Sono finito a vedere Speak no evil per caso. Da tempo, io e un amico ci eravamo promessi un cinema, ma non si trovava mai il giorno buono per entrambi e così, appena ne abbiamo beccato uno, in sala non c’era più nulla che ci ispirasse. Ci siamo accontentati allora di Speak no evil (in fondo c’era James McAvoy e le atmosfere sembravano in qualche modo passabili) e alla fine ci è andata bene.
Prodotto negli Stati Uniti e diretto e sceneggiato dall’inglese James Thomas Watkins, il film è il remake dell’omonima pellicola del 2022, di produzione danese, diretta da Christian Tafdrup, che ne è anche sceneggiatore insieme al fratello Mads Tafdrup.
A film finito, ero un fascio di nervi. La storia è bella e la trama thriller che si tinge di horror-splatter sopra le righe, fa il suo. Attori bravi (e molto famosi: Mackenzie Davis, Scoot McNairy e, appunto, McAvoy), regia, fotografia e montaggio buoni, per un racconto che attraverso il MacGuffin della critica alla società benestante, si diverte come un pazzo a creare tensione e a farla esplodere nel finale catartico. Nulla di troppo nuovo, insomma. Sentivo però che quella storia aveva in sé molto di più di quel che avevo appena visto. Qualcosa che, custodito nei personaggi e nelle situazioni, era rimasto sottotraccia nel film.
Quando, il giorno seguente, ho aperto Prime e ho guardato la versione originale danese, ho capito cos’era.
Ecco, Speak no evil, quello del 2022, è una bomba. Proprio nel senso che è qualcosa che potenzialmente può esplodere e lacerare, quantomeno la coscienza. Al contrario della versione americana, carina, divertente e se vogliamo anche leggermente inquietante (ma nulla di più), l’originale danese è un treno diretto nello stomaco. E qui la “critica alla società benestante” è davvero il centro di tutto, non solo un pretesto. Se uscito dal cinema avevo i muscoli contratti, quando ho chiuso Prime, avevo la nausea e la voglia di vomitare.
La storia dei due film è semplice e, fino a tre quarti di pellicola, identica (proprio nel senso che la versione americana ha ricalcato quasi tutte le situazioni, senza nemmeno far lo sforzo di cambiare le battute): una coppia benestante con una figlia piccola, incontra in vacanza un’altra coppia con un bambino con problemi di comunicazione e diventano amici. O meglio, la seconda coppia, che vive in una casetta solitaria immersa nel bosco e che incarna valori “antisociali” e “selvaggi”, irretisce la coppia borghese, e la convince a passare un weekend da loro, “in mezzo alla natura”. Già da queste premesse si può immaginare come vada a finire la questione. Anche se, e qui sta la cosa interessante, i finali dei due film sono decisamente diversi (ATTENZIONE: da adesso partono gli SPOILER).
I “selvaggi” sono in realtà due serial killer che da tempo attuano lo stesso format omicida: invitano una coppia con un figlio a casa loro, giocano con le prede per un paio di giorni e alla fine ammazzano gli adulti e si tengono il nuovo figlio, tagliandogli la lingua e sostituendolo al “vecchio” (che quindi non aveva “problemi di comunicazione”, ma gli mancava direttamente la lingua) che nel frattempo viene ucciso.
Nella versione americana però, la coppia borghese riuscirà a sfruttare la situazione mortale in cui si è cacciata, per superare la propria crisi matrimoniale e per riavvicinarsi a un’interiorità che sembrava perduta nel caos della vita contemporanea. E soprattutto, a uscirne viva. Alla fine, insomma, i borghesi ammazzano i serial killer e salvano pure il figlio delle vittime precedenti, scappando, quasi illesi nel corpo, ma non nello spirito: in quello sono rinnovati. Dopo l’inferno che hanno vissuto, una nuova vita più consapevole li aspetta.
Nella versione danese invece, la vicenda va in tutt’altro modo. La coppia borghese, completamente inerme davanti alla determinazione della coppia selvaggia, soccombe totalmente: alla figlia viene tagliata la lingua e loro vengono lapidati a morte in una cava abbandonata. In una scena molto cruda, la coppia borghese, senza più i vestiti e senza nemmeno la forza o l’idea di ribellarsi, né di correre in salvo della figlia, viene uccisa a sassate dalla coppia di assassini.
Su Wikipedia, la voce “Lapidazione” dice, in relazione al suo uso nell’antichità: “La finalità di tale pratica era sostanzialmente l’espiazione pubblica della colpa del reo ed anche la formalizzazione del diritto alla vendetta”. E questo è ciò che mette in scena il film di Tofdrup: la vendetta del mondo “libero” – rappresentato dalla coppia selvaggia, che rifiuta il lavoro e le imposizioni sociali e che mangia, fa sesso e vive allo stato brado delle pulsioni, incentivandole invece che reprimerle – sul mondo “incatenato” e “schiavo” della coppia borghese, confusa e sperduta in una realtà che non capisce e che conduce sempre più lontani dai propri sentimenti.
Nel film di Tofdrup, al contrario di quello di Watkins, tutto è raccontato con toni bassi e pacati (la scena iconica del film, con il borghese e il selvaggio che urlano dall’alto di una collina, in una sorta di primal scream, viene inizialmente ripresa da lontano, per poi avvicinarsi di colpo e poi di nuovo allontanarsi), senza eccessi, né di tensione né di violenza. Solo gli ultimi dieci minuti si permettono di esplodere. E quando lo fanno, anche chi guarda si sente morire, percosso dalle pietre con cui la vita selvaggia può distruggere in ogni momento quella istituzionalizzata.
Nel film americano invece, complice anche la recitazione sopra le righe di McAvoy, tutto urla fin dall’inizio, e nemmeno per un attimo ti viene il dubbio che la coppia di serial killer non sia tale. Ma in quella versione, come si diceva, il finale è contrario: c’è salvezza, c’è redenzione, c’è possibilità di sopravvivenza al mondo oscuro e inconoscibile della natura. Male e bene sono più evidenti e non ammettono sfumature.
La differenza nell’approccio generale, così come nei due finali, conoscendo lo stile cinematografico dei due paesi (potremmo dire: Lars Von Trier vs Steven Spielberg) forse non stupisce, ma fa decisamente pensare. Il personaggio di Paddy (il selvaggio), quando è interpretato da James McAvoy, è irruento, impositivo, urlatore e estremo in ogni suo gesto, dagli occhi spesso vitrei e arrossati alla muscolatura pompata quasi da supereroe. Ed è, soprattutto, armato fino ai denti, con pistole, fucili e coltelli. Il Paddy dell’olandese Fedja van Huêt è invece calmo, sibillino, imponente più per carattere che per corporatura e non ha mai un’arma in mano, nemmeno alla fine, quando obbliga la coppia borghese ad assistere alla mutilazione della figlia. Il selvaggio di van Huêt, per imporsi usa solo la presenza, le parole, gli sguardi e la sua morale oscura, violenta e adamantina che immobilizza i benpensanti. Così, quando alla figlia viene tagliata la lingua, i due genitori borghesi non riescono a muovere un solo muscolo, incatenati al senso di colpa implicito alla loro esistenza.
Questa grande differenza di impostazione, da una parte carica di significato la frase manifesto delle due opere, mentre dall’altra la rende innocua, didascalica: «Perché ci fate questo?», chiede il padre borghese Bjorn-Ben. E il killer risponde: «Perché ce lo permettete». Nel film americano questa battuta è la frase di un vero “bad guy”, di un cattivo invasore, di un terrorista che viene a mettere bombe nelle case tranquille, buone e felici della pax americana. Nel film danese, la stessa frase è una condanna, un monito, una realtà irrevocabile.
Il personaggio di James McAvoy, alla fine, viene ucciso con una pietra dal bambino a cui aveva tagliato la lingua: il bimbo, a cavalcioni del mostro morente, gli sbatte ripetutamente sul volto il grosso masso, urlando finalmente di liberazione, mentre McAvoy, appena prima, gli dà la sua diabolica benedizione: «That’s my boy», gli dice guardandolo negli occhi, come se il bambino avesse ora ereditato la spietatezza selvaggia dell’uomo. Nel film americano infatti, il male sembra diffondersi per via maschile, con un sottotesto di critica alla società patriarcale in cui i due uomini, selvaggio e borghese, sono solo due facce della stessa medaglia: il primo si impone con la forza sulla sua compagna (che, interpretata da Aisling Franciosi, non è altri che la figlia delle prime vittime di Paddy, legata a lui da un rapporto malato di sudditanza), mentre il secondo, debole e rancoroso, vive alle spalle della moglie come un parassita emotivo. Alla fine, sarà proprio la moglie borghese a salvare la situazione e la divisione dei ruoli progettata da Watkins nel remake, dunque, non è solo tra selvaggi-cattivi e borghesi-buoni (anche se inconsapevoli), ma anche tra borghese-uomo-inetto e borghese-donna-risoluta e tra selvaggio-uomo-prevaricatore e selvaggia-donna-inerte.
Fedja van Huêt invece, il Paddy della versione danese, dopo aver lapidato i due borghesi, abbraccia teneramente la sua amante-complice (interpretata da Karina Smulders e qui totalmente in comunità di intenti con l’uomo) e insieme guardano, con occhi seri, malinconici e inquieti, quel che hanno appena compiuto per l’ennesima volta. La loro vendetta.
Certo, anche nel film danese questi personaggi sono due pazzi, due assassini, due mostri, così come nel remake americano. Ma, se fino a quegli ultimi dieci minuti lo spettatore non poteva aver dubbi su chi fosse nel giusto (pur disprezzando quel tanto che basta la coppia borghese, anche solo perché molto simile a lui), nel finale Tofdrup gioca sporco e gli fa mettere in dubbio la cosa: chi sono i mostri dunque? I selvaggi o i borghesi? Chi parla chiaro e vive la vita che vuole, o chi usa continuamente eufemismi, nel parlare come nell’agire? Loro o noi?
Inaspettatamente, le due pellicole si comportano allora come fossero un unico metatesto. Il film americano, perbenista, rassicurante e sguaiato, incarna la coppia borghese che crede che in fondo tutto finirà per il meglio e che i buoni propositi e il vegetarianesimo inconsapevole ci salveranno dal disastro ambientale (il tema è cardinale per il personaggio della moglie benestante, interpretata da Mackenzie Davies e da Sidsel Siem Koch), mentre il film danese, apocalittico, senza remore e silenzioso, incarna la coppia selvaggia, i serial killer che vengono a dirci che non c’è scampo. Che moriremo lapidati dalla nostra mostruosa supponenza.
Scrive fumetti e scrive di fumetti, poi scrive anche canzoni e le canta, insieme a quelle degli altri che gli piacciono. Il suo sito è www.francescopelosi.it.