Fantasmi

Arabella Strange | Rorschach |

«Neanch’io sarò mai in grado di adattarmi ai paradossi della situazione presente. La prima tentazione sarebbe quella di inquadrare il discorso in una narrazione stancamente familiare: la questione del vecchio che non riesce a venire a patti con il nuovo, e che sostiene che le cose andavano meglio prima. Eppure è decisamente tale quadro – e la sua presunzione che i giovani siano automaticamente all’avanguardia nel cambiamento culturale – a risultare oggi obsoleto.»

Mentre scrivo sto ascoltando, ininterrottamente, Ghosts dei Japan. Se vi va, fatelo anche voi.

Volevo scrivere un post-it per (Quasi), poi non sono riuscita a fermarmi. Nonostante la sensazione di inadeguatezza, dopo l’occupazione della rivista nel mese di agosto io proverò ad infestarla.
Sono arrivata a Mark Fisher molto tardi, e adesso leggerlo sapendo che è morto mi fa sentire come se avesse abbandonato anche me. La vicinanza che sento proviene, per prima cosa, dal suo rapporto con la depressione, di cui ha scritto molto e che è la causa probabile – sto scherzando, è la causa e basta – del suo suicido, nei primi giorni del 2017, a 49 anni. Le persone che si suicidano mi sembrano tutte mie parenti, cugini lontani. La cosa formidabile che Mark Fisher ha fatto, e per cui lo avevo sentito nominare già mille volte, è stato rendere esplicito il legame tra depressione ed esperienza del capitalismo spinto. Realismo capitalista, del 2009, non l’ho letto. Non so dire se non l’ho ancora letto, o se non lo leggerò mai: l’idea che il capitalismo sia riuscito ad annichilire l’idea dell’anticapitalismo, rendendola buona per un intrattenimento che non riesce a creare una alternativa di lotta ma, solo, la sensazione di desiderare qualcosa di diverso che, ahimè, non c’è, perché il capitalismo è troppo formidabile… mi distrugge. Non so se davvero dice così, è quello che mi è sembrato di capire dalle recensioni, e mi basta per sentirmi mancare l’aria. Come spesso capita sto parlando di qualcosa che non ho esplorato a fondo, ma che mi ha fatto inciampare e cadere e adesso sono come Alice, cado senza fine dentro la tana del coniglio.
Mark Fisher era un filosofo, un esperto di letteratura, un critico musicale magico e spaventoso.

Oltre al fatto che avesse scritto Realismo capitalista e avesse parlato della pervasività del capitalismo nelle nostre menti, nelle nostre case, nei programmi che guardiamo (insomma, è l’acqua per noi pesci), lo conosco perché (cito l’articolo di Simon Reynolds in “The Guardian” e lo traduco malamente da me) sosteneva che «la pandemia di angoscia mentale che affligge il nostro tempo non può essere seriamente compresa, o curata, se viene vista come un problema privato di cui soffrono individui danneggiati». Il capitalismo ci disintegra, la sinistra si sente fallita in partenza, il futuro non c’è più. Ecco, io No future lo cantavo quando è uscito il disco dei Sex Pistols. Non avevo idea che il futuro volesse dire “tutto”. Anche il pianeta. Comunque, dopo anni che sento nominare Fisher, ho preso un suo libro perché sono una appassionata di letteratura soprannaturale e ho scoperto che ha scritto The Weird and the Eerie: lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo. Era una vita che volevo sapere esattamente che differenza c’è tra “Weird” e “Eerie”. Sono due parole inglesi che uso spesso ma non sono assolutamente in grado di tradurre appropriatamente – ed evidentemente ha deciso che fosse un territorio minato anche Vincenzo Perna, che ha tradotto il libro per Minimum Fax. Un amico di (Quasi) mi ha detto che quello è il motivo per cui non ha letto questo libro, perché non si sono dati la pena di trovare due aggettivi italiani adatti a essere usati come strumenti per parlare di un intero genere letterario: siccome è il mio genere letterario preferito ma non il suo (credo), in modo passivo aggressivo gli ho detto che la mia modesta opinione è che hanno fatto bene perché, se “Weird” è “strano”, mettermi via “Eerie” come “inquietante” non mi sembrava abbastanza suggestivo. Eeeeerieeee…. uuuuhhhh…. come fai a non pensare a un fantasma che geme da qualche parte, dietro le tue spalle, lontano ma non lontanissimo? Leggendo il libro di Mark Fisher mi è sembrato di capire che, alla fine, “Weird”sia rappresentato perfettamente da Lovecraft e dalle sue mostruosità che non fanno parte di questo universo, non sono neanche disegnate per inserirsi in questo universo, a meno di spaccarlo come serratura forzata con ubna chiave sbagliata. “Eerie”, invece, è qualcosa che non dovrebbe esserci ma c’è, oppure dovrebbe esserci ma non c’è. Un oggetto appoggiato per un attimo, che sparisce quando allunghi una mano per riprenderlo. Una voce che mormora in una stanza vuota, e non c’è nessuno, nemmeno nell’armadio o sotto il letto. La mano fantasma di Shirley Jackson in Hill House, secondo me, è un buon esempio. Però, sempre leggendo Mark Fisher, mi sembra di capire che la cosa che non dovrebbe esserci ma c’è più di tutte è sempre il capitalismo. Anche quando pensi che non c’entri niente, e non sto facendo la simpatica, è lì. Che pervade ogni cosa. Oggi ho pensato che la gente della mia età una volta era in pensione e aveva un sacco di tempo libero. Dov’è la mia pensione? Dov’è il mio tempo? Ecco, ho pensato poi, questo è eerie. Ho lasciato un attimo i miei diritti da boomer sul tavolo e quando ho allungato la mano non c’erano più.
Leggete il libro di Mark Fisher perché è uno scrittore stupendo e la sua mano da blogger si sente, non è mai noioso, ti viene subito voglia di commentare sotto, ma è morto. Che rabbia. E vista la mia storia personale non posso neanche dirgli «Ti sei sbagliato! Torna qui!». Insieme al futuro non c’è più neanche lui, è ovvio.

Il libro che sto leggendo ora è Spettri della mia vita: scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti. Ce l’ho in mano e posso citare delle frasi veramente scritte da lui (e tradotto per Minimum Fax ancora da Vincenzo Perna). Si apre con la scena conclusiva di Sapphire and Steel, Zaffiro e Acciaio, la serie tv bomba che guardavo con mia madre, che da noi è stata trasmessa fra l’ottobre del 1980 e il maggio del 1983. L’ultimo episodio, Una notte nel futuro, finisce con un cliffhanger. Il titolo come al solito è tradotto alla cazzo, perché nell’originale è The trap, la trappola. Ci sono Zaffiro e Acciaio, i due agenti che vengono inviati a risolvere problemi di linee temporali che si incrociano, che sono rimasti soli in un caffè degli anni Quaranta. Fuori dalla finestra si vede l’universo, in una «combinazione di Edward Hopper e René Magritte». «Questa è una trappola. Non siamo da nessuna parte, e sarà così per sempre.» È vero, perché poi hanno cancellato la serie. Oltre a rilevare che Zaffiro e Acciaio è legata a un periodo in cui la tv inglese produceva show che non andavano incontro ai gusti del pubblico, ma li creavano, Fisher presenta l’ipotesi che accomuna la trentina di brevi saggi-recensione di cui è il libro è composto, e cioè che «la cultura del Ventesimo secolo sia caratterizzata dallo stesso anacronismo e dalla stessa inerzia che affliggono Zaffiro e Acciaio nella loro missione finale. Ma che tale stasi sia stata sotterrata, sepolta sotto uan superficiale frenesia di “novità”, di movimento perpetuo. La “scompaginazione del tempo”, l’assemblaggio di ere precedenti, ha ormai cessato di meritare qualsiasi commento».

Il tardo capitalismo ha una retorica di velocità e innovazione che nasconde l’effetto devastante che ha avuto sull’arte, «gradualmente ma sistematicamente [privando] gli artisti delle risorse necessarie a produrre il nuovo», privandoci del welfare necessario a mantenere le persone il tempo necessario a pensare senza la spinta a produrre opere di immediato successo. Sull’esito, che dire? Le cose nuove ci sono, ma riescono a catturare il presente? O si limitano a rappresentarlo? Penso agli algoritmi narrativi, su cui spendo in binge watching molte ore ogni giorno. Della musica mi spiega meglio Fisher, che sul suo blog K-punk è stato un punto di riferimento e di intersezione per una generazione – ammesso che le generazioni esistano ancora – scrivendo di tutto ma, appunto, specialmente di musica, in un modo che trovo spaventoso e incantevole.

Fisher nota che sta venendo meno la distinzione fra passato e presente. Per esempio, la riflessione sui Kraftwerk è esemplare. «In musica il “futuristico” ha cessato da tempo di riferirsi a qualsiasi futuro che immaginiamo diverso: è diventato uno stile precostituito, esattamente come un carattere tipografico. Quando veniamo invitati a immaginare il futuristico in musica continuiamo a immaginare cose come la musica dei Kraftwerk, anche se quella musica è antica quanto lo era il jazz per big band di Glenn Miller nei primi anni Settanta», cioè quando i Kraftwerk si sono formati. E succede che, nel 1981, gli anni Sessanta, musicalmente, sembravano lontanissimi. Mentre adesso (il suo adesso, l’inizio degli anni Dieci) la musica riprende i suoni, gli arrangiamenti e perfino il suono crepitante del vinile del passato, creando uno straniamento per cui Fisher scopre solo dopo un po’ che Valerie di Amy Winehouse è in realtà la cover di un pezzo degli Zutons, e non viceversa, come lo stile dell’arrangiamento e i suoni sembrano suggerire. L’anacronismo contro cui lavoravano gli agenti Zaffiro e Acciaio non esiste più: è tutto miscelato, ripreso, imitato, citato. Alla fine Fisher mi spiega che l’hauntologia (hauntology) del titolo nasce da Derrida, che lo ha coniato (e io ho avuto un momento di panico, perché ho molti amici che citano Derrida ma io non ha mai letto niente, e non sono neanche sicura di esserne in grado, silly me) in Spettri di Marx: stato del debito, lavoro del lutto e nuova internazionale. È qualcosa che può esistere soltanto sulla base di una serie di assenze che lo precedono e lo circondano: è per Fisher è «l’azione del virtuale», dove lo spettro evocato non va inteso affatto come entità soprannaturale, ma come ciò che agisce senza essere fisicamente esistente. Ciò che non è più ma continua a esistere (la coazione a ripetere traumatica, per esempio): oppure ciò che non è ancora avvenuto, ma è già efficace nella sfera virtuale, una aspettativa che modella il comportamento attuale – mi sembra una specie di eerie temporale, insomma. Secondo Fisher, il realismo capitalista, «la diffusa convinzione che non esista alternativa al capitalismo – è stata ossessionata non dalla comparsa dello spettro del comunismo, ma dalla sua scomparsa». Più personalmente, Fisher dichiara che il periodo che va dal 2003 circa al presente (il suo, del 2010 e rotti, che per noi è passato) «sarà considerato (…) la peggior epoca della cultura popolare fin dagli anni Cinquanta».

Hauntologia è la storia degli spettri della vita di Mark Fisher. Per molti versi, anche della mia.

Alla fine di tutto io vorrei che leggeste questo libro anche solo per scoprire come racconta la musica. È un filosofo, parla di società e politica, ma che pura meraviglia le righe in cui descrive Ghosts dei Japan, i suoni, la voce di David Sylvian – non ricordavo assolutamente il brano, sono andata ad ascoltarlo, e mi sono imbattuta davvero nella «percussione che ricorda delle vertebre metalliche percosse con garbo».

Il fantasma principale, in tutto ciò, non è tanto il futuro perduto, la fine dell’innovazione nella musica (speriamo temporanea? Sembra fisiologica), è quello di Mark Fisher, che non ho mai conosciuto, che ha temporaneamente deciso di haunt me, infestarmi coi suoi libri che leggo a fatica tranne quando parla di musica o letteratura fantastica, ma continuo a girare le pagine perché arrivano i momenti di sofferenza pura, o di gioia immensa, e brividi, e brividi.

«Just when I think I’m win-ning
when I’ve broken every door
the ghosts of my life
blow wilder
then the wind».

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(Quasi)