Spari d’inchiostro, troll, storie meravigliose e tanto amore

Paolo Interdonato | post-it |

– Ti manca “Spari d’inchiostro”, eh?
– Scusa… cosa intendi?
– Ti ricordi a cosa doveva servire la rubrica “Post-it”, vero?
– Certo. Segnalazioni, microrecensioni, indicazioni, suggerimenti…
– Eh…
– Eh, cosa?
– No, niente.
– Proprio quello che sto facendo. Solo che, oltre a indicare cosa leggere, guardare, ascoltare, giocare e mangiare, do indicazioni di tipo diverso. Forse anche perché mi piace raccontare.
– Che ti piace il suono della tua voce si sente.
– Non è quello che ho detto io.
– È quello che dico io. Così come dico che ti manca “Spari d’inchiostro”, il tuo blog.
– Perché lo dici?
– Beh… hai trasformato i post-it in un esercizio di scrittura quotidiana. Se questo fosse un sito e non una rivista, li avremmo spacchettati in un sacco di contenuti diversi, con i titoli giusti, quelli che piacciono ai motori di ricerca, e avremmo un sacco di clic.
– Vero. E avremmo anche le gallerie!
– Sì!
– E il contatore degli accessi salirebbe!
– Certo!
– E avremmo un sacco di follower sui canali social!
– Non sarebbe male, eh!
– E le inserzioni pubblicitarie!
– Hm…
– E i dieci momenti più importanti della vita di Tex Willer…
– Ah…
– …i dieci albi più importanti del Punitore…
– Erhh…
– …le dieci volte che Ratman ha fatto la battuta della saponetta nella doccia!
– Eddai.
– E le marchette agli editori!
– Piantala!
– Per fortuna che questa è una rivista.
– Già… per fortuna.
– Dicevi?
– Vaffanculo.

Domenica: Non sono un amante del cinema colto e autoriale. Anzi, peggio. Quei film li evito proprio. Sono caduto nel pentolone della paccottiglia cinematografica da bambino, quando il nonno messinese, cui venivo appioppato per il trimestre estivo durante il quale le scuole erano chiuse, mi sganciava al suo amico che aveva una sala cinematografica accanto al bar in cui lui giocava a carte per tutto il pomeriggio. Non pensare a un posto tipo Nuovo Cinema Paradiso, in cui uno sguardo bambino potesse essere irradiato da bellezza luminosa e cambiato per sempre. Il cinema dell’amico di mio nonno era una sala di periferia degli anni Settanta dello scorso secolo: due film al giorno noleggiati a carriole, in un periodo precedente la nascita delle televisioni private e commerciali. Le pellicole, vecchie e consunte, venivano rabberciate malamente perché avessero una durata standard e svuotassero la sala pomeridiana dopo due ore e mezza esatte. Due film a caso, di qualsiasi genere e senza alcuna attenzione verso l’età degli avventori. Quasi tutta cinematografia minore, in tempi in cui – prima di Enrico Ghezzi e Quentin Tarantino – la si considerava pattume. Era pericoloso essere un bimbo solo in mezzo alla sala poco affollata? Non lo so. Sono stato fortunato e non mi è successo nulla che mi facesse sentire in pericolo.
So che non lascerei mai mia figlia Carlotta da sola in sala.
La seienne mi ha trascinato a vedere Trolls 3, un film che parla di boy band, reunion, potere salvifico della famiglia, tolleranza delle imperfezioni, amore e buoni sentimenti. Ci sono canzoni pop divertenti e, qua e là, fa ridere e commuove.
Il film precedente del ciclo, Trolls World Tour, mi era piaciuto molto e ci sono andato più che volentieri.
Questo non è niente di che. Ma avere accanto una bambina che, al buio, si spaventa, ride, si commuove e sgranocchia un pacco enorme di popcorn è impagabile.
Alla prossima battaglia, lo rifaccio.

Lunedì: Pare proprio che Drawn & Quarterly stia preparando un’edizione in dieci volumi di Kamuiden di Sanpei Shirato. Finora quel fumetto, che è uno dei miei grandi amori, lo abbiamo potuto leggere, a spizzichi e mozzichi, su “Mangazine”, edito da Granata Press da qualche parte all’inizio degli anni Novanta, e, in francese, in un’edizione credo difficile da reperire, edita da Kana, in quattro volumi pesantissimi.
Sta per arrivare questa edizione in inglese e, se non riesci a leggere in quella lingua, conviene che ti attrezzi per tempo, perché ne vale davvero la pena. A questo punto, in mezzo alla montagna di recuperi di manga storici di pregio, sarebbe proprio opportuno che un editore italico di cuore si movesse per sanare questa dolorosa ferita che mi brucia nelle carni da lettore.
(Oh… editore di buon cuore, se quei volumi andassero benino, poi c’è un sacco di altra roba di Shirato da recuperare; di quell’autore in italiano sono usciti, ormai troppo tempo fa, solo Kagemaruden e Akame: The Red Eyes per Hazard. Tutta roba che viene prima di Kamui)

Martedì: Quando ricordo cose successe alla fine degli anni Ottanta dello scorso secolo (e millennio), mi sento un po’ nonno Paolo. Per esempio, in quel periodo – in cui, dannazione!, avevo già conseguito la maggior età – compravo “Fumo di China” nelle librerie specializzate in fumetto. Aveva un formato dicersissimo da quello attuale. Lo definirei “libretto”, a metà – se non ricordo male – tra quello di “Topolino” e quello di “Tex”, ed era edita da Alessandro, una libreria bolognese che avevo visto un paio di volte, mi pareva bellissima e stava trasformandosi in distributore per la nascente catena delle fumetterie. Quando riuscivo a procurarmi uno di quei volumetti brossurati, trascorrevo parecchio tempo a compulsarlo. Mica ce l’avevamo Google ai tempi di nonno Paolo! Si doveva gioire quando si scovavano informazioni inattese.
Ricordo, in particolare, la presenza degli articoli e delle interviste di Marco M. Lupoi e Luca Scatasta. Mi rendevano evidente che nel fumetto statunitense stava succedendo qualcosa di incredibile. Non ho quegli albi a portata di mano e non ricordo con certezza di quali autori abbia letto su quelle pagine. Credo Frank Miller, Alan Moore, Bill Sienkiewicz, Grant Morrison, … Sono convinto di aver saputo così che un autore che si chiamava Howard Chaykin stava realizzando un fumetto porno per una piccola casa editrice chiamata Vortex, pubblicato in dieci comic book e intitolato “Black Kiss”. Mi sono messo alla ricerca di quella magica chimera (ai tempi di nonno Paolo, dannazione!, non c’erano Amazon Vinted o eBay) e, una volta, quasi per caso, in un negozio milanese che ora non esiste più, ne ho trovati un paio di numeri.
Cazzo! Come faccio a dirti lo shock? Un albo diverso da tutti i comic book che avevo sfogliato fino a quel momento (e, fidati, erano stati già un bel po’): stampato benissimo, su una carta che mi sembrava la migliore del mondo, con solo dieci pagine di fumetto, disegnate in modo straordinario; pagine che ti avvolgevano di azione, rumore, suoni, malvagità e sesso realmente torbido. In “Black Kiss” il crimine era veramente malvagio, la corruzione ti terrorizzava e, cazzo!, tutti scopavano come animali con una gioia e uno stupore lontanissimi dai cliché della pornografia e senza lesinare dettagli.
Da quel momento, Chaykin è diventato uno dei miei autori preferiti. Ho guardato le sue pagine con devozione, anche quando le storie che raccontava erano così confuse da perdermi per strada. Ed è successo, eh. Perché a Chaykin che tu capisca proprio tutto non frega niente. Ti rispetta e vuole raccontare a fumetti. Costruisce pagine in cui perdersi, mica enigmistica da risolvere nell’unico modo giusto. Mi sono reso conto, leggendolo, che il fumetto è spesso obnubilato dai miti che lo trasformano in una lettura per gli scemi: la linearità delle vicende; l’esigenza che il lettore, alla fine, abbia tutto chiaro; la totale certezza che tutti, dopo la conclusione del racconto,  vivranno felici e contenti, fino al prossimo episodio (e mica solo nel fumetto seriale). Chaykin è un concentrato di intelligenza, eleganza, rispetto per il lettore e sublime costruzione della pagina: un principe, insomma.
Sono grato a Saldapress per aver riportato, con determinazione e continuità, nello spettro delle letture possibili in Italia i lavori di Chaykin.
Mi pare che il periodo migliore dell’autore si sviluppi attorno ai tre fumetti realizzati negli anni durante i quali alcol e droga scorrevano abbondanti nella sua vita: American Flagg (recentemente riproposto in sette volumi da Cosmo), Black Kiss (uscito per Saldapress in un’edizione bellissima) e Time2. Quest’ultimo, finora incompiuto, è stato pubblicato in Italia dall’editore Comic Art, prima in rivista e poi in volume, con una traduzione così approssimativa da rendere incomprensibile anche ciò che era semplicemente ermetico. Leggo oggi, nella mia timeline Facebook che Chaykin che ha finalmente concluso quella storia e che a febbraio del prossimo anno uscirà per Image un volume che raccoglie l’intero fumetto.
Belle le edizioni Image, eh. Ma la qualità della stampa, della legatura, dei materiali e della cura editoriale di Saldapress mi suggeriscono di attendere l’edizione italiana.
Se poi vuoi leggere due belle interviste a Chaykin: una è QUI e l’altra è su questo numero cartaceo della nostra rivista che non legge nessunə.

Mercoledì: E siccome mi è evidente che devo a Meta e alle mie timeline Facebook e Instagram la consapevolezza di quello che sta succedendo nel mondo dell’editoria, godo scoprendo che la statunitense Fantagraphics, nel corso del prossimo anno, indicativamente alla fine di giugno, pubblicherà un fumetto olandese di cui non so nulla ma che mi ha conquistato con la sola copertina. Traduco le note editoriali dal sito dell’editore:

«Disponibile per la prima volta in inglese, il primo graphic novel olandese è un tour de force in tutto il suo splendore tra psichedelia, pop art ed erotismo giocoso degli anni Sessanta.
Le emozioni dei personaggi guidano la narrazione anticapitalista e distopica di Iris: A Novel for Viewers, antesignana del graphic novel prodotta nei Paesi Bassi. Una giovane donna, Iris, è decisa a intraprendere la carriera di cantante e, nonostante gli avvertimenti del fidanzato Mark, si lascia sedurre dal produttore capitalista, “l’amante dei sogni M.G.”. Egli la trasforma in una megastar che lascia Mark a vendere la sua merce: una (sex) doll Iris a grandezza naturale. I tentativi di salvare Iris non portano a nulla; tutto ciò che ottiene è permettere all’amante dei sogni di continuare a fare i suoi giochi.
Iris segna l’apice della carriera nel fumetto di Thé Tjong-Khing. Lui e lo sceneggiatore Lo Hartog van Banda volevano raggiungere i giovani socialmente motivati della fine degli anni Sessanta, che stavano crescendo con i fumetti e la televisione. Lo stile di Khing, disegnato con uno slancio virtuoso, mostra un’affinità con i suoi contemporanei, come Guy Peellaert, e la stessa Iris ricorda Barbarella. Questa edizione include una postfazione del grafico e colorista Rudy Vrooman, che fornisce un contesto affascinante sul significato storico e artistico dell’opera e sul suo processo di restauro.»

Dopo essermi perso in quella copertina ho cercato pagine del fumetto in rete. Ne ho trovata una – bellissima – sul sito di Lambiek. Dalla pagina dedicata all’autore copio le righe dedicate a Iris:

« Alla fine degli anni Sessanta, Thé Tjong-Khing aveva ripreso il suo rapporto di lavoro con Lo Hartog van Banda per l’album psichedelico a colori Iris (1968). Il libro fu pubblicato dalla casa editrice letteraria De Bezige Bij e si ispirava in gran parte ai fumetti innovativi di Guy Peellaert Les Aventures de Jodelle (1966) e Pravda: La Survireuse (1967). La storia è ambientata in una Amsterdam futuristica, dove il divertimento, il sesso occasionale e l’idolatria delle popstar controllano la vita quotidiana, il tutto orchestrato da un “Re dei sogni”. La cupa visione del futuro dello scrittore è tuttavia raccontata da un punto di vista filosofico e non politico e, grazie alle vignette pop art di Thé Tjong-Khing, il libro non diventa mai troppo cupo. La storia non è guidata dagli eventi, ma è incentrata sulle emozioni e sulle interpretazioni, raccontate dal punto di vista dei protagonisti Iris e Mark. Poiché il lettore segue la maggior parte degli eventi attraverso gli occhi della protagonista femminile, gli autori hanno scelto di chiamarla Iride. Con il suo sottofondo filosofico e onirico e la sua grafica sperimentale ed erotica, Iris è il primo graphic novel olandese. La produzione è stata un vero e proprio lavoro comune e la storia è stata costruita in modo organico. Thé a volte si discostava dalla visione iniziale di Banda, a quel punto lo scrittore doveva recuperare la forma del racconto. In pieno stile pop art, quasi tutti i personaggi erano basati su celebrità, in particolare Iris, che ha preso in prestito il suo aspetto iniziale dall’icona culturale britannica Twiggy.»

A me sembra una roba potentissima. Decidi tu cosa ne pensi.

Giovedì: Per altro, Thé Tjong-Khing, oltre quarant’anni dopo la realizzazione di Iris, ha disegnato Tortinfuga: Ma le torte dove vanno? È in picture book bellissimo, completamente privo di parole. Una storia avventurosa e complicatissima con decine di personaggi che agiscono in larghe immagini a doppia pagina. Ogni azione, anche quella apparentemente più marginale, produce effetti, a volte decisamente indiretti, sulla vita degli altri personaggi. La storia scorre, doppia pagina dopo doppia pagina. E se, durante la prima lettura, abbiamo inseguito la vicenda del furto della torta, che ci sembrava quella principale, ci siamo anche accorti che un evento che ci era parso marginale è in realtà fondamentale. Allora, ricominciando a sfogliare il libro per capire cosa abbia originato quell’evento, scopriamo una seconda storia altrettanto importante e un nuovo intervento esterno che ne ha modificato il corso. E siamo costretti a riavvolgere il nastro del tempo e a ricominciare la lettura per inseguire una nuova storia. Un numero di volte altissimo, perché le vicende sono tutte così intrecciate che la loro combinazione produce tantissime letture possibili.
Thé Tjong-Khing si rivela uno dei più grandi studiosi della forma e dei confini del picture book. Tortinfuga e i successivi volumi dedicati alle torte sono stati pubblicati in italiano da Beisler. Oggi mi pare siano introvabili ma non preoccuparti. Sono libri senza parole ed esistono in tantissime lingue diverse, compreso l’olandese dell’edizione originale.
Hai tempo fino a giugno per recuperarli tutti e goderne e arrivare, in questo modo, preparato alla lettura di Iris: A Novel for Viewers.

Venerdì: E così è iniziato dicembre. Come sai, ogni mese ha, su QUASI, un tema diverso. Questa volta lo ha proposto, senza esitazioni, Boris. «Facciamo “Te piace o’ presepe”!», ha detto.
Non so se lo conosci. Non Natale in casa Cupiello di Eduardo. Proprio Boris, dico. Il mio amico.
Nonostante mostri questa enorme sicurezza, nonostante si definisca anaffettivo e millanti un’assoluta incapacità di amare chicchessia, nonostante non perda occasione per dire qualcosa di esecrabile per farci incazzare, nonostante esibisca un dandismo fatto di camicie fuori dai pantaloni e maniche arrotolate, braccialetti, cappelli, penne stilografiche e bottiglie di champagne, nonostante lo sguardo sempre arcigno, ecco, nonostante tutto questo, Boris è un pasticcino. Una delle persone più affettuose, gentili, protettive e votate a risolvere i conflitti (poco dopo lo scontro) che io abbia mai incontrato.
Pensa che, benché sia l’amorevole testa di cazzo blasfema e insultante che hai imparato ad amare, quando siamo in compagnia, tutte le persone che incontriamo, diversissime tra di loro, sono d’accordo solo su due cose: il bene che vogliono a lui e quanto sono stronzo io. Ho imparato a convivere con questa misteriosa contraddizione e, dopo tutti questi anni, posso dire con certezza che non è lui che sopporta me, ma io che sopporto lui e la sua intollerabile bontà. Che cuoricino!
Ma ero qui per parlarti del tema del mese e non del tenero Boris, quel morbido e affettuoso batuffolo di carineria.
Boris è anche quello che ha letto, visto e ascoltato tutto e non fa niente per nasconderlo. Quando ha proposto “Te piace o’ presepe”, te lo dico senza paura di sputtanamenti definitivi, ho dovuto googlare. Perché era chiaro che fosse una citazione, ma io, che sono quello gretto e ignorante del duo, Natale in casa Cupiello mica l’avevo mai visto.
Ho detto di sì per togliermi dall’imbarazzo, perché avevo paura di essere interrogato. Però, l’idea di dedicare un mese al presepe mi fa molto piacere.
Devi sapere che, per pagare scarpe, formaggio, assegni di mantenimento e qualche fumetto, faccio il consulente. Mi occupo di tecnologie digitali da oltre sette lustri. Nello specifico mi occupo delle organizzazioni, dei processi e delle architetture che abilitano l’erogazione delle tecnologie digitali. Lo so, non è tanto chiaro quello che faccio. A volte non lo so bene neppure io. Pensa che, nei miei primi anni di lavoro, mio padre ha sentenziato: «Tu, ‘sti computer, non li vendi, non li ripari, non li installi, non li programmi… allora, è chiaro, li rubi!»
Essere additato come disonesto, molto presto nella mia vita lavorativa, ha inferto un colpo gravissimo alla percezione nobile che avevo del mio mestiere. Ho maturato quella che ho subito definito come “sindrome del presepe”.
Pensaci. Tutti i mestieri rispettabili sono rappresentati nel presepe. C’è il pescatore, il contadino, la sarta, la lavandaia, il pastore, il re mago, il fabbro, il calzolaio, la mercante, l’oste, la portatrice di brocca, e ancora gli artigiani, i genitori, i musicisti, i soldati, i mendicanti, gli artisti, i perdigiorno…
Ecco, facci caso: nel presepe sono rappresentate tutte le persone rispettabili. I consulenti, no.
Ho accettato il tema per avere giustizia. Per poter rispondere a quella domanda.
Te piace o’ presepe? NO!

Sabato: Prima di partire per Cremona, dove c’è il Piccolo Festival del Fumetto diretto da Massimo Galletti, riguardo gli articoli che QUASI, la rivista che non legge nessunə, ha pubblicato nel corso della settimana appena conclusa.
Una lettura del recupero di The Dark Side Of The Moon di Francesco Baro Barilli, una collezione di “Feticci” a tema scarpette fatta da Titti Demi e dedicata a chi i fumetti li sa guardare veramente, un trattato sul senso dell’arte a opera del bassista Lorenzo Ceccherini, la copertina del sessantanovesimo numero della web edition della nostra rivista, l’editoriale di Boris che dà la stura al mese dedicato a “Te piace o’ presepe?”, e il solito carosello di foto bellissime del “View master” di Alessandra Falca.
QUASI non è solo la rivista che non legge nessunə. Qui a QUASI, quel nessunə, noi proprio lo amiamo.
Riserviamo all’intelligenza del (non così) sparuto gruppo di persone che (non) leggono la nostra rivista il massimo rispetto.

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