Nel 1975, Fabrizio De André era in tournee con i New Trolls. Come se l’accostamento tra il cantautore genovese e il gruppo che stava sfornando caposaldi del rock progressivo non fosse già abbastanza strano, chi andava a sentire quei concerti si ritrovava Eugenio Finardi, un rocker con marcato accento milanese di ventitré anni ad aprire lo spettacolo. Quel ragazzo aveva appena pubblicato un disco con Cramps, l‘etichetta di Gianni Sassi, e dal vivo faceva un brano che sarebbe diventato, di lì a poco, fondamentale per le nascenti radio libere.
L’anno dopo, quel brano è registrato in Sugo, secondo disco di Finardi, sempre per Cramps Records. Il brano si chiama Musica ribelle. Riascoltalo.
Ci sono le sonorità rock, la metrica sghemba, il gergo giovanile, l’accento meneghino percepibile anche in mezzo alle parole allungate e al falsetto sempre in agguato. Il brano esce, insieme a La radio, anche come singolo. E, a quel punto, quelle due canzoni diventano l’accompagnamento perfetto per chi accende la radio e cerco stabilità tra il gracchiare della modulazione di frequenza. Qualcuno parlerà di inno generazionale; qualcun altro alluderà al fatto che, all’improvviso, ci si sia trovati di fronte a una terza via, tracciata con decisione tra schitarrate, vocalizzi e parole di lotta, tra i cantautori e il progressive.
Il testo della canzone dice di Anna e Marco, che vivono i drammatici dolori della crescita. Tristezza, solitudine, insoddisfazione, incomprensione, sfiducia, ossessioni, sogni di fuga…
Poi, però, c’è la musica. Ed è anche ribelle. È dolce, ma forte, onnipresente, ti entra dentro e ti rivolta come un guanto. Un motore di lotta, mentre l’eroina si prepara a smantellare gli animi più tempestosi dell’ennesima generazione condannata alla sconfitta.
Lucio Dalla è nato diciannove anni prima di Finardi. Proprio un’altra generazione. Questo non gli impedisce di avere un animo inquieto. Dopo aver riscosso successi importanti con le sue canzoni, ha stretto un sodalizio con il poeta Roberto Roversi, abbandonando i precedenti autori dei testi (Bardotti e Baldazzi), perché vuole che alla sua sonorità sporca di jazz e musica contemporanea, siano associate parole inedite. Da quel connubio nascono, tra il 1973 e il 1976, tre dischi: Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e Automobili. Dopo quel trittico, pubblica, nel 1977, il meraviglioso Com’è profondo il mare, il primo disco di cui ha scritto sia i testi che le musiche.
Non so quando Dalla abbia sentito per la prima volta Musica ribelle, ma immagino che un po’ lo incupisse. Non credo per i versi riferiti alle «strofe languide di tutti quei cantanti / con la faccia da bambino e con i loro cuori infranti», in cui immagino non si riconoscesse (era nato il 4/3/43 e, quando i ladri e le puttane lo chiamavano Gesù bambino, c’era dell’evidente ironia). Immagino che un cantante che si era così tanto battuto per trovare le parole giuste da associare alla sua musica sentisse una tensione infissa tra la terza e la quarta vertebra quando si arrivava ai pensieri del ragazzo: «Qua in fondo da noi la musica non è male / quello che non reggo sono solo le parole».
Nel 1979, Lucio Dalla è in studio per incidere il disco Lucio Dalla. Ha in scaletta il pezzo Sera, ma non è soddisfatto. In una notte – forse supportato dal produttore Andrea Colombini – lo riscrive. La seconda facciata del disco si apre con la nuova versione di quella canzone, Anna e Marco. Riascoltala.
La canzone è una risposta a Musica ribelle di Finardi. I due protagonisti, che nella canzone del milanese si salvano nella lotta, per Dalla trovano pace nell’amore.
Anna è disperata: «si sente tanto sola / ha la faccia triste e non dice una parola» viene sintetizzato da Dalla in un tagliente «avrebbe voluto morire». Marco ambisce alla fuga: «intanto sogna di andare in California / alle porte del cosmo che sta laggiù in Germania» diventa «voleva andarsene lontano».
Invece di tifare rivolta («mollare le menate / e mettersi a lottare»), Dalla fa trovare loro pace nell’amore: «Qualcuno li ha visti tornare / tenendosi per mano».
Ero convinto che Anna e Marco avessero trovato pace. Fino a quando, l’anno scorso, è uscito Elvis dei Baustelle. Ci ho messo un po’ per capirlo, perché uno dei due protagonisti della canzone si muove sotto mentite spoglie, usa uno pseudonimo: Anna si fa chiamare Paola. Andiamo ai rave, brano di apertura del disco prosegue il discorso iniziato da Finardi e Dalla. Ascoltala.
Francesco Bianconi, autore dei testi del brano, è nato nel 1973. Come a dire che la storia di quei due diciottenni la racconta qualcuno sempre più lontano anagraficamente (e generazionalmente): prima il ventitreenne Finardi, poi il quarantaseienne Dalla e ora il cinquantenne Bianconi.
Sarà la prossimità anagrafica, ma mi scopro vicino a Bianconi. Cercare il modo più efficace per dimenticare la morte mi pare inutile, mi sembra il modo più sicuro per rinunciare alla felicità, alla vita. Non credo che Anna/Paola e Marco saranno salvati né dalla musica ribelle che induce alla lotta né dalla coppia. Faccio il tifo per la loro solitudine ferina, per il loro essere selvaggi, per le loro pellicce.
«Vuole essere tigre, essere bella per sempre / Non essere schiava di nessuno e di niente / Senza benzodiazepine zebra alle feste / Essere un serpente di corallo anche lei».
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).