disegno di Titti Demi
L’odore dell’incenso che ci brucia nelle narici è quasi afrodisiaco. Abbiamo indossato un completo nero e una camicia bianca e aspettiamo Roberto, lo stimato cugino, parroco di paese.
Quando ci siamo incontrati, qualche giorno fa, durante una di quelle occasioni familiari inevitabili, raccontava affranto come il Santo Natale fosse per lui uno dei momenti di maggior turbamento. Diceva del profondo senso di colpa che lo coglie in occasione delle feste per dio che si fa carne, del disgusto per la commercializzazione pagana del momento più sacro, del rammarico per la fatica di non maledire l’assenza di fede dei suoi parrocchiani. Il suo discorso ci ha colpiti e commossi: il trasporto dello spirito riverbera sempre nelle carni. Abbiamo sorriso e gli abbiamo detto del presepe vivente che frequentiamo.
Nostro cugino, il reverendo Roberto, si è molto stupito di non sapere nulla di quella rappresentazione sacra. Quando abbiamo raccontato con passione il realismo della rappresentazione, il buio della notte, l’inaccessibilità della grotta luminosa, l’impeto emotivo di tutti i partecipanti, ci ha chiesto di accompagnarlo.
Ora si sta facendo aspettare. Siamo su una sedia in canonica e respiriamo incenso, riempiendoci i polmoni, gonfiando il petto nell’abito. Abbiamo preso dalla pigna il libretto delle canzoni della messa e lo sfogliamo a caso:
«Amatevi, fratelli / come io ho amato voi / Avrete la mia gioia / che nessuno vi toglierà»
«Innalziamo lo sguardo / rinnoviamo l’attesa / ecco, viene il Signore / viene non tarderà»
«Camminiamo incontro al Signore / camminiamo con gioia / Egli viene, non tarderà / Egli viene, ci salverà»
«Cieli, irrorate la vostra rugiada / nubi, piovete la vostra salvezza»
Stiamo godendo della certezza che chi si colma di quelle parole non potrà che amare il nostro presepe vivente, quando nostro cugino si schiarisce la voce alle nostre spalle. Sussultiamo per la sorpresa e ci giriamo di scatto. È splendido: avvolto da un abito talare nero, lungo fino al suolo, sul quale spicca il colletto bianchissimo. L’abito sfiora a ogni passo il pavimento, nascondendo la concretezza volgare della deambulazione. Sembra una creatura angelica che si sposta levitando. È bellissimo.
Sorridiamo e lo invitiamo a seguirci fino all’auto.
È impaziente come un bambino. Continua a chiedere «Quando arriviamo?»
«Ci siamo quasi…», lo tranquillizziamo e imbocchiamo la stretta strada sterrata. Il rumore della terra e dei sassi sotto gli pneumatici dell’auto che incede ad andatura lenta e costante è quasi ipnotico. Entriamo nello spiazzo e ci infiliamo in uno dei pochi posti disponibili del parcheggio pieno. Nostro cugino guarda il luogo di culto con occhi spalancati. Non se lo aspettava così imponente: Una cattedrale nel deserto.
Tremante di eccitazione scende dall’auto. Quasi barcolla. Lo afferriamo per il braccio e lo accompagniamo verso l’ingresso. Continua a levitarci accanto, ma il suo volo è malfermo e meno sicuro. La nostra presa è salda e lo tiriamo come un palloncino di fronte alle persone che all’ingresso autorizzano l’accesso.
Ci riconoscono, gettano uno sguardo compiaciuto a nostro cugino e ci riservano un’accoglienza calorosa: spalancano le porte del Regno.
Entriamo. Il corridoio è luminosissimo. Lasciamo i cappotti a una persona che ci sorride dietro il banco. Nostro cugino farnetica qualcosa sul fatto che quella persona non sia vestita in modo dignitoso. Non lasciamo il suo braccio e lo trassciniamo con noi oltre le porte. Lo spazio in cui entriamo è buio e pieno di figure in movimento; ci avvolge una musica dal ritmo lento, in levare, come il battito del cuore quando, nella placenta si aspetta di nascere. Nostro cugino è spaventato. Sembra non capire. Quando un gruppo di persone, ancora indistinguibili, lo circonda trema.
Poi,
i loro corpi nudi,
le loro carezze,
lo rilassano.
Ci sediamo e guardiamo nostro cugino, il reverendo Roberto, attraversare, una dopo l’altra, le tappe dell’avvento. Aspettiamo la sua nascita. Verrà, non tarderà. Verrà, ci salverà.
Noi, Rosso Foxe.