Wolverine il Selvatico

Paolo Valeri | Antropocomics |

Il mostro ti spaventa ma non nasce per spaventarti. Ti sfida ma non viene partorito per farti superare i tuoi limiti. Può terrorizzarti e destabilizzarti ma non è stato creato per permetterti di confrontarti con l’ignoto. Il mostro è un’ombra, anzi un perimetro. Il segnale di confine. Una boa, un recinto. Il mostro nasce per definire cos’è l’umano. Creiamo mostri per espellere dall’orizzonte di ciò che siamo quello che riteniamo non debba appartenervi. Lo facciamo dall’alba dei tempi e continuiamo a farlo, i mostri si moltiplicano a guardia della nostra antropopoiesi anche mentre ne stiamo parlando.

Alcune di queste creature stanno lì sulla soglia da moltissimo tempo. Non so se John Ney Rieber fosse consapevole di essere sopra quella faglia quando ha scritto Wolverine: killing, ma ci era eccome. È il settembre del 1993 e in Italia stiamo per essere invasi da un’altra ondata di mostri, quei dinosauri che Jurassic Park cristallizzerà nell’iconica caccia dei velociraptor – un essere che infatti, così per come viene raccontato nel film, non è mai esistito. Oltreoceano escono le tavole di questa storia autoconclusiva, senza legami di continuity ma inserita nel mondo ordinario dei mutanti, e che ha per protagonista il più tozzo e rognoso degli X-Men.

La storia è semplicissima: Logan spinto da una certa insofferenza cerca un po’ di solitudine e decide di farsi un giro in Tibet, in anticipo di tre anni sul colossal con Brad Pitt. In realtà però la sua irrequietezza è indotta: c’è un tizio, appellato come il Tribuno, che sta influenzando i suoi pensieri per attirarlo proprio lì. E il lì in questione è l’enclave di una setta di Inumani devota al mandato, la loro legge insindacabile. Nirissa, a capo della setta, ha deciso che deve far copulare sua figlia Serra con Logan, così da avviare una progenie in grado di sopravvivere a tutte le sfighe della vita che, si sa, sui monti innevati del Tibet stanno dietro l’angolo. Tra guardie cinesi, spiriti guida e uomini serpente il nostro giunge all’enclave e si affeziona davvero alla ragazza. Ma a questo punto Tane, il Tribuno geloso e possessivo, sbrocca male e Logan lo deve rimettere al suo posto.

A dispetto della trama esile il racconto imbastisce una narrazione sospesa tra dimensione onirica e crudo realismo, quasi un saggio di filosofia pragmatica attorno alla figura di Wolverine che il disegno stracciato di Kent Williams rende palpabile e inafferrabile allo stesso tempo. Il tutto viene impreziosito dagli scarti cromatici che Sherilyn Van Valkenburgh imprime e mescola ad ogni cambio d’ambientazione, sapienti macchie di colore che si stagliano sopra una base desaturata.

Ma di cosa parla Killing? Parla di cosa siamo noi esseri umani. La domanda centrale attorno a cui ruotano le azioni di Logan è quella che un vecchio saggio, una specie di spirito della foresta, insiste nel sottoporgli: «A cosa servono gli artigli se non a uccidere?»
A cosa serve la violenza se non ad annientare? Come dire: a cosa servono i mostri? Come loro ci dicono cos’è l’umano, così la violenza circoscrive lo spazio lecito della socialità.

Tutto il fumetto è giocato sulle dicotomie. Rieber apre contrapponendo (l’allora) giovane Tom Cruise al vecchio Humphrey Bogart. Poi contrappone città e mondo rurale, vediamo Logan scappare dalla metropoli verso Westchester e poi ancora più fuori fino ad arrivare in mezzo alle montagne innevate. Nel mezzo della storia esplode anche la dicotomia madre/figlia e persino lo scontro tra Wolverine e Tane è giocato iconograficamente sulla contrapposizione tra naturale e artificiale, visto che il Tribuno si presenta agghindato con protesi che sputano cavi utili a potenziarne la capacità di influenzare le percezioni altrui. Lo stesso conflitto interiore che attraversa Logan è giocato sull’opposizione uomo/animale, tanto che la risposta alla domanda «a cosa servono gli artigli se non a uccidere?» rappresenta proprio il passaggio dall’uno all’altro.

Su questa linea di demarcazione tra umano e animale si è costruita una figura centrale in tutto il folklore europeo e non solo, si tratta dell’Uomo Selvatico. Il Selvatico vive ai margini, lontano dalle aree urbane. È coperto di peli, a volte è un gigante, altre volte un nano. È amico dei buoni e intransigente coi malvagi, ferino nelle movenze e dotato di forza e resistenza superiori. Inutile spuntare altre caselle per dire che Logan queste caratteristiche le ha tutte. Rieber in qualche modo lo percepisce perché lo mette proprio lì, a fare da cartina di tornasole tra l’antico e il moderno, tra il naturale e l’artificiale, tra la civiltà e la natura, qualsiasi cosa questa parola significhi.

Il Selvatico è una delle poche creature che ha attraversato tutta la storia della civiltà euro-asiatica, sovente si presenta come araldo della dea madre, entità femminile infinitamente più potente. Almeno in origine appaiono legati a quei luoghi che Rudolph Otto chiama numinosi, spazi in cui si avverte una presenza extra-razionale, invisibile ma potente al punto da incutere terrore e affascinare insieme: cascate, caverne, cenge.

Nascono, con ogni probabilità, in un punto del tempo in cui sia la costruzione che i rapporti tra i generi erano profondamente diversi. Anteriori a qualsiasi dio personificato si rivelano indissolubilmente legati a due tipi di pratiche, due dispositivi basilari per la costruzione delle prime cellule sociali. Riconoscere alcuni elementi naturali come dotati di agency, il supposto animismo, e rispecchiarsi come gruppo umano nel comportamento di un qualche tipo di animale specifico, il cosiddetto totemismo.

Il Selvatico non è né uomo né animale e si muove all’interno di un mondo in cui gli elementi naturali sono “vivi”, così diventa sia l’archetipo che la mitizzazione per il ruolo dello sciamano vestito di pelle d’animale. È così che ha attraversato la civiltà greca – Eracle sotto la pelle del leone, il dio Pan – e quella romana – i Silvani e i Fauni. Ma proprio l’Impero Romano, anch’esso sorto tra il totem della Lupa e l’animismo che le Vestali riversano sul fuoco, ha spinto progressivamente il bilanciamento dei sessi incarnato dal rapporto tra la dea e il suo paredro ai margini per fare spazio a un deciso primato in campo politico del maschile, così come è inteso largamente ancora oggi.

Infatti Killing mette in scena un matriarcato, anche se oppressivo. Se la povera Serra viene oggettificata da tutti proprio a partire dalla sua stessa madre, Tane incarna la necessità tutta patriarcale del controllo nel suo tentativo di scavalcare la matriarca e nel suo senso di possesso verso la ragazza. Infatti Williams mescola con arguzia le caratteristiche di genere per rendere graficamente il Tribuno una figura ibrida: uomo glabro e col rossetto sulle labbra, man mano che si avanza nella narrazione si fa sempre più “maschio”, fino allo scontro finale. E a Wolverine spetta il compito, non di proteggere, ma di liberare il femmineo.

Per tutto il medioevo sempre spinto un passo più indietro ma senza mai essere cancellato. Mentre la dea si frammentava nelle figure di ninfe, sirene e anguane, il Selvatico si ridefiniva come presenza autonoma e benevola, guardiano delle soglie e dei passaggi. Basta pensare che la sua tradizione si è ritirata dall’originaria presenza estesa a tutti i territori pianeggianti fino a diventare oggi un retaggio del folklore tipicamente legato all’arco alpino. Qui è tradizionalmente rimasto colui che porta la cultura: l’arte casearia, la metallurgia, la distillazione dei liquori. Insomma, il Selvatico viene dalla natura ma porta la civiltà. Allo stesso modo Logan alla fine della storia apre alla possibilità di un’alternativa all’istinto. Non solo, invita Serra a seguirlo e finisce per aprire alla possibilità che lei, e la femminilità che incarna, fluiscano nella civiltà.

Se l’Umanesimo e il Rinascimento hanno trovato l’Uomo Selvatico sul confine del paganesimo, la modernità ha portato un tipo di “uomo” nuovo. La stessa morale cristiana è diventata un dispositivo più rigoroso, necessario a disegnare nuovi confini e quindi bisognoso di nuovi mostri. Di fatto si ribalta l’ordine gerarchico iniziale: la dea madre, ormai derubricata a strega, viene messa al servizio dell’Uomo Selvatico ora identificato col Diavolo stesso.

Schiacciato sotto i nomi di mille demoni diversi la creatura dei boschi dovrebbe sparire, invece lo ritroviamo ancora. Nel “buon selvaggio” di Rousseau, nel Sasquatch degli Appalachi e nell’ideale che ha guidato la mano di Thoreau nella scrittura di Walden. È una specie di fattore rigenerante! In qualche modo, attraverso Roy Thomas, Len Wein, John Romita Sr. e Herb Trimpe, il Selvatico torna anche sotto il costume di Wolverine. Com’è possibile? Come ha fatto a sopravvivere? Dove ha potuto rifugiarsi in un mondo totalmente antropizzato? È lo stesso Logan a rivelarcelo nelle ultime vignette di Killing, mentre si fa sempre più minuscolo nel candore del nulla e afferma: «Casa è dove vai quando non hai un altro posto in cui andare».

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