Ti ricordi? Ho cominciato a scrivere questa lunga serie di articoli su Daredevil di Frank Miller appena mi è arrivato a casa Frank Miller’s Daredevil Artist Edition pubblicato da IDW, un libro che ho sognato di avere tra le mani per anni. Nello stesso momento ho iniziato anche a leggere il saggio Frank Miller’s Daredevil and the Ends of Heroism di Paul Young (Rutgers University Press, 2016). Dopo averti parlato tanto di cosa fa Frank Miller, è arrivato il momento di fare il punto anche su come fa quello che fa.
Sono sicuro che, se sei qua, ti è capitato, almeno una volta, per le mani Understanding Comics di Scott McCloud. Se non è successo, fallo succedere, anche se, qui, ti voglio dire che, come tutte le cose, è un’opera che va presa con le pinze e senza assolutismi. In quel libro (che è un saggio e un fumetto), c’è una sequenza che viene usata in centinaia di lezioni e corsi di fumetto in tutto il mondo. Io stesso l’ho mostrata in Iraq, in Algeria, in Marocco e in Tunisia (oltre che in tutti gli appuntamenti lungo lo stivale). È quella in cui McCloud ti spiega i sei possibili tipi di transizioni nel fumetto. In media, ti vengono mostrate le prime due vignette qua sotto, e chi ha il ruolo di divulgatore in quel momento ti chiede: cosa è successo?
A volte, soprattutto in posti in cui il linguaggio del fumetto non è molto diffuso, possono venir fuori risposte davvero divertenti. Ma insomma, è successo un omicidio. La domanda successiva è “ma chi lo ha ucciso?”, e dopo l’ascolto di qualche altra risposta divertente e un po’ di silenzio per creare la giusta suspense, la risposta è sempre «tu». Sei stato tu. Perché sei tu, mentre leggi, che in mezzo a quelle vignette hai deciso che quell’ascia è stata calata sul corpo della vittima, che abbiamo visto urlare in primo piano nella prima vignetta e il cui urlo fuori campo vediamo nella seconda. E solo tu, se l’autore non ci mostra altro, puoi sapere come è stata colpita la vittima, in che punto, quanto sangue ne è zampillato fuori. Potenzialmente quella vittima è stata uccisa in tanti modi quanti sono gli sguardi che vedono la scena. McCloud chiama “transizione” questa cosa che avviene nella nostra mente proprio mentre scorriamo lo spazio bianco che divide due vignette. Ne ha classificati sei tipi e questo è un esempio del terzo tipo, quello che ha definito “da soggetto a soggetto”. Si tratta della tipologia di transizione che richiede un coinvolgimento maggiore: chi legge è chiamato, scorrendo la pagina, a “completare” alcune scene nel suo cervello, mentre l’occhio si chiude e si riapre. Nel libro di McCloud a questa transizione viene attribuita un’importanza fondamentale, quasi “costituente” del linguaggio del fumetto.
Di tipologie di transizioni McCloud ne ha formulate sei. Considerando che potrebbero essere lo strumento più importante per un autore di fumetti per coinvolgere il suo pubblico, forse ci può stupire pensare che Frank Miller abbia potuto fare una invidiabile carriera ricorrendo quasi integralmente all’uso di due, forse tre transizioni di questo elenco, per la maggior parte del suo lavoro.
Per McCloud, quando fruiamo un fumetto, durante l’atto naturale di chiudere l’occhio (tra le 900 e le 1200 volte in un’ora), succedono un sacco di cose nel nostro cervello. Ma è proprio così?
Master Race di Bernard Krigstein è una di quelle storie seminali che hanno determinato una cesura tra un “prima” e un “dopo” la pubblicazione, e ce lo racconta bene Paolo in questo articolo.
Come fa spesso con le sue storie preferite, Frank Miller ha voluto omaggiare una delle sequenze più famose di questo racconto breve nella prima riscrittura che ha fatto, in collaborazione con Roger McKenzie, delle origini del personaggio di Daredevil, in Daredevil 164 (Marvel Comics, Febbraio 1980).
Se ci atteniamo alla formulazione di McCloud ci accorgiamo che sia in Krigstein che in Miller non c’è una scena da “completare” mentre la palpebra si chiude e riapre sul nostro occhio, nulla da immaginare, nessun omicidio da compiere: Miller usa prevalentemente le prime due transizioni formulate da McCloud, “da momento a momento” e “da azione a azione”.
In modo più sottile, a volte, ci coinvolge in una transizione “da soggetto a soggetto”, ma anche qui nel microsecondo in cui la palpebra batte non ci è richiesto nessuno sforzo interpretativo, non dobbiamo fare niente: è l’occhio di Miller ad accompagnarci, passo passo, nella scena, che fruiamo in modo molto simile a quello messo in atto da chi siede su una poltrona al cinema.
Continuando a leggere Frank Miller’s Daredevil and the Ends of Heroism ho imparato anche che Thierry Groensteen (uno dei maggiori teorici a livello mondiale del fumetto) ha definito il modo di organizzare le vignette sulla pagina, chiamando “impaginazione simmetrica” quella che vede l’autore lavorare su una gabbia pressoché sempre uguale – adattando dunque il contenuto alla forma delle vignette -, e “impaginazione asimmetrica” quando invece è la forma delle vignette ad adattarsi al contenuto. Ti mostro un esempio, così mi viene più semplice spiegarmi, chiedendo aiuto a Giovanni Freghieri e a una sua tavola di Dylan Dog, brillante esempio di una “impaginazione simmetrica”.
Avrai notato che invece il campo di gioco di Frank Miller si colloca, almeno nel suo Daredevil, su un tipo di impaginazione “asimmetrico”: se serve che qualcuno cada dall’alto a inizio pagina, cominciamo con una vignetta verticale, poi il personaggio si rialza e tira un calcio e allora possiamo procedere con vignette orizzontali, ognuna con una altezza diversa a seconda dell’ingombro dei due corpi coinvolti mentre interpretano l’azione; poi ancora, uno dei personaggi viene buttato giù da una finestra e servono quattro vignette verticali, affiancate nell’ultima striscia. Dalla prima alla seconda, abbiamo una transizione “da scena a scena”, poi tre “da azione a azione”, seguite da quattro che alternano “da momento a momento” e “da scena a scena”.
Il lettore davanti a un episodio del Daredevil di Miller mediamente può sedersi comodo e l’unico sforzo che deve fare è girare le pagine dopo qualche decina di secondi di lettura, e così fino alla fine: a cosa mostrare, a come interpretare quello che vedi, ci pensa Frank. Che, invece, richiede il tuo contributo per qualcosa di più sottile, ma lo faccio dire direttamente a lui, che in una frase ci spiega quello che lo lega intimamente all’arte di un altro grande maestro del fumetto, Hugo Pratt.
Frank Miller, 1991
I wanted to use a style where the reader had to do a great deal of
the work, where a pair of squiggles and a black shadow became an
expressive face in the reader’s mind.
Non è forse lo stesso concetto che ci esprime Pratt dicendo…
Il segno è ciò che il disegno diventa quando ci si mescola il pensiero.
Hugo Pratt
Ma continuiamo a scandagliare l’evoluzione di Frank Miller nel tempo. Soffermiamoci un attimo, su quella che è una caratteristica che i suoi detrattori gli imputano da sempre: non sa disegnare.
Possiamo dirlo dai, siamo soli qua io e te: quando si è ritrovato dover disegnare delle mani, o una forchetta, vicino a dei volti, ha sbagliato tutte le proporzioni, creando degli effetti sgradevoli alla vista (probabilmente dovuti al riferimento a fonti fotografiche diverse nell’elaborazione dell’immagine).
Ma pensa: qualcuno può forse confondersi sul fatto che quelle siano effettivamente mani? Che quella sia una forchetta? E poi tu, proprio tu: quanto tempo hai passato, su quella vignetta, quando hai letto quel fumetto?
D’altronde è lui stesso ad aver raccontato quanto gli sia stato fondamentale all’inizio l’uso di un manichino per muovere i personaggi, di quanta fatica fisica gli sia costata mantenere un ritmo mensile sincopato, tanto che dal numero 185 di Daredevil si è limitato a realizzare dei layout a matita affidando al prode Klaus Janson ben più di una classica “inchiostrazione”.
Cos’altro? Ah sì, Frank Miller “copia”. Ti ho mostrato in questo lungo viaggio quanto si sia ispirato a Will Eisner nel primo episodio tutto suo di Daredevil, ma andando a cercare tutte le citazioni, i rimandi, le ispirazioni che affastellano la sua opera, rischiamo di stare via per molto tempo e senza averne chiaro il perché.
Frank Miller copia, saccheggia, fa suo quel che gli serve per raggiungere gli scopi che si è prefissato. Guarda cosa può diventare un normale catalogo commerciale nelle mani dell’autore di Elektra Lives Again.
Ma forse non ricordi le regole suggerite da Wally Wood sull’argomento? Te le ripeto io:
Non disegnare quello che puoi copiare. Non copiare quello che puoi ricalcare. Non ricalcare quello che puoi fotocopiare, ritagliare e incollare.
Wally Wood
Tra l’altro citando Wally Wood non può che venirmi in mente la sua famosa pagina sulle “22 vignette che funzionano sempre”.
Il compito di confrontare questi esempi con le tantissime pagine del Daredevil di Frank Miller lo lascio a te, sono convinto ci sia da divertirsi.
Prendiamo L’ultima mano, di cui ho già parlato abbastanza diffusamente. Parlo di una delle sue storie più celebri, la (prima) morte di Elektra, ristampata in decine di volumi e anche come albo unico in copia anastatica. Queste sono tre tavole consecutive del fumetto, le hai probabilmente già viste almeno una volta.
Te ne sei accorto? Nella prima vignetta della prima tavola Bullseye ha i piedi incatenati. Nella terza vignetta della seconda tavola sferra un calcio all’agente che, sparando, gli ha spezzato le catene alle braccia. Solo nella prima vignetta della terza tavola, con la pistola che si è appena procurato, fa saltare la catena che gli legava i piedi. Come lo ha tirato quel calcio?
Ormai succede sempre che, quando qualche major chiede a Miller una copertina, si alzi un polverone di proteste, che ribadiscono l’accusa del “non saper disegnare”, augurandosi che la smetta di lavorare oppure accogliendole con spirito di comprensione falsamente empatico: “è tutta colpa della malattia”.
Parliamo di disegni le cui tavole originali arrivano a valere decine di migliaia di euro nel mercato collezionistico, su cui migliaia di fan e detrattori nel mondo si scannano sui social garantendo un engagement invidiabile per ogni azienda. Ogni disegno di Frank Miller, oggi, è un evento di per sé.
Non so cosa ne pensi, ma nella mia vita sono arrivato alla conclusione che le cose non si misurano mai sui gusti personali, ho sempre odiato frasi come “è bello quel che piace” e “i gusti son gusti”. Le cose, nel mondo materiale in cui viviamo, si valutano in base alla loro efficacia. E allora torno a L’ultima mano, un’ultima volta. Guarda queste tre pagine, la loro impaginazione asimettrica, le transizioni che reggono una lunga sequenza, passo dopo passo, vivi l’ultimo, straziante, abbraccio tra Elektra e Matt. Odia Bullseye con tutte le tue forze.
Il ritorno del Cavaliere Oscuro è ancora di là da venire, contemporaneamente a Daredevil sta disegnando la prima miniserie dedicata a Wolverine su testi di Chris Claremont, probabilmente stava già ipotizzando di lavorare a Ronin mentre Elektra Assassin e la graphic novel Love & War con Bill Sienkiewicz erano ancora dei soggetti confusi nella sua mente. Nelle prime pagine di quest’albo fa un errore pacchiano, che non è una cosa sostanzialmente ininfluente come sbagliare l’anatomia di un dito, ma quello che sarebbe considerato un errore grave in un qualsiasi corso di fumetto. Eppure, proprio come la mano sproporzionata o la forchetta troppo piccola, il fumetto non è la realtà (come dice ogni tanto Boris su queste pagine). Il fumetto “crea” una realtà, con le sue regole e il suo funzionamento interno. Frank Miller ha trovato quell’alchimia per cui le sue storie e i suoi disegni “funzionano sempre”, e Daredevil è un esempio formidabile per vedere un autore alle prime armi costruire un proprio mondo, estetico e narrativo, mattone dopo mattone, errore dopo errore, soluzione grafica dopo soluzione grafica.
E lo sai? Al netto di Scott McCloud, Thierry Groensteen e tutto quello che possiamo scrivere e dire su come si realizzi un’ottima storia a fumetti, in verità non c’è davvero nessun corso che te lo possa insegnare. Mai come nel fumetto, oltre alle chiacchiere per nutrire il mostro dei social media sempre a caccia di nuovi brandelli di carne da masticare e rigurgitare, quello che conta è il fatto e il fare. Una pagina dopo l’altra.