Passeggiata

Margherita Govi | Intervallo |

Giugno inoltrato. Le fronde creano giochi di luce sull’asfalto rovente. Costeggio la linea retta dei binari fino alla stazione di Asniere e torno indietro ripercorrendo lo stesso tratto. Ho comprato delle cuffie anacronistiche, anni Novanta, con gli auricolari bombati e la fascia larga sopra la testa. Il cavo è lunghissimo e si arrotola lungo tutto il corpo prima di convergere nel jack che inserisco nel telefono. Mi obbligo a fare una passeggiata al giorno. Fa bene ai muscoli che sono tesi dal lavoro. Sulla nuca ho un grosso cerotto termoriscaldatore che sfoggio con arroganza. Il torcicollo non è l’unico sintomo. Sulla pancia da qualche settimana sono spuntate delle macchie rosse. Da quando Carla si vanta di venire a lavoro col tampone positivo, richiedere giorni di malattia è diventato impossibile. Burn-out è una parola che non rende bene l’idea di ciò che sta accadendo negli ultimi mesi. Forse la più adatta sarebbe “canicule”. L’afa è arrivata a Parigi e dalla maggior parte delle conversazioni sono spariti verbi e aggettivi. Si parla della canicule solamente nominandola, variando l’intonazione della parola a seconda del senso che le si vuole dare. Lo trovo funzionale e mi unisco all’abuso del termine ogni volta che posso. Al museo hanno tirato fuori le divise estive ma siamo comunque in un bagno di sudore e sospetto che le mie macchie derivino dal contatto appiccicoso della stoffa con la pelle. Ho letto che in Italia hanno annunciato l’allarme siccità. Lo dico ad Alice che si innervosisce. Mi dice che non ha senso parlarne, che non possiamo farci niente. Io taccio e il silenzio si impregna di sensi di colpa. Il mio, per averle rovinato l’umore ed uno suo, più grande, che va a interrogare qualcosa di ignoto. Avevamo detto così anche alla festa di inaugurazione della casa, a febbraio, che era coincisa con lo scoppio della guerra e l’invasione della Russia in Ucraina. Imbellettati quanto imbarazzati coi cicchetti di tequila in mano, non sapevamo come formulare un pensiero che fosse autentico. «Ho pianto guardando i video dei bombardamenti» dice Claudio con un diadema in testa. Alla fine beviamo troppo e la festa è un successo. Al museo nei mesi seguenti i visitatori iniziano a domandarmi se sono Ucraina, alludendo alla migrazione di tantissime persone che stanno cercando rifugio in Francia. Quando rispondo che sono italiana rimangono stupiti e sollevati. «Ahhh pizza amore bellissima» esclamano mentre gli strappo i biglietti. Eve è assente da due settimane e per riempire le sue ore di lavoro ci stanno triplicando i turni. Ha giocato di anticipo e si è fatta certificare un burn-out. Lo psicologo del sindacato ha ritenuto che la sua salute mentale fosse danneggiata a causa del lavoro. Questo significa che noi altre non possiamo permetterci di fare lo stesso perché significherebbe mandare ancora più in merda le altre colleghe. I rapporti fra di noi somigliano a uno stallo alla messicana. Il lavoro di squadra si muove su binari passivo aggressivi in cui lamentarsi è vietato perché potrebbe degenerare in un tempo breve e inaspettato. Allo stesso tempo sorridere sta diventando faticosissimo. Le guance mi si contraggono in punti sconnessi della faccia, fra le gocce di sudore. Già dopo la prima settimana l’assenza di Eve è diventata una questione di indagine e pettegolezzo. Alcune ragazze sono passate da casa sua e riportano che piange tutto il giorno, altre alludono al fatto che è tutta una messa in scena per non lavorare. Io, come spesso accade, mi detesto. Non le ho augurato una buona guarigione e accetto con grande passività le ore di turno che aumentano sulla mia tabella orari. Intanto la canicola mi entra sotto la maglietta e le macchie iniziano a fare una crosta ruvida sui bordi. Il telegiornale parla di vaiolo delle scimmie e l’idea di averlo contratto mi crea più imbarazzo che paura di morire. L’imbarazzo si concretizza quando la guardia medica mi caccia dall’ambulatorio prescrivendomi un semplice sapone. Io mi lavo nella doccia di Remi, che poi entra con me e mi chiede se non mi dà fastidio che lui abbia la ragazza. Dico di no, come per l’assenza di Eve, non mi dà fastidio niente. Intanto le macchie si moltiplicano, risalgono sull’addome e mi sbucano dallo scollo, fuori dalla maglietta. Negli schermi continuano le esplosioni.

«All my niggas are with me now» mi conforta Tupac dalle cuffie. Ogni volta che finisco la passeggiata vado al bar della stazione e prendo un milkshake alla fragola grande quanto la mia testa. Della stazione di Asniere, praticamente già parte della campagna, si può vedere sia I’inizio che la fine. Il tutto è un ammasso di case a cui un giorno qualcuno ha dato un nome. Attraversare il piazzale della stazione equivale a varcare la quinta di un palcoscenico. Ogni azione è amplificata da un’eco inesistente e i pochi paesani si scrutano vicendevolmente in attesa di novità che non arrivano mai. Asniere è un luogo talmente dimenticato da Dio che un giorno Dio stesso ci farà un miracolo per lenire i suoi sensi di colpa.

Penso che l’ultima volta che mi è importato di qualcosa è stata troppo dolorosa. Arriva la cameriera col vassoio e mi sorride asciugandosi la fronte. So cosa sta per accadere.

«Ah, la canicule!»

È il mio turno.

«Ah, la canicule!»

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(Quasi)