Mentre stiamo raggiungendo il corteo del 25 Aprile, ci accorgiamo del messaggio di Annibale. È uno di quei vocali interminabili che classifico come “sequestro di persona”: è stato mandato mentre pranzavamo i soliti spaghetti di riso nel solito ristorante cinese.
Annibale, con voce allegra che vibra a tempo con il passo spedito, dice che è partito da casa e sta andando a piedi in manifestazione. Abita in provincia, a sud di Milano, e sta percorrendo la dozzina di chilometri che lo distanziano da Porta Venezia, pregustando il giorno di festa. Dice che non sa se ci incontreremo, perché sa che saremo tantissimi. Ci muoveremo a caso e ci affideremo alla sorte, godendo della casualità della vita che si batte contro l’ordine caotico e inaccettabile del fascismo. Dice che ormai Liberazione è sinonimo di pacifismo. Che dovremmo batterci tutti per la pace: prendere tutte le armi e trasformarle nel metallo necessario a fare i binari per andare in vacanza, in treno, in tutto il mondo.
Annibale è un boomer animato dalla riconquista di un’insperata adolescenza. La sua voce, ben modulata e resa priva di inflessione dai numerosi esercizi di dizione che la sua professione di attore gli impone, trasmette gioia. Rimarca che, col tempo, le sue posizioni di sinistra si sono via via accentuate, che non è vero che il tempo ti sclerotizza su posizioni di conservatrici, che lui si radicalizza sempre più a sinistra. Ed essere di sinistra, dice, significa amare la pace e gli umani. Poi, quando i toni rasentano il livello proclama, esplode in un’imprecazione. Sentiamo il rombo dell’auto. Annibale grida una raffica di insulti e ci dice che il suv lo stava ammazzando mentre attraversava: ha deviato per puntarlo, fino a salire quasi sul marciapiede.
«Adesso vado lì, lo tiro giù dal sedile e lo massacro di botte!»
La manifestazione a Milano è molto partecipata e piena di belle bandiere. Il sindaco, Antonio Scurati e Pif hanno già finito di parlare dal palco a una piazza vuotarella, mentre la coda del corteo è ancora all’altezza di Porta Venezia. Poi, siccome finiscono anche le cose belle, in serata il corteo si disperde e, qualche ora più tardi, i cubetti di ghiaccio del gin tonic restano soli sul fondo del bicchiere.
Il giorno dopo, alla ricerca di una Liberazione che passi dalla pace, Lia e io troviamo un compromesso. Andiamo all’hangar Bicocca a vedere un paio di mostre non memorabili, soprattutto perché Lia ha scoperto che non ho mai visto I Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer: lo trova intollerabile. Accetto di buon grado di assecondare la sua speranza di dirozzarmi, a patto che, poi, ci si possa infilare nella sala del mostruoso multiplex lì vicino (innestato in un mostruoso centro commerciale) a vedere un film di botte. Anche lei, forse ancora obnubilata dalla manifestazione del giorno prima, accetta.
C’è Monkey Man, scritto, diretto e interpretato da Dev Patel. Conquistiamo i biglietti, schiviamo bambini e adulti che basculano enormi bicchieri di pop corn, troviamo la sala e i nostri posti e sopravviviamo a una ventina di minuti di pubblicità: il film inizia.
Monkey Man è divertente. Si iscrive pienamente nella tradizione del cinema “wuxia”. C’è tutto quello che ti aspetti: arti marziali e cavalleria, fantasy, vendetta… Pieno di citazioni e omaggi: dallo scontato riferimento a Joh Wick, risalendo fino al combattimento sulle scale di The Protector, ai ring di Once Upon a Time in China e Ip Man, alla ricostruzione dell’eroe morente in migliaia di pellicole e all’ingresso nel palazzo dei cattivi di The Raid… Se hai visto un film di botte negli ultimi cinquant’anni, ecco, in Monkey Man ce lo ritrovi di sicuro. Ed è pure recitato molto bene, soprattutto nelle parti in cui non ci si mena.
Esco dalla sala soddisfatto e anche Lia ha un’espressione divertita. Saliamo sulla metropolitana: è “la lilla”, quella senza conducente, e abbiamo conquistato, come due ragazzini al Luna Park, i posti di testa nella prima carrozza, quelli che, sulle altre linee, sono occupati da chi controlla il mezzo. Mentre ci godiamo le gallerie buie e l’ingresso nelle stazioni, chiacchieriamo del film che abbiamo appena visto. Probabilmente perché annoiata dal mio snocciolare i riferimenti ad altri action movie che, fino a oggi, è riuscita a evitare, Lia mi chiede qual è, secondo me, la morale del film, se una morale c’è. E chiedendomela, me la suggerisce: «Perché, certo, c’è la vendetta, la redenzione, il ritorno, la liberazione… ma non è che il senso vero è che il sovranismo ci ha davvero rotto il cazzo?»
Già. Ha davvero ragione Annibale. Dobbiamo ambire alla pace, sognare un mondo in cui prendere il metallo delle armi e trasformarlo in binari lungo i quali andare in vacanza, in treno, ovunque, sempre. Ma nel frattempo, guardare ognuna di quelle merde sovraniste, affermando con chiarezza: «Adesso vado lì, lo tiro giù dal sedile e lo massacro di botte!»
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).