Alla fine del 1951, con data di copertina “novembre – dicembre”, chi si fosse avvicinato a un espositore di comic book negli Stati Uniti, e avesse avuto in tasca almeno una moneta da 10 centesimi, avrebbe potuto comprare il ventiquattresimo numero di “Two-Fisted Tales”.
In copertina c’è una scena di battaglia. Una truppa presa d’assalto durante il turno di riposo. «Sveglia! Sveglia, uomini! Siamo stati circond… UK». Militari che sparano ad altri militari. Quello che dovrebbe essere la guerra. Quello che quasi sempre è nelle narrazioni.
Quella copertina è bella ed efficace. Il segn o rapido e spesso di Harvey Kurtzman – che l’ha disegnata e che dirige la testata – è particolarmente incisivo. Una scena notturna, forse una trincea o comunque un luogo apparentemente sicuro, tre uomini visibili, ancora sotto la coperta, che cercano di usare le armi, un nemico fuori campo che sta già avendo la meglio. Basta quell’immagine a definire il tono della testata per il lettore che non la incontra da un paio di mesi e per quello che se la trova tra le mani per la prima volta.
A quel punto, il nostro lettore trova un angolo comodo e inizia a leggere il suo innocuo fumetto.
Subito dopo la copertina, un testo redazionale racconta – come nella tradizione della casa editrice EC – l’artista del numero, ed è proprio Kurtzman, un tipo che ha scritto tutte le storie contenute nell’albo e che sorride con discrezione nel suo completo chiaro su cui spicca la cravatta forse nera. Poi c’è il primo fumetto, Hill 203! disegnato da Jack Davis. Quella prima pagina è un pugno allo stomaco: un soldato accovacciato a terra con un fucile a ripetizione tra le gambe, è accasciato con la faccia sull’arma, come se si fosse addormentato durante uno scontro a fuoco. Otto pagine per dirci come si è arrivati a quel punto e inizia Bug out!, il fumetto successivo disegnato da Wally Wood. Altre sette pagine di paura e morte che vedono il coinvolgimento, nelle zone di guerra, di soli militari. Poi una pausa, quasi si sentisse il bisogno di tirare il fiato: tre pagine di redazionali. E, a quel punto, arriva Rubble!, scritto e disegnato da Harvey Kurtzman.
I fumetti di “Two-Fisted Tales” hanno una struttura regolare, una gabbia abbastanza rigida. Storie di 6/8 pagine. Ogni tavola è montata su tre strisce. C’è sempre una voce narrante, che può essere contenuta in didascalie che sovrastano le vignette o nei pensieri di un protagonista. La prima pagina ha sempre una vignetta grande, che contiene il titolo e l’introduzione della voce narrante e occupa le prime due strisce.
Rubble! non fa eccezione. Un cannone della contraerei che esplode un colpo verso un nemico invisibile che giunge dall’alto. La voce narrante occupa tre righe di testo sopra il titolo e sopra la seconda vignetta, che si sviluppa sull’ultima striscia della pagina e ci mostra il medesimo cannone da un’altra prospettiva. Oltre al racconto verbale, che dà cadenza alla narrazione e suggerisce una durata costante della presenza del nostro sguardo su quelle due vignette, ci sono solo le fragorose onomatopee delle esplosioni. I tre soldati che usano il cannone, pur essendo la sola presenza umana sulla pagina, sembrano eseguire soltanto gli ordini: azioni ripetitive e meccaniche come quelle della macchina che governano.
Sfogliamo e, siccome il fumetto è iniziato a destra, ci troviamo di fronte a un cambio di scena quasi stupefacente.
La vicenda ora si sposta su una coppia che sta costruendosi una casa e un futuro. Da qui in avanti le pagine hanno una gabbia uniforme: le prime due strisce contengono tre quadretti di dimensioni uniformi nelle quali la vita scorre al ritmo del lavoro e delle stagioni. La terza striscia è un’unica vignetta e mostra il punto di stabilità raggiunto dalla vita della famiglia.
Tutte le vignette sono sovrastate da un balloon che contiene esattamente tre righe di parole dette dal maschio (che è decisamente un po’ verboso e didascalico, mentre spiega ai lettori cosa sta facendo). Quel testo serve a scandire il ritmo della pagina. Se cerco di eseguirla come fosse una partitura dando una lunghezza a ciascuna vignetta mi accorgo che le prime tre pagine suonano così:
PAAM PAAM PAAM / PAAM PAAM PAAM / PAAAAAAM.
E su quell’ultimo rintocco lungo, sento la calma della tregua dalle parole e dalla presenza tangibile di vite che assumono una forma che tende al conforto e alla protezione.
Poi arriva la quinta pagina. E questa volta è a destra: la vediamo arrivare. Non è nascosta dallo sfoglio dell’albo.
Arriva la guerra. Tornano i militari. La struttura della pagina cambia. Le vignette nelle prime due strisce diventano quattro e il testo che le sovrasta, questa volta in didascalia, si assottiglia. Ritornano le onomatopee portatrici di morte indotta meccanicamente. Nell’ultima vignetta, che ha le esatte misure della terza striscia, tornano le tre righe di testo, ma lo stato di stabilità raggiunto è perduto: assistiamo all’esplosione della casa che abbiamo visto sorgere, alla morte della famiglia che abbiamo visto nascere.
PAM PAM PAM PAM / PAMPAMPAMPAM / PAAAAAAM.
C’è solo spazio per un’ultima pagina. Questa volta a sinistra, questa volta sorprendente. Recuperiamo il ritmo della costruzione. Ma non c’è più una famiglia, un maschio petulante che descrive le azioni, un punto di arrivo in cui si intravvede un futuro migliore.
Una voce narrante che descrive operazioni militari meccaniche. E addosso ci resta solo il senso di vuoto e di morte. E viene, ancora una volta, da citare Tacito di fronte ai “Predatori del mondo intero”: «E là, dove fanno il deserto, dicono che è la pace».
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).