Tutte le idee di “supereroe con superproblemi” di Stan Lee nascono da concetti semplici. Pensaci un po’: ognuno di quei personaggi può essere raccontato con una frase da pubblicitario che riassume il paradosso, il dramma, la rivalsa e il rimorso. Una sorta di claim per un prodotto universale.
Non è poi così importante che Stan Lee non pensasse le pagine, scrivesse storielle da una paginetta miserrima che poi giganti del disegno trasformavano in fumetto e, peggio di tutto, schiacciasse quelle storie sotto dialoghi carichi di retorica, troppe parole e oscena ridondanza. Alla fine, a ben vedere, ha inventato “la famiglia disfunzionale che salva il mondo dalle invasioni galattiche”, “l’avvocato cieco che deve rispondere alla legge ma di notte ripristina la giustizia”, “il debole scienziato che, nella sua rabbia, nasconde un mostro terribile e inarrestabile”, “il dio imprigionato nel corpo di un infermo”, “il secchione sfigato che, non appena ha avuto la forza, ha causato la morte della persona più cara”, …
Concetti semplicissimi e potenti che racchiudono il grande potere in un nucleo di dolore.
I miei preferiti, in questa sarabanda di imperfezioni ed errori, sono sempre stati gli X-Men. Quando nel 1977 ho letto per la prima volta “La seconda genesi”, la storia con cui il gruppo si rinnova e compaiono Nightcrawler, Wolverine, Tempesta e Colosso, sono precipitato in quella trappola narrativa senza alcuna possibilità di fuga. Ma già prima, quando gli X-Men erano un gruppo di adolescenti con pigiamini blu e gialli, ne ero profondamente affascinato.
Il fratello maggiore di un mio amico consegnava giornali e riviste nelle edicole. Portava sul furgone pacchi di pubblicazioni periodiche avvolte nel cellophane. Per agire con rapidità, alla consegna delle pubblicazioni, apriva l’involucro con il cutter e spesso la copertina del primo albo della pigna veniva tagliata con precisione criminale. Quegli albi mutili, in anni in cui il riciclo della carta non era una priorità, erano destinati a diventare pattume. Il fratello del mio amico aveva portato a casa negli anni le copie degli albi Corno con la copertina che si apriva in sorrisi tristissimi e noi potevamo godere di fascicoli che, benché danneggiati, contenevano storie meravigliose. Al mio amico, “Capitan America” faceva schifo e, una volta, all’insaputa del fratello, mi aveva regalato i primi numeri con copertine sfrangiate brutalmente. Una quindicina d’albi mi sembra, forse di più.
Anche a me quel supereroe con lo scudo e vestito con la bandiera statunitense piaceva poco, ma, subito dopo le sue avventure noiosette, c’erano i primissimi X-Men.
Mi infilavo in questa storia strana, scritta inizialmente da Stan Lee e poi da Roy Thomas e disegnata da Jack Kirby e poi da chiunque, e godevo dell’assurdità.
Il tema è semplicissimo: “L’adolescenza fa schifo: ti trasforma in un fenomeno da baraccone”.
Quelle storie raccontavano di cinque ragazzi che, insieme ai brufoli e agli ormoni impazziti, si erano improvvisamente trovati a dover gestire ali da angelo, pelle algida che si ricopre di ghiaccio, vista che uccide, mente che sposta gli oggetti e fisicità scimmiesca.
Un professore, capace di parlare direttamente alle menti dei suoi studenti senza passare per un linguaggio ambiguo e fallace, li raduna in una scuola e, insieme a matematica, scienze, filosofia e lettere, insegna loro a usare il potenziale espresso dalla loro esuberanza adolescenziale.
Se l’adolescenza li trasforma in fenomeni da baraccone, il mondo malvagio si riempie di circensi che vogliono usarli per ottenere potere e ricchezza. I primi episodi degli “X-men” presentano una carrellata di freaks stretiposi. Il film di Todd Browning è del 1934, il fumetto di Lee e Kirby è del 1963. Quell’immaginario, in trent’anni, ha fatto in tempo a consolidarsi e sta materializzandosi in forme nuove.
Magneto, lo Svanitore, Blob, Toad, Quicksilver, Scarlet la strega, Mastermind, Unus l’intoccabile, lo Straniero, il Fenomeno e tutti gli altri sembrano figure disegnate per i cartelloni di un circo. Non ci stupisce che, avvicinandosi agli X-men continuino a dire «Sei uno di noi, sei uno di noi, gabba gabba hey!»
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).