Fondazione Babele: un sogno

Paolo Interdonato | post-it |

La persona che non avrei mai voluto deludere nella mia vita non è stata mia madre. È stata un’altra donna che, per vocazione professionale, provava un gusto antico a sentirmi parlare di mia madre: la mia analista.
Era una donna molto intelligente e non mi ha mai chiesto frontalmente di parlare delle mie origini segrete e dei miei traumi d’infanzia. Non ha mai detto la famigerata frase: «Mi parli di sua madre!»
Anche perché, durante una delle prime sedute, le avevo raccontato dell’immenso disprezzo che avevo provato per l’analista precedente che non aveva colto la citazione, quando le avevo risposto «Mia madre? Sa cosa le dico di mia madre?», e mimando una pistola con le dita, «bang bang».
Ecco… la mia analista non mi ha mai chiesto di parlare di mia madre e, benché cercasse di portarmi sul discorso con moti sinuosi e un po’ occulti, credo di aver raccontato il mio rapporto con i miei genitori solo marginalmente. Però, aveva questa passione un po’ morbosa per i miei sogni: finestre sul mio inconscio, a suo dire, capaci di raccontare un sacco di cose di me. Su quelli mostrava sempre un po’ di curiosità e io la deludevo sistematicamente: non me li ricordo quasi mai.
A volte, qualcuno mi rimane appiccicato addosso al mattino. Però, poi, quando cerco di verbalizzarlo, mi rendo conto che le parole hanno il sopravvento sulle immagini e l’emozione e il racconto diventa un’altra cosa. Ha proprio un altro sapore.

Stamattina mi sono svegliato annaspando. Mentre cercavo di liberarmi dalla sensazione difficile e dolorosa, mi sono reso conto che ricordavo il sogno. Proprio ora che dall’analista non ci vado più. Mi assale un timore entropico a sprecare questa occasione: permettimi di raccontartelo.

Ero a un’installazione di Massimo Giacon. Era vestito da imbanditore del circo, con frac a coda, maglia a righe orizzontali, bermuda, calzini fioriti, dr Martens e cappello a cilindro. Urlava e agitava le mani. A ogni movimento, si levavano giganteschi pupazzi gommosi che parevano proprio disegnati da lui. Tanti pupazzi, in cerchio. Assecondando i suoi gesti, un po’ convulsi e affrettati, i pupazzi improvvisavano titanici combattimenti, due a due.
Ero su una piattaforma circolare in cima a un palo che sorgeva in mezzo alla pista del circo e vedevo i pupazzi dall’alto. A un certo punto, mentre mi chiedevo come Massimo riuscisse a muoverli, mi sono accorto che sulla medesima piattaforma c’era un’altra persona che stava usando due tablet. Arguto e ingegnoso come riesco a essere solo nei sogni, ho capito che i pupazzi erano palloni gonfiati mossi da droni, e che il tipo con i tablet stava coordinando una coreografia ben studiata.
Mi sono avvicinato per vederlo meglio e ho scoperto che era Edo Chieregato di Canicola (che, nella vita reale, non vedo o sento da cinque o sei anni). Quando Edo si è accorto di me, ha lasciato cadere i tablet e mi è saltato addosso: se non mi fossi svegliato, mi avrebbe strangolato.

«Dottoressa, per favore, mi dica cosa significa questo sogno assurdo. Cosa gli ho fatto a Chieregato?»
«Interdonato…»
«Sì?»
«Non è che ha riletto Fondazione Babele di Massimo Semerano e Marco Nizzoli
«Certo. Ho molto amato quel fumetto mentre lo leggevo a puntate sulla rivista “Cyborg”. Mi piaceva da impazzire quell’idea dissacrante di arte immersa in un universo cyberpunk. Adesso c’è questa nuova edizione Bonelli… è stata colorata e la preferivo in bianco e nero, ma hanno annunciato un secondo volume con nuove avventure. Sono emozionato e mi pare che non abbia perso un grado di freschezza.»
«Bravo. Si è risposto da solo. È solo un sogno che gira intorno a una storia che le piace molto. Giacon e Chieregato non la vogliono uccidere.»
«Perché ha tirato in ballo anche Giacon? Lui era di sotto a fare la sua danza con le braccia levate al cielo. Mica voleva uccidermi…»
«…»

Massimo, Edo, vero che non mi volete uccidere?

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