All’inizio c’è Alex Toth, un fumettista incredibile che ha preso la lezione di Milton Caniff e Noel Sickles e l’ha portata a un livello sublime. Senza enfasi: pagine meravigliose che danno piacere assoluto. Prendi il suo Zorro, per esempio. Guardi quelle distese di nero che si stagliano sul bianco e capisci cos’è il ritmo nel fumetto. Anzi, capisci cos’è il fumetto. Poi, certo, quei fumetti vorrebbero anche dirti una storia – banale, insulsa, inutile – ma chi se ne frega. Il fumetto, come dice Jean Christophe Menu, è una lingua: capisci tutto anche ignorando il senso delle parole iscritte nei balloon.
A Toth, però, sapere di raccontare le storie banali, insulse, inutili dette da altri crea frustrazione e rabbia. Oltre alla maestria sublime messa in mostra nelle pagine dei fumetti, ha due caratteristiche che non possono essere ignorate: il pessimo carattere, dimostrato in mille occasioni, e il lettering straordinario, esibito in tutte le note vergate a mano e pubblicate dalle testate più diverse per riportare le sue memorie. La combinazione di queste due caratteristiche gli rende insopportabile scrivere le parole pensate da altri nei balloon e lo costringe a esibire disappunto nella forma più urticante.
Nel 1976, il festival di Angoulême istituisce un premio al miglior libro a fumetti. Il “Fauve d’or”, così si chiama il premio, viene assegnato a quattro volumi: due comici e due realistici; due francesi e due stranieri. La combinazione straniero/realistico incorona Una ballata del mare salato di Hugo Pratt.
Appena intuiscono la presenza di uno spazio commerciale per fumetti avventurosi realizzati da autori stranieri, l’editore Fernand Nathan incarica Jean-Pierre Dionnet di inventare una collana che colga quell’opportunità. Proprio da un’idea dei due era nata la rivista “Métal Hurlant”. Dionnet è uno che di fumetti ci prende veramente tanto e incarica Alex Toth di lavorare a una storia tutta sua. Controllo assoluto su tutto: storia, disegno, colore, lettering, tutto. Toth decide di realizzare una serie d’avventura, con aerei ed eroi con i baffetti, ambientata negli anni Trenta: Bravo for Adventures. Ci lavora per tutto il 1977. Disegna una cinquantina di pagine e porta la sua idea di tavola al massimo livello (soprattutto con quell’ultimo capitolo in cui rinuncia al realismo per mettere in pagina astrattismo e visioni lisergiche). Benché sia molto felice del fatto che le parole banali, insulse, inutili siano frutto del suo lavoro – e benché quel fumetto sia una gioia per chi guarda – le avventure di Jesse Bravo non decollano. Mica tutte le idee di Nathan e Dionnet arrivano a concretizzarsi. Pensa che, quando è nato “Métal Hurlant”, i due avevano progettato un pacchetto di quattro riviste: tre di queste non le abbiamo mai lette. L’idea di una collana di libri d’avventura sull’impronta della Ballata prattiana si spegne e tutti si allontanano fischiettando.
Toth resta in compagnia di quelle pagine inedite fino al 1980, quando vedono la stampa su due numeri della rivista “The Rook Magazine” pubblicata dalla newyorchese Warren Publishing.
C’è uno spagnolo che frequenta quegli uffici con continuità: si chiama Josep Toutain e ha una casa editrice e un’agenzia, Selecciones Ilustradas, a Barcellona che, incaricando alcuni tra i maggiori fumettisti iberici, realizza un sacco di fumetti proprio per la casa editrice di Jim Warren. Se vuoi sapere che tipo era Toutain, fila a leggere (ma io spero rileggere) Los Profesionales di Carlos Giménez (la cui prima parte è stata pubblicata in italiano da Black Velvet del nostro Omar Martini): l’agenzia in cui lavora Pablo/Carlos si chiama “Creacciones Illustradas” e il padrone di quel posto, Filstrup, è proprio Toutain.
Scusami per l’inciso. Oggi mi partono parentesi e digressioni così articolate che sei già andato due volte a controllare chi ha scritto l’articolo e ti sei stupito che non fosse Boris.
In ogni caso, Toutain sta pubblicando in Spagna la rivista “Creepy” (che negli USA è un marchio di Warren) e uno dei suoi sceneggiatori, Enrique Sánchez Abulí, gli ha proposto una serie bellissima: una storia di gangster americani ambientata negli anni Trenta. Più precisamente nel 1936. Il protagonista della serie è uno scugnizzo italiano, Luca Torelli, che si è fatto strada nel duro mondo della malavita newyorchese con il nome Torpedo.
Vedendo le avventure di Jesse Bravo a Toutain e Abulí diventa evidente che Toth è il disegnatore ideale per quella serie. E mica è una brutta idea. Toth è un gigante e gestisce da sempre i vincoli impostigli dall’industria, dagli editori, dagli sceneggiatori e dai lettori. Deve realizzare storie di otto pagine, con sei vignette per pagina, in bianco e nero. Sembra proprio la sua tazza di tè.
Disegna due storie. E sono bellissime. Bello Torpedo, belle le donne – vestitissime anche quando sono nude – che gli si muovono attorno, belle le strade, bella l’avventura, sublime la costruzione delle pagine. C’è un problema però: tutta quella bellezza fa a cazzotti con il racconto di criminalità sordida e sicari nati cattivi scritto da Abulí.
La vulgata dice che Toth rinuncia all’incarico perché non si sente in sintonia con quelle atmosfere troppo cupe. Mi sembra più probabile ci siano stati screzi e scambi non proprio simpatici sulla qualità delle parole messe in bocca a quei bei personaggi.
A questo punto editore e sceneggiatore hanno un bel problema. Un personaggio potente, che potrebbe funzionare. Due storie già disegnate da un maestro del fumetto, qualcuno ha già investito un po’ di lavoro e qualcun altro un po’ di quattrino. Filstrup non butta via niente e quelle due storie le pubblica. Però c’è davvero un problema.
Con chi lo si può sostituire un assoluto gigante del fumetto? Dannazione! Tocca fare una scommessa.
La scelta cade su un disegnatore trentasettenne. Si chiama Jordi Bernet, è bravissimo ma, in quel momento, i suoi fumetti più belli e importanti non sono ancora usciti: Historias negras, Sarvan, Kraken, e poi i lavori con Carlos Trillo ( Custer, Light and Bold, Ivan Piire, Clara de noche e Cicca Dum Dum).
Sulle pagine di Torpedo 1936, Bernet inventa un modo per disegnare un mondo di criminalità statunitense densissimo. Si confronta con le sedici pagine iniziali realizzate da Toth e ne emerge a testa alta. Lavorerà sul personaggio per una ventina d’anni, almeno fino al 2000, disegnando almeno 650 pagine.
Toth aveva costruito un mondo di particolari. Un’infilata di primi piani e dettagli. Un’ambiente fatto di abiti, qualche sporadico oggetto, porzioni di automobili.
Jordi Bernet deve partire da lì. E lo fa dalla prima pagina. Torpedo, elegantissimo e belloccio, ci viene mostrato in canottiera nella prima vignetta e, da quel momento, suda, sanguina, si mette comodo risvoltandosi le maniche e sbottonandosi la camicia. A volte hai la sensazione che puzzi. Rascal, un gregario paffutello nella versione di Toth, sviluppa occhi porcini, labbro carnoso, attitudini schifose: un individuo viscido e disprezzabile.
Le inquadrature e i campi si allargano: i particolari in campo aumentano. Compare finalmente la città. I neri di Bernet sono molto diversi da quelli di Toth. Laddove lo statunitense gestiva un bianco e nero nettissimo, interrotto da pochissimi tratteggi e sporadiche linee cinetiche, Bernet dissemina i volti dei personaggi di segni che dicono profondità, espressioni e depravazione. Il mondo si sporca, il nero si dilata ed emerge il fumo, un sacco di fumo, denso e puzzolente, dalle sigarette, dalle pistole, dai tubi di scappamento, dai tombini…
E poi ci sono le donne, morbide e bellissime, sessualizzate, quasi sempre di proposito.
Con Bernet, Torpedo diventa realmente Torpedo e la serie che porta il suo nome è un punto notevole della storia del fumetto.
Appena vedi il libro, esposto in libreria, ti coglie un po’ di stupore. Leggere in copertina “Torpedo”, scritto con quel carattere graziato, ti scaraventa immediatamente nelle atmosfere di Bernet. Però c’è quella data in copertina: 1972. Il crollo di Wall Street del 1929, il giovedì nero, la grande depressione, il proibizionismo, Al Capone… sono tutti fatti lontani. New York è una città diversa. Cosa può fare una coppia di gangster anziani, abituati a vivere dei proventi della loro attività di sicari prezzolati, in un mondo completamente nuovo.
Per prima cosa, cambiare disegnatore. Esce Jordi Bernet e, a lavorare sulle sceneggiature del settantanovenne Enrique Sánchez Abulí, arriva l’argentino Eduardo Risso, un abile professionista i cui fumetti leggiamo, anche in Italia, dagli anni Ottanta (ricordo Parque Chas con Ricardo Barreiro e Vampire Boy, Fulù e Chicano con Carlos Trillo). Tra il 1999 e il 2009 ha disegnato i cento numeri del comic book 100 Bullets (su testi tanto risibili di Brian Azzarello da far sospettare che Alex Toth avesse ragione).
Il primo volume di Torpedo 1972 esce nel 2017. Il personaggio è rimasto inutilizzato per oltre tre lustri. Guardando le pagine, si ha il sospetto che Abulí continui a scrivere avendo in mente la gabbia a sei vignette usata fino a quel momento. Ma siamo negli anni Settanta: la traiettoria storica ed evolutiva dell’umanità newyorchese è ben evidente. C’è un sacco di tecnologia che, pur essendo rigorosamente analogica, è nuovissima e il mondo ormai è a colori.
E così le pagine di Risso. E la composizione di quelle tavole è consapevole tanto del mestiere che il disegnatore argentino ha affinato in trentacinque anni di carriera quanto del fatto che il fumetto letto a New York, dal 1936 al 1972, sia stato rivoluzionato dai montaggi iperbolici di Jack Kirby, Steve Ditko, Jim Steranko, Gene Colan…
Il dinamismo della pagina di Risso è solo un effetto di superficie. Il disegnatore varia sistematicamente la disposizione delle vignette, cercando di nascondere la gabbia 2×3 con spostamenti dei riquadri. All’interno dei quadretti si concede scelte prospettiche e variazioni del punto di vista. Il nero è nettissimo, contrapposto al bianco, quasi da linea chiara. Nelle pagine esplodono primi piani e particolari, su sfondi quasi sempre bianchi o neri. Il 1972 di Risso non è poi così lontano cronologicamente dal 1936 di Toth. E alla fine, questo nuovo Torpedo sembra proprio un gioco fatto da signori attempati e annoiati che non hanno voglia di guardare i cantieri e impallidiscono di fronte al lavoro di Jordi Bernet.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).