in una posa aggraziata da Baryšnikov, e non ci fai vedere che hai le mani legate e quindi non puoi? E se le tue mani non fossero affatto legate? Stai architettando qualche trucco da escapista? Ma allora diccelo, perché l’attesa è insostenibile! E, poi, guardiamo un po’ la vegetazione che ti circonda: i tuoi capelli non sfiorano la terra, si sono radicati, sono diventati erba, indistinguibile da quella vegetale che cresce verso l’alto. E le piante accanto a te, che reggono il tuo patibolo (ma non sarà un palcoscenico, a tratti?), sono vive o morte? Non sono certo i legni della croce, perché le ferite inflitte ai tronchi, Lingam, hanno la forma rossa e stillante di umidità della Yoni.
E quindi cosa vuoi maledetto appeso? E un giorno l’ho chiesto alla mia maestra poetessa e lei ha girato la carta.
Il XII, numero dell’accumulo di saggezza nel secondo giro, quello che comprende angeli, stelle, demoni e sostante immateriali, era rotolato in fondo. Se ne stava lì, umilmente ribaltato. Andarlo a cercare mi ha permesso di vedere che così capitombolato la X della decina era preceduta dalle due umili unità (II) che sono l’ossatura della numerologia. Come dire: a carta dritta, bene ragazze, siamo uscite dall’inferno ed entrate nel purgatorio, come potete sentire qui c’è tutta un’altra aria; ma no, quel due (II) iniziale, a carta rovesciata, mi ricorda che l’accumulo della saggezza, in alto, in basso, avviene sempre con la costanza e la determinazione della goccia che scava la roccia. Se stai attento. Se non perdi le tue perline colorate… poi tanto ne ritrovi delle altre.
E allora, da quel meraviglioso 12 ribaltato ho alzato lo sguardo e ho guardato l’appeso negli occhi.
L’appeso mi restituisce lo sguardo. Dopo un po’ che fisso la carta comincio a provare una sensazione di gioia, infantile, trionfante: perché? In uno dei miei libri preferiti, Il meraviglioso Daft Bat di Jeanne Willis illustrato da Tony Ross, conosciuto qui in Italia con il titolo melodioso di Gisella Pipistrella, una pipistrella viene considerata pazza da tutti gli altri animali perché nel mondo che descrive il cielo è un pavimento azzurro e montagne nuvole verdi sopra la testa, Ma quando l’inondazione – «attenzione, se l’acqua sale vi bagnerete le orecchie!» – costringe tutti gli animali ad aggrapparsi ai rami… sorpresa! !l mondo è esattamente come lo descriveva Gisella! Accidenti, quindi non era solo una pazza a testa in giù!
È evidente che questo appeso abbia molta saggezza da dare col suo modo strano di guardare le cose.
Ieri mattina sono uscita di casa e mi sono trovata chiusa fuori. Mi sono ricordata che il giorno prima avevo dimenticato le chiavi nella toppa e la mia vicina, quella che tiene anche una copia di scorta delle miei chiavi, me le aveva appoggiate su un piccolo mobile sul pianerottolo. Io, ovviamente dopo dieci secondi mi ero dimenticata completamente delle chiavi e, siccome il mobiletto sul pianerottolo non entra abitualmente nel mio campo visivo, le avevo totalmente ignorate. Avevo chiuso la porta e avevo poi scoperto che la vicina con la copia delle chiavi era in sala operatoria, a farsi operare un ginocchio. Sì stava addensando la tempesta perfetta.
In attesa che tornassero i suoi figli e mi dessero notizie di P., e magari la copia della mia chiave, avevo otto, nove ore di tempo. Senza libri, tra l’altro, stranissima cosa, che io son boomer e non mi piace giochicchiare col telefono, a me serve per telefonare, scrivere in ottomila gruppi WhatsApp che odio, fare gli auguri su Facebook, usare Wikipedia e Maps (nota: Maps, più tardi, mi si è rivoltato contro, forse perché l’ho messo per ultimo).
Comunque ho deciso di andare a fare delle commissioni che rimandavo da tempo, cominciando con il ritirare della biancheria in lavanderia, di quella che porti a ottobre e di cui ti ricordi in aprile. Ho parcheggiato dove parcheggio da duecentocinquantatré anni, in una strada piccola con pochi parcheggi ma anche scarsissimo traffico. Come me, molti altri avevano parcheggiato in spazi di fortuna. Serena (ma perché serena? Mi ero appena chiusa fuori di casa!) ritiro la mia trapunta, scambio due parole con la signora gentilissima che si ricorda sempre dov’è la mia roba quando perdo i foglietti col numero, esco e lungo tutto il marciapiedi, in alcuni casi anche sopra, era tutto uno stormire di foglietti bianchi sotto ai tergicristalli. Ho persino composto un Haiku, persino:
Luce di aprile
fiori di mandorlo che
fanno piangere.
C’erano alcuni tratti di ingiustizia in quella multa, così come nella organizzazione urbanistica della strada, però era inutile stare lì a discutere da sola in quella distesa di macchine tutte fruscianti di foglietti che si arricciavano nel vento, quindi ho pensato «Fanculo multa, ti pagherò ma non mi avrai, sei una multa malvagia perché hai considerato marciapiede ciò che marciapiede non era, ma io ti piego piccolina nel portafoglio, che mi stai sul cazzo e non ho voglia di vederti, poi stasera ti pago e uscirai dalla mia vita».
A questo punto avevo bisogno di una tazza ti tè, e ho chiamato la mia amica K che mi ha detto «Ma certo, ti aspetto!»
Allora… K abita in un piccolo villaggio di quelli che costruivano negli anni Cinquanta Sessanta del secolo scorso. Due milioni di case tutte uguali in vie che si chiamano via Ottava o Traversa Diciassettesima. Insomma trovarla non è mica facile, continuavo a girare intorno alla statua del prete fondatore del villaggio e a un gigantesco e minaccioso pilone della corrente. Era così: stradina, stradina, stradina, prete in metallo, stradina stradina stradina, pilone, stradina, prete…
Con Maps sul sedile accanto, ovviamente, che mi dava, curiosamente, indicazioni con una voce una volta femminile e una maschile, quindi prete, pilone, voce non binaria.
A un certo punto, dopo che io e K ci siamo sentiti per telefono tre volte e io ho seriamente pensato che abitasse in Diagon Alley, ho ceduto all’analogia e l’ho pregata di guidarmi a voce, come negli anni Novanta. Ed è lì che ho abbassato le difese – non dimenticare, amica lettrice, che tutte quelle cazzo di stradine e di casine sono identiche – e convinta ho girato a destra in via 101.001 invece che 101.002.
La polvere di fata cattiva che evidentemente mi avvolgeva come una nuvola di borotalco dall’inferno ha fatto sì che quella, e solo quella straducola, in cui viaggiavo per fortuna ai 30 all’ora cercare il numero civico – a 50 passi dall’intersezione con un’altra straducciola cambiasse senso di marcia.
Sul serio, andavo in una direzione, con precauzione, e di colpo un segnale bello ma poco visibile in alto mi ha detto di parcheggiare, inchiodare, fare una inversione a U… non lo so. Dopo l’incidente, perché ahimè, a bassissima velocità, c’è stato un incidente, sono tornata indietro e ho contato quanti passi a senso di marcia invertito c’erano. Ciquanta passi. Cui prodest? I vicini accorsi – tra cui K, che ovviamente abita nella fottuta strada a fianco – mi hanno coccolato dicendomi che due volte a settimane c’è un incidente e qualche giorni prima – e qui ho sentito una nota di orgoglio nella voce di una vicina – «un furgone si è ribaltato».
Ho dovuto compilare la constatazione amichevole, la rata della mia assicurazione andrà alle stelle, ho pagato novanta euro di multa per un parcheggio che ho usato, senza colpo ferire, per 40 anni, però quello che volevo dire è: il mese scorso, io volevo solo morire. Volevo morire perché avrei voluto vivere ma la vita era così insopportabile che pensavo che ci fosse una unica via d’uscita. La Primavera sicuramente avrà influito, per noi bipolari la primavera è come essere attaccati da un cane feroce, sta di fatto che io ero in fondo a una buca.
Poi è successa una cosa strana. Mi sono ammalata tanto, ho passato tanti giorni con 39 di febbre e quando ne sono riemersa il mio cervello si era resettato e io ho attraversato questa giornata di chiavi perdute, multe mostruose, ciòcchi in macchina… con una specie di leggerezza, spatio brevis spem longam reseces, qui e ora questo è successo. Facciamocene carico e poi andiamo,
La malattia mi ha intrappolata in una immobilità che, quando non sono io a sceglierla, mi fa impazzire, eppure ho attraversato quei quindici giorni come se la carta dell’Appeso fosse un tunnel lunghissimo, e ho cercato di tenere gli occhi aperti, di conservare un po’ di compostezza, di contatto col mondo, ma la verità è che ero lì, immobilizzata, e il mio cervello, quasi a mia insaputa, ha capito. Ora è successo, facciamocene carico, siamo vivi, andiamo avanti. Oh, non riesco a spiegarmelo neppure adesso questo senso di leggerezza, di buon umore che ancora mi porto addosso.
So solo che io non so cosa l’Appeso nasconda fra le mani, ma la parte profonda della mia mente lo sa.
Le tessere di mosaico di Gemma Correll sono una bella metafora: spesso mi ritrovo a ricorrere alle fumettiste quando devo parlare di disordine bipolare. L’altro ieri mi è arrivato Rock Steady: Brilliant Advice from My Bipolar Life, l’ultimo libro di Ellen Forney. Forney è l’autrice di Marbles, uno di quei fumetti che se li leggi non li dimentichi. In quel fumetto, racconta la scoperta della propria sindrome bipolare, tra un crollo depressivo e un attacco ipomaniacale. Con Rock Steady mi sono commossa.
C’è dentro tutto quello che ha imparato sul suo disordine. È un manuale, ma anche una narrazione, e quante cose dette sulla salute mentale potrebbero essere lette da persone eutimiche, e rivelare che siamo tutti un po’ a pezzetti, e magari possiamo perfino imparare ad aiutarci. Da soli, tra di noi.
Spero lo traducano in italiano, è un manuale di sopravvivenza utile, divertente e commovente.
Rock Steady diventerà probabilmente, e per molto tempo, il mio libro da comodino. Ho bisogno di regole, di ascolto e di strategie. Di Medici, di medicine e di speranza.
Un disordine bipolare è, in un certo senso, un lavoro a tempo pieno. Uno di quelli in cui ti svegliano alle 4 del mattino per far partorire la cavalla. Poi so che devo dire che io non sono il disturbo, che le medicine danno un equilibrio che consente di svolgere le funzioni di una vita normale. Ma la mia personale verità è che le medicine vanno e vengono, funzionano magari per anni ma poi si rientra nel circo della sperimentazione, se, fortunati, si è affiancati da bravi medici. E che anche con un buon controllo di stabilizzatore dell’umore ci sarà l’orrore della primavera, l’inferno dell’estate, e gli altri metri in cui mi sento in un rifugio che dovrò abbandonare col disgelo. E che se conduco una vita ricca, ricchissima, e stasera ho due spettacoli itineranti, e in qualche modo le cose stupende da fare continuano a materializzarsi, è anche merito della mia parte maniacale, quella up, che vede la vita arcobaleno.
Quindi, le tessere del mosaico bipolare di Gemma Correll mi fanno pensare a un sacchetto di letterine come quelle che si usano per giocare a Scarabeo.
Non sai che lettere ti toccano, le rovesci sul tavolo e cerchi di metterle in ordine in un qualche modo. solo che, a volte, non c’è nessun senso, mentre invece, altre volte, puoi comporre delle parole terrificanti o bellissime.
Tantissimi anni fa una mia amica – quella che aveva le mie chiavi ma era sul tavolo operatorio – aveva un bambino, M. Eravamo nel salotto dei miei genitori, me lo ricordo perfettamente anche se è successo almeno trent’anni fa. M. proprio quel giorno aveva scoperto le rime: le creava e quando se le sentiva uscire di bocca restava, almeno così mi pareva, stupefatto.
Io ascoltavo e mi piacevano tantissimo, ricordo ancora Tutti i bicchieri sono neri, però a un certo punto da quella bocca è uscita la frase: La luce non si cuce e io sono rimasta infilzata. Come una farfalla sul velluto. Ho pensato che era una delle frasi più belle e complesse e poetiche che avessi mai sentito nella mia vita. Dal sacchetto delle letterine di M. era uscita, con lettere non particolarmente difficili, una frase così perfetta. Gli era sgorgata dalla bocca, come acqua di fontana.
Ecco, io credo che la mia vita sia un po’ un alternarsi tra Tutti i bicchieri sono neri e La luce non si cuce. In mezzo ci sono momenti in cui nel sacchetto c’è solo gszttzwkkhyyy e sono costretta ad andare per il mondo mimando e sperando di recuperare al più presto (questa è una mia piccola metafora per la psicoterapia) delle vocali diverse dalla y, o almeno delle consonanti di uso quotidiano.
Ma io oscillo tra bicchieri neri e luce, SE proprio tutti i bicchieri sono neri, va così, però puoi berci dentro. Anche se questo non li renderà più allegri. La luce non si cuce perché non puoi tenerla ferma, poi solo godertela mentre passa, ti attraversa, ti trafigge, ti illumina, ti inzuppa della propria magnifica meravigliosa essenza di arcobaleno.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.