Quando muore, nel gennaio del 1980, ucciso dall’alcol e dai debiti, Jean d’Halluin ha cinquantasette anni. È stato dimenticato da tutti: gli amici con cui ha fatto l’impresa sono tutti morti prima di lui: Boris Vian nel 1959, Raymond Queneau nel 1976, Eric Losfeld nel 1979, Raymond Guérin nel 1955 e comunque non si parlavano dal 1952 per una questione di 100.000 franchi (ma te la racconto un’altra volta), le sue tre mogli, poi, non hanno certo voluto restargli a fianco dopo averlo lasciato. Mentre si spegne all’ospedale Laennec (a poche centinaia di metri da quello che è sempre stato il suo campo di battaglia: Saint.Germain-des-Près) lo assistono solo il fratello Geoges e la figlia Sandrine.
Nessuno degli attuali frequentatori del “Cafè de Flore” (al 172 di Boulevard Saint Germain), dove ancora si fermava – prima del ricovero – a cercare sollievo in un bicchiere (cioè, in ben più di un bicchiere), sospettava che quell’uomo in disarmo fosse stato quello che, trentaquattro anni prima, aveva fondato la casa editrice che avrebbe cambiato per sempre la letteratura di genere.
Cresciuto in una famiglia di tipografi per parte di madre e nell’ambiente del giornalismo per parte del padre, nel 1946, a soli ventitré anni, Jean d’Halluin fonda una piccola casa editrice con sede nell’ufficio di suo padre, al 12 di rue Blanche: Les Èditions du Scorpion.
Se ti piace credere alle leggende (su wikipedia la assumono per vera), avrebbe scelto questo nome in omaggio al segno zodiacale di quella che sarebbe diventata la sua prima moglie. In effetti si sposerà con Colette Debenais nel luglio del 1947 e può darsi che si frequentassero già all’inizio del 1946, ma Colette era nata il 31 maggio del 1928 ed era quindi dei Gemelli.
Comunque. Nei primi sei mesi del 1946 pubblica solo tre titoli, un libro per ragazzi, seguito paradossalmente da Miss Henriette Strolsen, il terzo degli undici racconti che compongono i Crimini dell’amore di De Sade. Il terzo titolo è un’opera minore di Balzac, Ferragus, racconto considerato da molti come il capostipite dei polar francesi. Se credi alle profezie, vedilo come un segno del destino.
Quello che però ha in testa d’Halluin è altro. L’anno prima che fondasse la sua casa editrice, e cioè nel 1945, erano successe due cose cardine per la storia dell’editoria. Il 2 dicembre veniva ucciso Robert Denoël (probabilmente giustiziato in quanto editore collaborazionista… e qui devo impormi di non partire con una digressione sulla sua attività di editore – fu lui a pubblicare, ne 1932, Viaggio al termine della notte di Luis Ferdinand Cèline – e sull’inchiesta per il suo omicidio)… comunque con la sua scomparsa le redini delle Editions Denoël passarono nelle mani della sua più stretta collaboratrice, nonché amante: Jean Voilier, (accusata a più riprese da Céline e dalla vedova di Denoël di essere implicata nell’omicidio), che ne ereditò la maggioranza delle quote per venderle, pochi mesi dopo a Gaston Gallimard. In questo breve lasso di tempo esce per Denoël la traduzione francese di Tropico del Cancro di Henry Miller (libro dalla storia particolare, uscito in americano proprio a Parigi nel 1934 per i tipi della Obelisk Press, casa editrice americana con sede in Francia per aggirare la censura, che poi diventerà la benemerita Olympia Press). Fu un successo di vendite inaudito.
Pochi mesi prima Marcel Duhamel aveva creato, guarda un po’, proprio per Gallimard la “Série Noire”, collana in cui, all’inizio del 1946, aveva pubblicato la traduzione (sua) di No Orchids for Miss Blandish di James Hadley Case, che fu a sua volta un successo incredibile.
Ecco, Jean d’Halluin ha fondato la sua casa editrice convinto di poter seguire queste orme e di infilare una serie di best-seller. Capisci quindi che quei primi titoli erano solo il riscaldamento in attesa di fare il botto con un titolo esplosivo.
È proprio in questo momento che conosce Boris Vian. Glielo presenta suo fratello, una sera di inizio agosto al bancone del Flore. Georges d’Halluin e Vian suonano insieme, Georges il contrabbasso e Boris la tromba, nell’orchestra jazz di Claude Abadie. Georges sa che Vian è un appassionato di letteratura americana e lo presenta a Jean perché gli consigli qualche titolo da tradurre. Ti serve un best seller alla Hadley Case? – gli dice Vian – te lo scrivo io.
Il 20 agosto consegna a d’Halluin il manoscritto di Sputerò sulle vostre tombe.
La storia dello scandalo che il libro, firmato con lo pseudonimo di Vernon Sullivan, sollevò e del processo per pubblicazione oscena cui vennero sottoposti autore ed editore, cui ovviamente seguì un discreto successo di vendite, probabilmente la conosci già. Se non la conosci, un giorno di questi te la racconto, ma adesso (come per l’assassinio di Robert Denoël) evitiamo digressioni. Andiamo avanti dritti dove dobbiamo arrivare con questo racconto.
Grazie al successo del romanzo di Vian/Sullivan Les Èditions du Scorpion vivono un periodo florido: la sede si sposta al 22 di rue Jean-Goujon e arriva a lavorarci un certo Eric Losfeld che imparerà proprio qui il mestiere d’editore (quanto cazzo dobbiamo essene grati a d’Halluin? …ah!, per inciso, nella sua divertentissima autobiografia Losfeld svela anche il vero motivo del nome della casa editrice, ma come già stabilito, niente digressioni), a disegnare le copertine arriva Jean Cluseau Lanauve che darà alla casa editrice uno stile inconfondibile.
Insomma, per fartela breve, tra il 1947 e il 1950 d’Halluin e Losfeld infilano una serie di best-seller tra i quali spiccano i romanzi scritti da Queneau con lo pseudonimo di Sally Mara, i romanzi di Guérin che Gallimard non voleva pubblicare per la loro esplicitezza, ma soprattutto La vita è uno schifo di Léo Malet.
Nel 1991 Granata Press rileva una casa editrice bolognese sull’orlo del fallimento, Metrolibri. Luigi Bernardi, che dirige Granata, ha un’idea precisa: usare Metrolibri per pubblicare narrativa, quella che ama e che, secondo lui è indispensabile per comprendere i tempi in cui viviamo. Così, ispirandosi alla Série Noire di Duhamel dà vita a una collana di polar, Criminalia Tantum. Il primo volume (che esce a dicembre), a mio avviso non ha una grande prospettiva, è provincialissimo, una specie di cosa dovuta: dedicato al Gruppo 13 un collettivo di dieci autori bolognesi senza grandi qualità, vede spiccare in realtà solo Loriano Macchiavelli (ma lui è già un decano) e Carlo Lucarelli. Va messo agli atti che Bernardi se ne rese perfettamente conto e gli chiese di prendere il suo personaggio, Coliandro e dargli maggiore respiro: avremo così Falange armata e Il giorno del lupo, ma se mi metto a parlarti di Lucarelli mi tocca fare digressioni su digressioni; mi sono ripromesso di no, quindi torniamo alla collana Criminalia Tantum.
A gennaio 1992 Bernardi pubblica il secondo volume della collana.
Devo farti una premessa: da quando ho avuto tra le mani, dieci anni prima, le robe pubblicate dalla Nuova Frontiera di Roberto Rocca, e in particolare la rivista “Pilot” diretta proprio da Bernardi, ho collocato Luigi nell’empireo di coloro che trasformano in prodotti editoriali esattamente quello che io voglio trovare in quei prodotti editoriali. Insomma, dal 1981, da quando, cioè, ho tredici anni, è uno dei maggiori costruttori del mio immaginario.
Quindi figurati come mi sentii quando a marzo del 1985 chiuse “Orient Express”. Mi rendo conto che dovrei raccontarti come da “Pilot” si arriva a “Orient Express” e che cosa è stata quella cazzo di incredibile rivista, ma sarebbe un’altra di quelle digressioni che mi sono ripromesso di evitare, allora ti basti sapere che Bernardi lo seguo sulle pagine di “Comic Art” creatura editoriale di Rinaldo Traini, personaggio antitetico a ogni mia convinzione etica ed estetica. Però dava spazio a Luigi e alla sua acrimonia critica, che sento sempre più come la mia.
Poi capita una cosa, nel numero di settembre del 1989 nella sua rubrica Circus, nel mezzo di una querelle violentissima che vede coinvolti fumettisti che vanno da Carlos Nine a Milo Manara, Luigi cita la parte conclusiva di una mia lettera firmata con il mio pseudonimo di allora: Alessandro Sessantotto. L’ho riletta recentemente quella lettera, e me ne vergogno. Non ho più niente a che fare con il me ventunenne, soprattutto dal punto di vista sintattico. Però il me ventunenne per quella citazione ha l’ego gonfio al punto giusto. Credo sia esattamente in quel settembre del 1989 che decido che il mio lavoro vero, quello per cui nessuno mi pagherà mai (quasi mai) e per cui, conseguentemente, sono splendidamente libero, sarà scrivere di fumetti.
Ma torniamo al 1992. Sto seguendo Luigi nella sua nuova avventura editoriale e gioisco per ogni uscita di “Nova Express” e delle altre testate che mi fanno conoscere i manga. Ma soprattutto resto senza fiato quando leggo, nella traduzione di Luigi Bergamin (ci torno sopra, perché a questo punto ho deciso che di ogni digressione che dovevo fare, ci tiriamo fuori un capitolo di questa storia) il secondo volume di Criminalia Tantum, nel gennaio 1992 e poi il terzo, maggio 1992. Rispettivamente: Posizione di tiro di Jean-Patrick Manchette e La vita è uno schifo di Léo Malet. Roba che dici: cazzo! In quarta di copertina dicono che questo è il primo romanzo di Léo Malet pubblicato in Italia, ma d’Halluin lo aveva pubblicato quarantaquattro anni prima, se non c’era Luigi a mettermelo tra le mani in italiano, mi toccava imparare il francese.
Vabbè, poi l’ho fatto. Di imparare il francese, intendo. Ma sto digredendo. Mi fermo.
(continua)
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.