Del casino nato prima del 25 aprile attorno al monologo di Antonio Scurati, che si apriva con il ricordo dell’omicidio di Giacomo Matteotti, hai sentito parlare di sicuro, in tutte le sfaccettature possibili. Dalle insinuazioni sul compenso allo scrittore fino all’indignazione dopo la censura, goffa e peraltro inefficace, calata sul pezzo. E quel monologo alla fine penso tu l’abbia letto o sentito. Nulla da dire sull’argomento. Al massimo, un veloce consiglio di lettura alla trilogia di Scurati.
Se proprio difetti in tempo e voglia, recupera almeno questo, che i due seguenti, seppure validi, perdono un po’ di mordente.
Pure sul monologo in sé ho poco da aggiungere. Essenziale e, per questo, semplice e non semplicistico. Di questi tempi, in cui l’essenziale può non essere scontato, persino necessario.
Unico appunto: nella sua versione originale Scurati tagliava con l’accetta le conseguenze del fascismo, fermandosi all’occupazione tedesca e agli eccidi (Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto) fino alla Liberazione, senza parlare delle stragi nere, da piazza Fontana in poi. Quando l’ha letto in pubblico lo scrittore ha aggiunto almeno un accenno al fascismo successivo al 1945, dicendo:
«Non solo prima della guerra e durante la guerra, ma anche nel dopoguerra fino a tutti gli anni Ottanta».
Solo un’allusione veloce (probabilmente qualcuno gli aveva fatto notare la mancanza). Ma bene così. Che fra maggio e giugno saranno cent’anni dall’ultimo discorso di Matteotti e dal suo omicidio, ma saranno pure passati cinquant’anni dalla strage di piazza della Loggia. L’unica per cui è stato condannato con sentenza definitiva il vertice di Ordine Nuovo (nella persona di Carlo Maria Maggi) e acclarate le tragiche complicità dei servizi segreti (nella persona di Maurizio Tramonte).
Tutte cose, a dire il vero, emerse anche in altri procedimenti giudiziari sulle tragedie di quegli anni, ma mai con una compiutezza paragonabile a quella stabilita dal processo per la strage bresciana.
Sarò poco elegante, ma consentimi di ricordarti due libri di cui sono co-autore, idonei a chiudere questa parte. Che l’autoreferenzialità è sempre sconsigliata, ma (Quasi) accettabile qui, dove i fumetti dovrebbero essere protagonisti.
Ora però stai leggendo la rubrica del Tradrittore. Magari pensi di esserti perso in altre sezioni della “rivista che non legge nessunə” e ti stai chiedendo quando arriverà la citazione da tradurre/tradire/raddrizzare. Scurati?
No, non ce n’è bisogno. I suoi censori? Troppo tardi, poca voglia e nessuna utilità o interesse.
Con un prodigioso carpiato con plurimi avvitamenti ti parlerò di questi due signori. Accostabili non certo per gradimento.
Il primo è Matteotti, lo conosci e vedrai che nei plurimi avvitamenti da Tradrittore tornerò a lui. Fermiamoci sul secondo, Vittorio Feltri. Il quale, caso vuole, fece partire questa rubrica tanti anni fa e ora ha l’inaspettato onore di essere fin qui l’unico (almeno credo e mannaggia a me) a esserci finito per due volte.
L’episodio di cui voglio parlarti risale a pochi giorni prima della polemica su Scurati e 25 aprile. A quando, durante la trasmissione “L’aria che tira”su La7, si parlava delle proteste degli studenti universitari relative agli accordi tra gli atenei italiani e quelli israeliani e, in generale, contro il massacro a Gaza (di cui su queste pagine abbiamo parlato a lungo nel mese di marzo). Proteste a cui è seguita la solita risposta condita da manganellate.
È qui che Feltri HA DETTO:
«Sono dalla parte delle forze dell’ordine. Perché è ora di finirla con questi studenti che non combinano niente … Gli studenti devono studiare, non devono essere antisionisti a tutti i costi. Non devono fare proteste che non li riguardano, visto che abbiamo un governo, abbiamo delle persone autorevoli che possono intervenire … Non si capisce perché debbano scendere in piazza a fare casino, e poi si lamentano perché la polizia cerca di contenerli. Il manganello è uno strumento didattico. DI-DAT-TI-CO!»
Non sono stato sorpreso dall’uscita di Feltri. L’immaginavo, temo sia stato invitato per dire qualcosa del genere. Prima di passare alla seconda fase del Tradrittore, al consueto VOLEVA DIRE, lascia che io mi tolga un sassolino dalla scarpa. A sorprendermi, semmai, sono state le volte in cui ho sentito dire che Feltri è spregevole, sì, ma scrive bene. Anzi, È ACUTO! Cosa vuoi che ti dica?
Ma torniamo a Matteotti. Il quale, già sai, parlò per l’ultima volta alla Camera il 30 maggio 1924. In quel discorso (te la faccio breve e brutale, eh, che le cose da dire sarebbero parecchie) denunciava la violenza fascista che aveva caratterizzato le elezioni da poco svolte. Pochi giorni dopo, il 10 giugno, fu rapito e ucciso da sicari fascisti. Poco importa, almeno ai fini di questo articolo, che l’omicidio non sia stato solo una reazione alla coraggiosa invettiva di Matteotti sulle elezioni politiche. Già detto: cosa complessa, hai mille modi e fonti per approfondire, se vorrai. Più utile è ricordare che il segretario del partito socialista unitario, ben prima di quell’invettiva, era stato oggetto di aggressioni fisiche dei fascisti. E pure di volgari e violenti attacchi verbali sui giornali dell’epoca. Ripeto: mica solo nei giorni seguenti il discorso alla Camera, che quelli più o meno vengono sempre ricordati. Preferisco (ossia: mi sembra più significativo) citare “Il Popolo d’Italia” del 3 maggio 1923, assai precedente il discorso al Parlamento.
«Quanto al Matteotti – volgare mistificatore, notissimo vigliacco e spregevolissimo ruffiano – sarà bene che egli si guardi. Che se dovesse capitargli di trovarsi, un giorno o l’altro, con la testa rotta (ma proprio rotta) non sarà certo in diritto di dolersi dopo tanta ignobiltà scritta e sottoscritta.»
Detto questo, immagino sarai lì a domandarti perché nel titolo ho tirato in ballo questo signore…
Quando senti dire “la pistola di Anton Čechov” non devi pensare a strane abitudini dell’autore russo. Si tratta di una formula per ricordare un consiglio che lo scrittore ha rivolto a ogni collega.
Un motto talmente celebre da rendere ridondante la citazione letterale. Se scrivi un racconto e inserisci un elemento, questo deve essere utile alla storia. Se accenni a una pistola, prima della fine deve sparare. Altrimenti toglila dalla narrazione.
Ecco. Questo è il punto. Ti ho imbrogliato, stavolta non c’è alcun VOLEVA DIRE, ma solo un mio personale ammonimento (un VOLEVO DIRE, semmai) che mi è apparso come una rivelazione agghiacciante sommando il monologo di Scurati, l’uscita di Feltri e il periodo in cui viviamo. Una cosa banale, ne convengo, ma come ti ho detto ci sono momenti in cui l’essenziale non è scontato.
«Un manganello, come la pistola di Čechov, se appare in un racconto prima o poi viene utilizzato».
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.