The box man di Imiri Sakabashira

Alessandro Lise | post-it |

Mi siedo sulla poltrona bianca, di pelle. Guardo i pattern del tappeto, la finestra, il quadro nelle cui forme astratte mi sembra di intravedere un personaggio di Hugo Pratt. Stiamo in silenzio. La mia gamba destra non la smette di muoversi. Dopo qualche minuto insopportabile, dico: «Mi è piaciuto un libro». La psicologa sbuffa e alza lo sguardo al cielo. La vedo con la coda dell’occhio. Dice: «Un fumetto, immagino. Non avevamo detto che…». «Sì», la interrompo, «ma questo è diverso». «In che modo è diverso», mi dica, rotea la mano destra: «Per caso è un libro che hanno letto in più di cinque persone?». Scuoto la testa. «Ah! Il solito capolavoro sconosciuto, dunque!». «Sì!», dico, trattenendo l’emozione, «Sì!», «E di cosa parla?»

Ecco, io non lo so di cosa parla, The box man, ma se dovessi paragonarlo a un film direi Mad Max: Fury road. Ci sono dei personaggi che si muovono: un uomo (nano) con una calzamaglia rossa, un kappa, un rider in vespa (il box man), un personaggio con la testa a limone: ed è tutto qui. A un certo punto il nano con la calzamaglia rossa (che si allunga e si restringe come vuole, dice il titolo del capitolo) viene catturato da un robot dalla testa di tigre. Dalla bocca del robot esce un mostriciattolo che prende un’estremità della calzamaglia ed esce di scena; arriva il kappa, prende l’altra estremità e la porta con sé per trentacinque pagine. In una radura incontra un coniglio con tre occhi. Il kappa e il coniglio non si stanno simpatici, il kappa lega la calzamaglia alla statua di un bonzo e si prepara a menare le mani. Nel frattempo, al punto di partenza, un robot con la testa di rana taglia l’altra estremità della calzamaglia del nano che si libera dalla presa del robot con la testa di tigre. La calzamaglia è elastica e il nano scivola verso il kappa, ripassando tutti gli ambienti che abbiamo già visto prima, in parte modificati dopo il passaggio del kappa, per altre 21 pagine. Quando il nano arriva alla fine della calza, vediamo il kappa sconfitto. La storia finisce.

Vivo la lettura come un trauma. Non so se è una cosa banale da dire, o se è solo un problema mio, ma so questo: il piacere – o l’orrore – che provo per certi libri non arriva all’ultima pagina, ma scatta a un tratto, di colpo, senza evidenza, alle volte dopo una vignetta, o dopo una frase; altre volte, per una sequenza, o un colore, o un dettaglio nascosto ai margini della pagina. Con “senza evidenza” intendo dire che non mi capita quasi mai di dire: «Ohibò, da qui, con precisione millimetrica, ho compreso che questo libercolo è una figata». Non è un’epifania, ma una consapevolezza crescente. A un certo punto sento, a pelle, montare la repulsione, o la simpatia. O, meglio, la promessa di repulsione, la promessa di simpatia. 

«E allora, mi dica, quando è iniziato a piacerle questo Box man». Non ho il coraggio di dirle che non lo so. Risalire all’origine, indicare un punto preciso sembra sempre un po’ sminuente. È quando l’uomo con la calzamaglia scivola attraverso il mercato? O quando l’uomo vestito da Elvis si immagina di scopare con l’imbottitura a forma di donna pesce della sua poltrona? Oppure quando il kappa fa passare la calzamaglia attraverso una vespa parcheggiata? O quando l’uomo con la calzamaglia rossa nutre con del pesce gatto due scienziati concentrati a giocare con dei kaiju? «Non lo so», dico. La psicologa alza le spalle, come a dire lo sapevo, un’altra seduta che si riduce in un nulla di fatto.

È pieno di mostri, The box man, animaleschi, alieni, con tute, giganti, volanti, anfibi, viscidi, striscianti… Sicuramente uno dei piaceri di questo libro è nello sfogliare e risfogliare le pagine piene di consistenze diverse (spesso gelatinose), come se fosse il quaderno di un collezionista incontenibile. La verità è che è proprio la narrazione a essere il pezzo forte: la creazione della tensione solo attraverso l’attesa e la ripetizione. Quanto potrà allungarsi la calzamaglia? Come un elastico che si tira, ogni volta che vediamo il kappa proseguire verso la pagina successiva pensiamo che sarà arrivato a destinazione o che la calza si strapperà. E, invece, no: è nella durata che si misura la nostra impazienza, il desiderio che accada qualcosa. E, quando accade, è spiazzante, perché ci rendiamo finalmente conto che non è lì che si consuma il piacere.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)