[La prima parte è QUI]
Orfano di entrambi i genitori nel giro di pochi mesi, operaio, impiegato, strillone, anarchico vicino alle posizioni di Andrè Colomer, vagabondo, giornalista e pamphlettista, chansonnier, poeta surrealista e romanziere, poi reazioanrio, islamofobo e sostenitore del Front National, la vita di Léo Malet meriterebbe un lungo saggio che scriverei volentieri. Ma per una sorta di impegno intellettuale (sai, tipo di quelli che prendi una piantina e ti impegni a bagnarla tutti i giorni per mettere alla prova la tua forza di volontà) che nel capitolo scorso ho stretto con te (mia stimata lettrice e mio stimato lettore), non mi concedo digressioni. Mi costa fatica, però mi permette di andare dritto al punto.
E il punto è questo.
Esattamente ottanta anni fa, nel novembre del 1943, dopo aver firmato svariati romanzi polizieschi con pseudonimi americani, Malet decide di usare il suo vero nome per la pubblicazione di 120, rue de la Gare, la prima avventura di Nestor Burma. Aveva cominciato a scrivere perché, come racconta Luigi Bernardi in Léo Malet e la grammatica del noir, l’imprescindibile prefazione all’edizione Fazi della Trilogia Nera del 2003 (colpevolmente non inclusa dall’editore nella riedizione del 2022), dato che l’occupante nazista aveva vietato di pubblicare materiale anglosassone, «si concretizzò per chiunque avesse un paio di buone idee (anche di seconda o terza mano) e sapesse scrivere almeno decentemente la possibilità di accedere alla pubblicazione, sia pure con uno pseudonimo di secco sapore americano». I suoi romanzi in stile hard-boiled ebbero un buon successo, in modo da fargli decidere, appunto, di fare il salto e pubblicare con il proprio nome.
Per dirla tutta, Malet la prima avventura di Nestor Burma voleva intitolarla L’homme qui mourut au stalag, che sarebbe stato, per quanto brutto, più appropriato, ma l’ufficio legale del suo editore sconsigliò quel titolo perché avrebbe potuto causare problemi con l’occupante (gli scarafaggi nazisti saranno cacciati da Parigi nell’agosto del 1944). Jacques Catineau, il patron della S.E.P.E., la casa editrice di Malet, impose allora come titolo quello con cui ancora lo leggiamo e con cui Jacques Tardi nel 1988 ha realizzato un indimenticabile capolavoro. Meno male che alle volte, non tante quante sarebbe necessario, la volontà degli autori viene messa da parte.
Se escludi Gallimard che ha fregato Georges Simenon e il suo Maigret a Fayard (l’hai notato che squalo? Dove c’è odore di copie vendute Gallimard arriva e fa bottino) nei primi anni Quaranta non c’è nessun altro a parte la S.E.P.E. che pubblichi polizieschi (d’Halluin arriverà nel 1946 e Fleuve Noir con il Sanantonio di Fredric Dard nel 1949). Catineau è un ottimo editore e sa fare benissimo il suo mestiere, dopo la Liberazione si inventerà persino un premio letterario in collaborazione con il Ministero dell’Interno, il Prix de Quai des Orfevres, per promuovere i libri dei suoi autori. È convinto che «notre Burma deviendra un grand personnage». Effettivamente sarà così, Burma arriverà a rivaleggiare in fatto di copie vendute, con il commissario Maigret. Con Catineau, Malet pubblica tra il 1943 e il 1949, i primi sette romanzi del suo detective privato. All’inizio degli anni Cinquanta però, a causa di una gestione finanziaria avventata – se Catineau è un bravo editore non è un buon amministratore – la S.E.P.E. finisce sull’orlo del fallimento. Cosa che mette in serie difficoltà economiche Malet. Per mantenere la famiglia lavora come responsabile degli imballi per Hachette; finché un giorno, passeggiando lungo la Senna con il figlio dodicenne gli viene l’idea geniale: una serie di inchieste di Nestor Burma ambientate ognuna in un arrondissement parigino, in ordine crescente: Les nouveaux mystères de Paris. L’editore Laffont approva il progetto e così Burma salva il futuro economico della famiglia Malet.
Ma c’era stato un momento in cui Léo non lo sopportava più Nestor. Un periodo che risale al 1948, dopo i primi cinque romanzi. «Mi era venuta voglia – racconta nella sua autobiografia, La vache enragée – di esprimere certe cose che sentivo da tempo e i romanzi polizieschi con Nestor Burma non si prestavano a questa necessità.» Boris Vian aveva fatto uno sconquasso con il suo Sputerò sulle vostre tombe, e Malet si chiede perché non fare qualcosa di simile? Una storia senza sbirri, il cui protagonista, il giovane Jean Fraiger è un anarco-comunista che fa parte di un gruppo insurrezionalista che attraverso furti e rapine intende finanziare un progetto rivoluzionario. Il finale sarà tragico e quando l’ho letto la prima volta, nell’edizione Metrolibri, mi ha ricordato un sacco la storia della Banda Bonnot.
(Tutto si tiene. Léo Malet decide di scrivere La Vita è uno schifo ispirato da Sputerò sulle vostre tombe di Vian. Nel 1954 Vian scriverà, sulle musiche di Louis Bessières i testi per le canzoni della commedia musicale di Henry-François Rey dedicata a Jules Bonnot con un occhio di riguardo al romanzo di Malet. E per mostrarti quanto tutto davvero, alla fine, si tenga: Pino Cacucci, membro del Gruppo 13 che dirigerà la seconda vita di “Nova Express”, scriverà un libro – In ogni caso nessun rimorso – proprio su Jules Bonnot. La prosa e la visione del mondo salgariane di Cacucci a mio avviso sono poco digeribili (mai capito come potesse piacere a Bernardi, se non pensando che gliene fottesse ormai un cazzo di Granata, al punto da affidargli la direzione di una rivista così fondamentale – che sotto la direzione cacucciana si chiude in un bolognesismo ombelicale senza sbocchi) per cui ti consiglio di trascurare il suo romanzo e di recuperarti su qualche bancarella o su ebay: La banda Bonnot, di Bernard Thomas tradotto da Bepress nel 2011.)
Insomma: per prendersi respiro da Burma, Malet scrive, in una manciata di giorni, questa storia anarchica e spietata, il cui titolo La vita è uno schifo secondo il parere dei distributori allontanerebbe librai e lettori. Quindi chi gliela pubblica? Catineau, che è legato agli ambienti della polizia, non può per ovvi motivi; Duhamel adduce la scusa che i lettori della Serie Noire vogliono solo autori anglosassoni tradotti; Fleuve Noire verrà fondata tra un anno. L’unico che se sbatte, che ha già un processo in corso per il romanzo di Vian/Sullivan e che sa come farci i soldi con queste cose, è d’Halluin. Così La vita è uno schifo esce nel 1948 per i tipi della Scorpion.
«Ho divorato La vita è uno schifo. Credo che lei abbia tutte le carte in regola per diventare un grande autore». Così René Magritte scrive a Malet dopo aver letto il suo romanzo. La tragica parabola di Jean Fraiger non affascina solo Magritte: il successo di pubblico è notevole, tanto che l’editore chiede a Malet un altro romanzo sullo stesso genere. Così l’anno dopo esce Le soleil n’est pas pour nous (Il sole non è per noi), titolo che si ispira a una poesia di Jacques Prevert del 1933: «le soleil du bon dieu ne brill’ pas de notre coté/ il a bien trop à faire dans les riches quartier».
(Lo so che ti ricorda La città vecchia di De Andrè: «Nei quartieri dove il sole del buon Dio
non da i suoi raggi/ ha già troppi impegni per scaldar la gente di altri paraggi», ma sappilo tutto il testo di quella canzone deandreiana è un plagio della poesia di Prevert. Ben prima delle AI, le intelligenze umane plagiavano il lavoro altrui, registrandolo a proprio nome in database burocratico-ministeriali come la Società Italiana degli Editori e degli Autori.)
A questo punto devo fare un piccolo inciso. Lo so ne ho già fatti almeno due senza dichiararli prima, ma quelli- indicati dalle parentesi-potevi anche saltarli. Questo invece è una spiegazione quasi necessaria per poter andare avanti con il racconto. Ci sono, nel catalogo delle Editions du Scorpion un bel numero di titoli annunciati e mai pubblicati. Ce n’è uno pero, che è dato proprio per pubblicato nel ‘ 49 ma di cui non esiste traccia fisica: Sueur aux tripes, il terzo Lèo Malet extra Nestor Burma.
Non ci è dato sapere perché d’Halluin non lo stampò. La prima crisi finanziaria della Scorpion comincia nel 1951, siamo ancora lontani. Boh. Saranno stati cazzi tra loro due, editore e autore.
Quello che sappiamo è che, quando Malet lo propone all’amico Duhamel per la Serie Noire, riceve l’ennesimo rifiuto: «Mi metti in una situazione delicata, Léo. Conosco le tue difficoltà, ma i redattori a cui l’ho dato da leggere dicono che non è adatto ai lettori della nostra collana.»
Resterà nel cassetto di Léo per vent’anni.
Eric Rhomer si chiama così perché il nome se lo è scelto. Maurice Schérer decide che il nome con cui passerà alla storia deve dire delle sue due grandi passioni, il cinema, e allora Eric preso da Von Stroheim e i romanzi gialli, e allora Rhomer da Sax Rhomer.
Tra il 1962 e il 1972, insieme a Michel Caan, Alain le Bris e Jean Boullet anima una rivista bellissima, dedicata al cinema horror e a quello fantastico: “Midi Minuit Fantastique”. L’editore è, te l’ho detto che tutto si tiene, Eric Losfeld con la sua Terrain Vague.
Rhomer, appassionato di polar, non tollera di non essere mai riuscito a leggere il terzo volume maletiano che Scorpion dichiara di avere pubblicato. Non lo trova da nessuna parte, gira tutte le bancarelle dei bouquinisti della Rive gauche ma trova sempre e solo i due che già possiede a ha letto. Sueur aux tripes sembra non esistere, forse proprio perché non è mai esistito in forma libro. Allora si decide, scrive a Malet chiedendogli come può fare per leggere Nodo alle budella, e Malet gli risponde di passare da lui, che gli tira furori dal cassetto il manoscritto e glielo fa leggere.
homer lo legge poi lo passa a Losfeld: beh, d’Halluin era amico tuo, ci hai lavorato insieme e avete millantato di aver pubblicato questo romanzo, ora devi riparare e pubblicarlo tu! Detto fatto. Nel 1969 Losfeld pubblica uno splendido volume dal titolo Trilogie Noire, che raccoglie La vita è uno schifo, Il sole non è per noi e l’inedito Nodo alle budella. La copertina la disegna Renè Magritte.
Non so da quando tempo Luigi Bernardi abbia tra le mani questo volume, quando nel 1992 decide di pubblicare per collana Criminalia Tantum di Metrolibri La vita è uno schifo. Ma so che allora, a oltre quarant’anni dalla sua prima uscita, come oggi, che di anni ne sono passati settantacinque, quel libro è ancora, un punto di svolta per la letteratura di genere italiana, in un mercato che pullula di romanzetti pieni di sbirri – da Montalbano a Schiavone – irrealmente buoni e simpatici. Non esistono sbirri buoni.
(continua)
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.