Down the Rabbit Hole

Paolo Interdonato | post-it |

Lo Stato di Palestina non è come il Molise (o il Kurdistan). Esiste. È riconosciuto dalle Nazioni Unite, come stato non membro, ed è pure censita la sua occupazione da parte di Israele.
Esiste. Ed è popolata da un numero di cittadini su cui è difficile effettuare censimenti. Il PCBS, Palestinian Central Bureau of Statistics, riporta la popolazione palestinese stimata dai governatorati nel periodo tra il 1997 e il 2026. L’ultimo dato di stima è stato pubblicato il 26 maggio 2021. La popolazione stimata è di 5.483.450 abitanti.

Sempre il PCBS pubblica i contatori delle vittime palestinesi della guerra. Li leggo, nella notte tra il primo e il 2 marzo, e me li appunto. Sono numeri così grandi da richiedermi un enorme esercizio di praticità perché non diventino solo indicatori astratti.

30.365 morti
74.925 feriti
2.000.000 allontanati dalle proprie case
355.000 case distrutte

Sono tentato di mettere questi indicatori in relazione con il numero di abitanti stimati, per ottenere delle percentuali. Poi mi ferma un barlume di buon gusto e l’essere vagamente consapevole del fatto che sarebbe un dato fallace. C’è una distinzione enorme tra palestinesi e abitanti dello Stato di Palestina. La Palestina è una regione molto più estesa di quella ricompresa nei confini dello stato col suo nome; due terzi dei palestinesi vivono al di fuori dei suoi confini.

La mia incapacità di sentire queste informazioni – e di sentire dolore per ogni unità che compone quei numeri abnormi – mi tiene sveglio. Mi gingillo con Spotify nella notte e trovo un coniglio bianco. Lo seguo per un po’ e casco nella sua tana.

Mi imbatto in un trattato di linguistica in forma di canzone. Cioè, non è proprio una canzone. Pare di più un incrocio tra talking blues, slam poetry e rap. Una di quelle cose che ho la sensazione di voler ascoltare una volta sola, come le barzellette, perché poi smetterà di avere senso. Perché si svuota della sorpresa. Invece, entro in fissa: l’ascolto e la riascolto. A un certo punto, mi scopro a canticchiarla. Il tipo che la recita, per venire incontro ai miei evidenti limiti cognitivi ha deciso di mettere un ritornello pop, per alleggerire un po’.
Il pezzo di chiama Le interiora di Filippo ed è cantato da Lucio Leoni. Se anche tu, come me, non lo hai mai sentito nominare, regalati questo momento di bellezza.

Perso nel ritmo ipnotico di questa canzone, quasi mi dimentico del dolore che volevo infiggermi nella coscienza. Quei numeri, giganteschi e astratti, sono perduti. Quasi non li ricordo più. Quanti erano i feriti? E le case distrutte? Boh… Per salvarmi, mi sono rifugiato nella parte più stronza del mio pensiero, quella che può accoccolarsi nel ritornello pop.
Ma la mia caduta nella tana del coniglio non è ancora finita.

Mi distraggo un attimo e mi dimentico di far ripartire il brano. Spotify non perdona le mie mancanze e, per una qualche sua alchimia algoritmica, mi fa scivolare, senza increspature, nel brano successivo. Si chiama Molise e non parla di Palestina. Parla di me, della mia ignoranza, della mia incapacità di capire il mondo. Del mio essere un europeo, dominato dall’osceno senso di superiorità nei confronti di un mondo che si estende oltre i confini di un continente che chiamiamo vecchio. E lo chiamiamo vecchio, con orgoglio. Cazzo! La vecchiaia è una merda! Come dice Brett Easton Ellis, vai in palestra, fai tutto il tuo workout, sudi e ti tieni in forma, poi, in doccia, ti guardi e ti chiedi: «Quando mi è venuto il corpo di mio padre?»
Eppure, quando parliamo di Europa, la vecchiaia di quel continente è un valore da esibire con orgoglio. E noi, gli europei, mica stiamo solo all’interno dei territori delimitati dai confini assegnatici dalla geografia. Viviamo negli Stati Uniti, in Argentina, in Sud Africa, in Israele… Comode estensioni in cui far tracimare l’orgogliosa vecchiaia del nostro continente.

L’Europa non esiste. Proprio come il Molise.

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(Quasi)