Paolo: Sai che da quando facciamo QUASI, invece di ammorbidire la mia posizione rispetto alle riviste, mi scopro a pensare sempre più spesso che quei manufatti, cartacei o no, vecchi e ormai inusabili, decisamente invendibili, siano ancora necessari?
Boris: Lo penso anch’io, magari non in quella forma che trovavamo nelle edicole, ma credo che siano necessarie per formare lo sguardo critico sull’immaginario. In fondo mica saremmo qui a esercitare quello sguardo, se non lo avessimo formato trent’anni fa su quelle che, allora, erano le riviste.
P: Oggi non riesco a trovare riviste di carta. Mi annoiano tutte. Scopro di leggere con piacere solo “Vogue” e, qualche volta, “Abitare” e “Vanity Fair”. Perfino “Linus”, che pure contiene molta roba che mi piace, mi lascia indifferente. Mi perdo, mentre sfoglio quella roba, perché non riesco a vedere lo sguardo che unisce il tutto. E, paradossalmente, in “Vogue” (che ha una struttura editoriale articolatissima, ma anche una storia consolidata) quello sguardo si vede di più. Mi pare che le riviste che ho amato quello sguardo lo mostrassero sempre.
B: Dipendeva da chi faceva quelle riviste. Se penso a “Linea d’Ombra” o a “Orient Express”, per esempio, quello sguardo c’era, eccome. Ma quando leggevo “Il Mucchio Selvaggio” o “Comic Art”, non c’era nulla che tenesse insieme le cose che ci infilavano dentro.
P: Hai ragione. Mentre leggevo “Il Mucchio”, mi appassionavo ad alcuni redattori e imparavo a odiarne altri. Sembrava che l’unica cosa che tenesse insieme quella rivista fosse il punto metallico.
Invece con la rivista di Goffredo Fofi e, ancora di più, con quelle di Luigi Bernardi avevo la sensazione di muovermi sotto il loro sguardo. Se avevo letto qualcosa che mi piaceva, gliene ero grato; se mi incazzavo, avevo un bersaglio per il disappunto.
Con Luigi, poi, è successo fin dal primo incontro. Un numero di “Pilot” in un’edicola messinese. A te come è andata?
B: Stavo a Sestri Levante, tra la via Aurelia e il west. Poco distanti dall’hotel Nettuno c’erano una sala giochi e un’edicola gigantesca. Le giornate che non stavo in giro con il Ciao, le passavo a giocare a Space Invaders e a leggere vecchi Bonelli che trovavo in quell’edicola. Poi, una mattina, la folgorazione: quella rivista con la Dracurella di Ribéra in copertina, sapevo mica chi fosse ma il me quattordicenne la preferì subito a Zagor e pure a Mister No.
P: Quella copertina con Dracurella era bellissima. Raccontava una storia, c’era una donna bella e discinta, un drago e una gag che faceva riferimento all’autofagia. Dracurella è stata la mia prima vampira sexy, molto prima di Vampirella, ma anche di Zora e Jacula nei tascabili porno. E tutto attorno c’era una rivista da leggere. Mica la conoscevo la storia della rivista “Pilote”, e il fatto che ci fossero storie lunghe che iniziavano e si concludevano, tutte e tutte insieme, in cicli di quattro numeri, mi aveva molto colpito.
B: In realtà, qualche mese prima, avevo già incontrato “1984”, il numero quello con la copertina di Corben, con la ragazza nuda legata al razzo. Ma quello che ha fatto la differenza fu che, per la prima volta, leggendo l’editoriale di Luigi che apriva il numero, vidi la complessità dei collegamenti che tenevano insieme il mio immaginario. Hai ragione, prima di quell’estate nemmeno io sapevo nulla del “Pilote” francese e di tutta quella incredibile storia dei fumetti. Mi torna in mente adesso però che proprio Luigi ce la raccontò nelle due pagine di editoriale dandoci le basi per disegnare una mappa in cui finalmente orientarci con consapevolezza. Poi, vabbè, se non ricordo male, cominciava proprio su quel numero. Le falangi dell’ordine nero di Pierre Christin e Bilal. È stato imprinting!
P: Mi sa che ti ricordi male. Sono andato a controllare (non fare battute sul mio OCD!). La copertina con Dracurella è quella del penultimo numero diretto da Bernardi, datato gennaio 1983. Io lo leggevo dall’estate precedente. Il primo numero che ho preso aveva una copertina western dedicata a Jonathan Cartland e, ancora oggi, mi chiedo cosa mi abbia spinto a comprare una rivista con un noiosissimo pistolero a cavallo in copertina. Si apriva con un articolo su Philip Dick firmato da Diego Gabutti. E per me era già tanto: non conoscevo Dick e mi stupivo del racconto della vita e delle opere di questo scrittore appena morto. Dentro c’erano fumetti che mi hanno segnato molto. Non tanto Bilal; ricordo molto bene lo shock del mio primo Lauzier, le pagine di Franc e, adesso che la rivedo, mi accorgo che avevo amato una cosa che poi non ho più cercato: una satira della caccia firmata da Tartempion.
Il numero con l’articolo che raccontava “Pilote” e conteneva le Falangi era il primo, datato dicembre 1981, e lo avrei recuperato qualche anno dopo, durante le vacanze estive dai nonni, in un negozio dell’usato di Messina che aveva un nome bellissimo: “La cassaforte del vecchio papero”.
Qualche mese dopo è arrivata “Orient Express”.
B: Ahahah! Son passati più di quarant’anni, cazzo!, qualche inceppamento mnemonico posso anche permettermelo. Pensa, nella mia memoria “Pilot” e “Orient Express” sono due momenti della mai formazione intellettuale nettamente separati. Invece si sono accavallati, anche se per un breve periodo. Però quando ho incontrato “Orient Express” per la prima volta me lo ricordo benissimo. All’epoca stavamo in San Michele del Carso e quando portavo giù il cane, risalivo tutta la via tutta fino in piazza Baracca. L’edicola sta ancora lì, anche se non ha più riviste che valga la pena leggere. Era estate ed era il 1982, ne sono sicuro: stavolta ho controllato. E dove stavano le riviste di fumetti c’era questa, nuova, lucidissima. con lo Sconosciuto in copertina. Conoscevo Magnus per Kriminal, Satanik e Alan Ford, ma lo Sconosciuto mi era, appunto, sconosciuto. Credo di averla letta tutta lì in piedi, all’edicola, con il cane che scalpitava per andare ai giardinetti.
P: Per il mio primo “Orient Express” ho dovuto aspettare che ricominciasse la scuola. Era il numero 5, datato ottobre 1983, e aveva in copertina Alan Hassad disegnato da Baldazzini. Di quel fumetto ricordo solo che il personaggio aveva una strana riga verticale in mezzo alla fronte e non capivo perché. Su quelle pagine ho incontrato Sam Pezzo di Vittorio Giardino e Big Sleeping di Daniele Panebarco. Nei redazionali – non so se in quel numero o in uno successivo – si parlava della scelta di recuperare Lo Sconosciuto di Magnus, che non avevo mai letto. Nel numero successivo avrei letto la mia storia preferita di Massimo Cavezzali, Ivan Timbrovic nell’isola di Pasqua, e avrei incontrato finalmente Lo sconosciuto, nei panni del narratore del Volo del Lac Leman. Un numero alla volta, le spire della costruzione bernardiana mi stringevano sempre più. Alla decima uscita, La fata dell’improvviso risveglio di Magnus non mi avrebbe dato
B: A proposito dei redazionali. C’era “Scompartimento omicidi”, a cura del gruppo SIGMA, una roba tipo Scrittori Italiani del Giallo e del Mistery Associati, che, guidato da Loriano Macchiavelli, ragionava sullo scenario post Scerbanenco e sulla letteratura di genere italiana. Da quell’esperienza nascerà il Gruppo 13. Ad alcuni di loro, Carlo Lucarelli su tutti, dobbiamo la rinascita del poliziesco italiano.
P: Sì. L’attenzione ai generi, al giallo e al nero principalmente, è una delle cifre dello sguardo di Bernardi fin dall’inizio. Poi c’è la ricerca di tutti quei fumettisti italiani che, in quegli anni densi, vogliono essere narratori e non avanguardia. Giardino, Panebarco, Cavezzali e poi Attilio Micheluzzi, Franco Saudelli, Paolo Eleuteri Serpieri, Carlo Ambrosini, Anna Brandoli e Renato Queirolo, fino a lambire quegli autori che stavano nei più autoriali tra i fumetti che allora dicevamo popolari, come Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo, Ferdinando Tacconi, e lo stesso Magnus, e ad atterrare sugli autori che già mescolavano narrazione classica e avanguardia: Moebius, Jodorowsky con Silvio Cadelo e Alberto Breccia con Juan Sasturain, tra tutti.
Quando, dopo appena trenta numeri quella rivista chiude, degli anni Ottanta non si è conclusa neppure la prima metà e io mi sento orfano.
B: Proprio orfani. Piu o meno nello stesso periodo se ne era andata anche la seconda serie di “Pilot”… certo, Bernardi non c’entrava nulla con quella, ma tra la sua “Orient Express” e la “Pilot” di Tiziano Sclavi avevamo vissuto un periodo di esplorazioni incredibili. Comunque, cinque, forse sei lunghi anni, non di deserto ma di assenza di sguardi costruttori d’immaginario, durante i quali la prima cosa che facevo quando usciva il nuovo numero di “Comic art”, era cercare i pezzi del gaijin, il nome che si era tatto Luigi Bernardi su quella rivista. Lì, trovavo sollievo. Poi però iniziano gli anni Novanta e arriva “Nova Express”. Avevamo ritrovato una famiglia.
P: Tra “Orient Express” e “Nova Express”, ci sono state altre riviste che ho letto con attenzione, alcune le ho anche amate. Continuavo a leggere “L’Eternauta” e “Corto Maltese” (che era indifendibile), guardavo “Comic Art” come se fosse un guazzabuglio, e ho amato le stranezze di “Dolce vita” e “Tic”, il nero di “Torpedo” (che ha avuto due numeri iniziali sublimi e un prosieguo inerziale di una decina di numeri), gli inizi di “Blue” e il progetto sgangherato di “Cyborg”.
Paradossalmente, ho iniziato a trasformare Bernardi in un mito personale proprio mentre non aveva una rivista sua. Leggevo i suoi articoli su “Comic Art” e mettevo a fuoco il suo sguardo.
Quando è arrivata “Nova Express” ero pronto. Avevo letto e riletto “Orient Express” nell’attesa. E ora avevo una rivista che esigeva che io la leggessi da copertina a copertina.
L’editoriale del primo numero, che si rifiutava di spiegarmi che rivista stessi sfogliando, per dirmi del mondo che mi succedeva attorno (erano i giorni di Desert storm), mi spiegava il senso stesso di una rivista. Per farla non bisognava avere un progetto editoriale, una linea che tenesse insieme i contenuti; per farla bisognava avere un’idea di mondo.
B: Certo. La rivista è una specie di guida per muoversi nel mondo, se non ne hai un’idea, del mondo, fai cose come “Comic Art”, “Corto Maltese” diretta da Fulvia Serra, “Il Grifo”… Quella che Luigi raccontava dalle pagine di “Nova Express” era un’idea di mondo molto prossima alla mia (sarà perché me la ero formata sulle pagine delle sue altre riviste) e lo è rimasta a lungo, fin quasi all’ultima parte della sua vita. Era un mondo vastissimo, che non ho difficoltà a definire senza confini. Non dimentichiamo che con Granata Press non fece solo “Nova”, ma anche due riviste come “Zero” e “Mangazine” che ci catapultarono in mezzo a un modo di fare fumetti che non conoscevamo se non di riflesso grazie agli anime con cui eravamo cresciuti. E come dimenticare l’indispensabile “Kaos”, tentativo – non sempre riuscito – di mappatura di quel sistema narrativo, in pieno fermento negli anni Novanta, che erano i giochi di ruolo.
P: Quando ho conosciuto Luigi, la cosa che mi ha colpito di più è stato il suo sguardo. Ti puntava addosso occhi sottili, strizzati a fessura e, quando non parlava, sembrava sempre sorridesse un po’. Avevo sempre la sensazione che mi stesse un po’ prendendo per il culo. E sicuramente lo faceva. Parlava continuamente di storie: di romanzi, di fumetti, di pettegolezzi. Si somigliava un sacco e somigliava alle sue riviste.
E sai una cosa?
B: Cosa?
P: Quello sguardo, rivolto sul mondo mentre faceva riviste o case editrice e rivolto su di me forse prendendomi per il culo, me lo sento ancora addosso.
Oggi, per esempio, mi sento in colpa. Sono qui che penso alla coglioneria di chi si concentra sull’ampiezza del vasino in cui piscia e parla del grave attacco all’umanità mosso da una tecnologia che disegna meglio di lui (ma che viene qui e ci ruba le immagini e il lavoro) e mi sento tentato di infilarmi senza guanti nella shitstorm contro Eris. E mi sento in colpa. Cazzo!
Sono convinto che, in questi giorni, una rivista di Luigi si sarebbe limitata a mettere noi lettori di fronte alle nostre responsabilità umane parlandoci di Medio Oriente, guerra e morti. Magari raccontandoci un scrittore di noir o fantascienza o facendoci leggere un racconto o un fumetto.
B: Ecco… manca qualcuno che oggi sappia mostrarci con la sua poliedricità “Le radici del male”.