Alessio Lega è un amico, che ultimamente vedo poco. Perché è un cantautore anarchico, e come ogni anarchico che si rispetti «in tutto il mondo ha sempre corso», per portare l’azione del suo canto nelle piazze e nei teatri. Pensa che le ultime volte che l’ho incontrato di persona, una è stata – due estati fa – a Trieste in Campo San Giacomo, dove ero di passaggio, e dove lui stava portando il suo spettacolo su Ivan Della Mea; e una – un’estate fa – in Scighera (un circolo Arci milanese) per il suo spettacolo sulle canzoni della resistenza. Spettacolo nato da (ma potrebbe essere viceversa) un libro che aveva curato per Mimesis: La Resistenza in 100 canti.
Ad aprile di quest’anno Alessio ha pubblicato quello che, in qualche modo ne è una specie di prequel (non so se mi passerà il termine): L’anarchia in 100 canti, in cui ripercorre la storia del movimento anarchico da Pietro Gori alla Guerra civile spagnola, usando le canzoni anarchiche (ma anche socialiste: ti stupirai scoprendo un Filippo Turati sorprendente autore di un famosissimo canto) come coordinate per tracciare questa mappa complessa.
Un volume che ho divorato e che mi ha fatto venire la voglia di parlarne con l’autore. Solo che raggiungere l’Alessio (negli ultimi giorni ha cantato sui palchi e nelle piazze di Roma, Firenze, Brescia, Catanzaro e mille altri posti) per me, inchiodato qua, nella mia sedentarietà milanese, non è possibile.
Meno male che esiste la tecnologia che ci permette di discutere degli argomenti a cui teniamo, anche quando la logistica è così variabile.
Allora gli ho scritto che avevo appena finito di leggere il suo volume dedicato alla storia dell’anarchia attraverso le sue canzoni e che mi era piaciuta molto la struttura. Dato che Emma Goldman è tra i numi tutelari di QUASI (una rubrica si intitola proprio “If I can’t dance, it’s not my revolution!”) gli ho chiesto se potevo fargli delle domande per mail, ma non una roba preconfezionata. Gli avrei mandato una domanda, lui mi avrebbe risposto e dalle suggestioni della sua risposta avremmo avviato una conversazione. Poi quando ci sarebbe stato il numero giusto di battute, avrei montato ed editato il tutto per tirarne fuori un pezzo.
Alessio: Ho un dubbio: in un’intervista “de visu” o in un elenco di domande, si tende a una maggiore sintesi, a un botta e risposta che si risolve nell’immediato. Se invece rispondo a ogni singola sollecitazione non rischiamo di fare tanti singoli trattatelli?
Boris: Diciamo che il rischio dei tanti trattatelli è un po’ la cifra di QUASI, l’importante è rendere il tutto il più scorrevole possibile.
A.: Allora accetto il gioco e ti rispondo… vai con la prima domanda.
B.: Mentre leggevo il tuo libro avevo in mente l’aria di quasi tutti i canti che citi e racconti, e quindi la lettura è scorsa via senza intoppi. Ammetto però, per esempio, che non conoscevo assolutamente come procedesse il cantato della Banda del Matese di Benito Merlino– poi ne ho trovata una versione sul tubo, ok, e l’ho apprezzata, ma non è il punto. A leggerla e basta l’ho trovata intricata di quei residui letterali e artifici retorici che attribuisci, giustamente, agli scritti di tanti “teorici” dell’anarchia.
Mi chiedo se, mentre lo scrivevi avevi presente questo problema: come si pone un lettore, magari giovane, che della parte melodica e ritmica di queste canzoni non conosce nulla, davanti al racconto di un’idea che procede per canzoni?
A.: Do per scontato che leggere un testo di letteratura applicata – libretto d’opera, testo teatrale, sceneggiatura e ovviamente canzone – di un secolo fa, comporti qualche rischio… d’altronde (con pochissime eccezioni) anche la letteratura “alta” dell’epoca ha un linguaggio artificiale (il poeta di riferimento era pur sempre Giosuè Carducci!). La canzone, proprio per il suo richiamo all’oralità, per la sua missione di mettere in equilibrio l’individuo con la società, ha una maggiore schiettezza… soprattutto disponendo oggi di strumenti come YouTube, che ci permettono di recuperare facilmente le melodie. Mi pare che riconnettendo quelle parole alle storie che le hanno generate, vi si ritrovi comunque la passione della vita, ed una fede (oggi perduta) nella rivoluzione.
B.: Ecco, sì. Questa è la cosa che mi affascina e per cui trovo indispensabile questo tuo saggio, ma anche l’altro sui canti della resistenza. A me, che sono più vicino a quella che tu hai definito anarchia «più prettamente filosofica», collocare in ambito teorico la forma canzone, viene facile… invece non mi era chiaro come la canzone potesse collocarsi sul piano dell’azione. Questo tuo lavoro, che attraverso la narrazione storica riconnette le canzoni alla vita – non solo di chi le ha generate, ma anche e soprattutto di chi le ha cantate – mi ha chiarito come i canti siano parte integrante dell’attività pragmatica dei movimenti anarchico e socialista. Quanto ha contato in questo la parte più preponderante del tuo lavoro, e starei per dire, della tua vita, che questi canti porta in giro in forma di spettacolo?
A.: Se il fenomeno essenziale è la presa coscienza, io direi che i canti ne sono protagonisti. Un fenomeno, vecchio come il movimento operaio, ma che negli ultimi vent’anni ha preso a rinnovarsi, accrescendosi, è quello dei cori che si occupano prevalentemente di repertorio sociale… ne conosco a decine. Un po’ malignamente si dice che i militanti degli anni Settanta, quando cominciano ad essere anziani, si riducono a fare un coro… io credo sia vero anche e soprattutto il contrario: ci sono persone che si avvicinano alle corali, e poi attraverso questi canti diventano militanti.
Un libro come il mio aspira allo scopo di ricostruire il tessuto connettivo – narrativo, storico, letterario – fra canto e canto.
B.: Nel ricostruire questo tessuto connettivo, mi è sembrato che tu abbia tenuto aperto e vigile anche uno sguardo critico. Per esempio, ho trovato molto interessante la tua critica al testo della traduzione italiana dell’Internazionale (te l’avevo già sentita muovere in uno spettacolo dedicato alle canzoni di Franco Fortini) che è veramente brutto al punto da farci auspicare una nuova traduzione che però non sia completamente un’altra canzone come quella di Fortini e Della Mea. Quello che mi interessa sapere da te, che la vivi sul campo con i tuoi spettacoli, e pensando proprio alle corali che l’hanno nel loro repertorio, come si può affrontare e limitare il rischio che, rimaneggiandone il testo, la canzone non scolori dalla memoria del nostro immaginario?
A.: Per quel che riguarda l’Internazionale è una battaglia persa in partenza (o se preferisci, vinta da chi ha fatto quella brutta traduzione). L’Internazionale italiana resta quella: è impossibile sostituire parole così celebri, senza dare l’impressione di essere un povero stronzo che vuole fare il dandy, venendo ad insegnare come si canta la rivolta a generazioni che sono morte, si sono fatte torturare con quelle parole sulla bocca. Il massimo che si può fare è appunto dire: la brutta versione italiana. Ed è già troppo.
B.: Già. Tanto è brutta la versione italiana dell’Internazionale, tanto ho trovato bello invece Il Canto dei Lavoratori. È stata una sorpresa per me, scoprirlo scritto da Filippo Turati. Lo preferisco quasi a quello di Pietro Gori con cui lo confronti. Quando a questo proposito dici che non si devono mai sottovalutare le canzoni, è un po’ come se dicessi che le canzoni, nonostante le intenzioni dei loro autori, hanno spesso una vita propria, che le porta a simboleggiare e veicolare valori a cui magari l’autore in quel momento non pensava. Come quel gioiello inarrivabile che è Le temps des cerises.
A.: In effetti Il canto dei lavoratori di Turati è un testo sorprendente, e suppongo che sia sorprendente (ed in qualche misura anche “eretico”) trovare quel testo in una raccolta di canti anarchici. Sta di fatto che quel testo è un modello al quale moltissimi canti successivi (indiscutibilmente di matrice anarchica) si riferiscono. Quel testo lì – per il quale probabilmente Turati fa appello alla sua gioventù scapigliata, e riesce a tenere lo sguardo poetico più alto del proprio stesso pensiero politico – sta a dimostrare come il canto – socialista, anarchico, repubblicano – esprima in fin dei conti le medesime preoccupazioni. Al di là delle divisioni ideologiche, delle correnti, delle barriere, una sorta di corrente rivoluzionaria era comune a tutte le branche del movimento operaio (e se vogliamo, anche al di là).
B.: Anche al di là. Sì, sconfinando nei movimenti giovanili che traducono quel canto in nuove istanze. Il tuo libro si ferma alla Guerra civile spagnola (e devo ringraziarti per avermi fatto scoprire un gigante come Chico Sanchez Ferlosio), ma nell’ultima parte, una specie di appendice, tracci questa traiettoria, quasi fosse la promessa di un terzo volume, che dal canto sociale più propriamente detto arriva ai grandi chansonnier francesi e a Fabrizio De André. Non ce le hai messe, band come i Black Flag o i Dead Kennedys ma non pensi che quelle istanze arrivino fino a certo rap, passando proprio per il punk?
A.: Il mio libro copre il cinquantennio 1871-1921: quello in cui lo sviluppo delle idee e delle pratiche anarchiche può essere meglio raccontato attraverso i canti. Non potevo poi trascurare due momenti, più isolati ma essenziali: la rivoluzione spagnola e la tragedia di Sacco e Vanzetti.
Questo nell’ottica di una trilogia di libri di storia del movimento attraverso i canti: Anarchia (1871-1921), Resistenza (1922-1960), Contestazione e stragi (1960-1980).
Il ragionamento su hip hop e punk (due generi che cantano sovente testi esplicitamente politici) mi sollecita l’ennesima parentesi metodologica. Il rapporto fra Pietro Gori e Francesco Guccini, quello che dai canti della Comune (attraverso Brassens, Vian e compagnia) arriva a De André è innegabile, anche sul piano formale, sullo stile narrativo. Un musicista punk o uno hip hop invece – pur facendo canto di tematica sociale – prescinde completamente dal rapporto con quella tradizionale. Poi, certo, ci possono essere eccezioni: penso che Joe Strummer sapesse benissimo chi era Woody Guthrie… ma il punto da cui parto io, per la mia operazione di saldatura fra canto politico tradizionale e cantautori, si interroga su un dato scientifico e non sull’intuizione critica.
Trovo che questa precisa definizione del proprio metodo d’indagine, che fa del volume di Alessio Lega un importante documento storico, sia il viatico migliore per condurre chi, tra le lettrici e i lettori di QUASI, ancora non l’abbia fatto a leggere e a (parallelamente) ascoltare con ogni mezzo necessario, questo libro.
Alessio Lega, L’Anarchia in 100 canti, Mimesis, 2023
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.