Post-it: Dopo Lucca

Paolo Interdonato | post-it |

Alla fine della kermesse lucchese più sciagurata di sempre, la vita ha ripreso il suo ritmo normale, donandomi alcune gioie puntuali.

Lunedì: Nella mia timeline è tornata in auge una vecchia recensione di una cazzatella di Bastien Vivès, Svuoto mentale. Si tratta di un post elogiativo scritto, in un momento in cui era ancora fresca la memoria della cancellazione della mostra ad Angoulême, da un tipo che scrive male di fumetti sul suo profilo e su un sito di critica. Il fatto che al recensore sia piaciuto è, per me, irrilevante (credo che quella robaccia sia piaciuta anche a Boris e lui, per dire, continua a essere il fratello che mi sono scelto). La cosa che trovo sconcertante è il sistema di giudizio liofilizzato messo in scena da questo tipo.
Quel post è tornato a galla nel fiume del tempo della timeline perché lo ha commentato una delle persone che mi sono più care al mondo: a lei quel fumetto ha fatto schifo, ma neanche questo è così rilevante. Commentando quella recensione, questa persona (ti piace questa incredibile propensione all’anonimato per tutelare le parti coinvolte che, all’improvviso e senza giustificazione, mi ha colto? Io la trovo odiosa) ha rimarcato gli elementi di tossicità contenuti in quelle analisi insipide. Stavo per risponderle («Vieni via, che ti resta addosso l’odore!»), ma sono stato lentissimo. Il recensore ha postato una risposta, apparentemente educatissima, in cui ha sbrodolato per un paio di cartelle sul topos manga cui fa riferimento il fumetto di Vivès. Apparentemente mansplaining, nei fatti la solita iniezione di verbosità didascalica che la maggior parte di chi scrive di fumetti mette in scena ogni volta che viene assalito da un attacco di panico da pagina bianca.
Quella che doveva essere fonte di amarezza, con un plot twist straordinario, si è tradotta nel mio moto di orgoglio mattutino: la meravigliosa cricca di personcine che scrive su questa pagina, su questa rivista che non legge nessunə, fa critica.

Martedì: In una Feltrinelli milanese, doveva esserci la presentazione del nuovo numero di “Sotto il Vulcano”. Questa uscita della rivista a tema è diretta da Tito Faraci e ha come titolo “I fumetti ci salveranno”. Tito, bontà sua, ha deciso di invitare anche Boris e me a collaborare alla pubblicazione e ci ha chiesto una chiacchierata in stile “Facoltà di cazzeggio”: abbiamo aderito con gioia, ché il cazzeggio ci rallegra.
Alla fine, per un imprevisto, la presentazione non si è più fatta. Stufo di aspettare la mia copia, mentre quello sborone di Boris fotografava la sua su Instagram da giorni, mi sono infilato in una libreria e me la sono comprata.
Non solo il nostro pezzo c’è (s’intitola “Meglio la distruzione”), ma c’è una cosa che mi produce un friccico nel cuore.
La rivista si compone di articoli, illustrazioni e fumetti. Gli articoli sono tutti in apertura e chiusura della rivista e racchiudono, a panino, un cuore di narrazioni. La parte centrale della rivista inizia con l’editoriale di Tito e poi partono le storie a fumetti. A interrompere quella sequenza di pagine disegnate, con una grafica diversa da quella degli altri articoli, ci sono un’intervista a Zerocalcare e la nostra “Facoltà di cazzeggio”.
So che la critica è un genere narrativo. Stare lì, in mezzo alle storie, mi fa molto piacere.

Mercoledì: Da qualche tempo escono documentari che stanno al cinema per qualche giorno e poi si infilano in altri circuiti. Di recente è successo con Enzo Jannacci: vengo anch’io. Questa settimana è stata la volta di Io, noi e Gaber, presente in 261 sale in tutta Italia solo per tre giorni. Oggi era l’ultimo giorno e ci sono andato. È un bel prodotto: divertente, ritmato e furbetto. A raccontare Giorgio Gaber, oltre a quelli che ti aspetteresti, ci sono dei figuri inattesi e incomprensibili: quelli che mi hanno scatenato i dubbi maggiori sono Fazio, Jovanotti e Bersani. Mi sono anche divertito, eh. Ma tutto quel finale – lungo, quasi estenuante – su La mia generazione ha perso, durante il quale tutti gli intervistati si sono sentiti in dovere di autoassolversi e giustificare il proprio operato, mi ha messo addosso una gran voglia di vaffanculo. E non mi dispiace.

Giovedì: Nell’espositore sempre più spoglio che la mia edicola riserva ai fumetti, compare il numero speciale di “Blue” dedicato alla memoria di Francesco Coniglio. Lo prendo e, dopo una rapida scorsa ai nomi in copertina, lo porgo all’edicolante. Gli chiedo anche il “Corriere della Sera”. Con navigata esperienza scova il prezzo sulla copertina della rivista e calcola l’importo totale. Porgo la banconota (ché i pagamenti elettronici, in quel tempio di obsolescenza e vecchiezza chiamato edicola, sono sempre complessi) e recupero il resto. Quando allungo la mano per prendere giornale e rivista, assisto a un atto di commovente bellezza. L’edicolante guarda un’altra volta la copertina di “Blue” e, con gesto complice, nasconde la prova della mia indecenza all’interno del rispettabile quotidiano.
Ottime tradizione che mi donano speranza nel futuro dell’umanità.

Venerdì: «Corriere… c’è un pacco per Interdonato!» Scendo le scale di corsa, ringrazio e ritiro il pacco. Lo apro mentre risalgo e mi godo il peso dello speciale che “Métal Hurlat” ha dedicato a “Ah! Nana”, la prima rivista femminile e femminista di fumetti nel mondo. Procuratelo e, se vuoi saperne di più, prendi anche il numero di QUASI che contiene la recensione di La main verte di Édith Zha e Nicole Claveloux (che è uscito a puntate su “Métal”, per amor del vero, ma che racconta benissimo quel momento) e la lunga intervista a Anne-Marie Simond.

Sabato: Ho un grandissimo rispetto per Massimo Galletti. In un microcosmo di cattiva scrittura e pensiero liofilizzato, Massimo si ritaglia, da sempre, un posto tutto suo: è un critico militante. La militanza richiede, lo sai, una posizione assoluta, distaccata, libera da tutto il resto. Devi avere un metodo, una visione del mondo e una cassetta degli attrezzi. E devi essere in grado di ricondurre tutto al tuo sistema che, necessariamente, è cangiante e molteplice.
Massimo è un poeta. L’unico poeta che la critica del fumetto abbia mai espresso in Italia (e, per quanto ne so, nel mondo). Usa metrica, ritmo e metafora come strumenti di analisi delle opere che ama. Rifugge la chiarezza. Editare una sua recensione è un’espressione barbarica: chi lo fa rischia di rompere gli equilibri interni del suo testo.
In giro, alcuni poveri di spirito reputano la critica uno strumento al servizio del mercato. La critica non serve a vendere i prodotti culturali. La critica non serve a farsi amici o nemici.
Qualche mese fa, sorridendo come un bambino, Massimo mi ha dato una notizia: di lì a qualche giorno sarebbe andato in pensione. Non ho alcun racconto preciso del suo lavoro. Si definiva operaio e diceva di operare in un mulino. L’ho sempre immaginato mugnaio, intento a fare attività che richiedevano una certa fisicità, tra sacchi di grano e farina. Mi è parso felice per la notizia e sono stato contento per lui.
Mi sono illuso che la distesa di tempo libero che gli si stava per allargare di fronte mi avrebbe regalato un’infinità di critica poetica. Pregustavo gli istanti di gioia o, come avrebbe detto Gaber, i piccoli spostamenti del cuore.
Che delusione quando si è trasformato in un umarell. Invece di guardare i cantieri, rimediando con consigli precisi all’imperizia di operai approssimativi e inadeguati, ha iniziato ad aprire le cartellette in cui, negli anni, ha infilato qualsiasi cazzata a tema fumetto avesse trovato sui giornali. Da mesi, giorno dopo giorno, fotografa questi ritagli quasi sempre insensati e li propone ai suoi contatti Facebook.
Massimo, rinsavisci! Butta quel pattume e raccontami il tuo mondo sghembo attraverso le tue letture. Mi manca la tua poesia.

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