In cui l’incauto scrivano si trova confuso, come il protagonista del romanzo, dalla prosa di Long London, cerca di interpretare quei paragrafi e pensa di aver identificato alcuni riferimenti (ma è probabile che sia tutto un suo viaggio mentale…).
“A London Walk” / “Un passeggiata per Londra” (Seconda parte)
Martedì scorso avevamo lasciato The Great When, l’ultimo romanzo di Alan Moore, con un cliffhanger: Dennis è inseguito da un paio di criminali e, pensando di mettersi in salvo, oltrepassa il cancello in legno di un giardino interno trovandosi catapultato a Soho Entire, un luogo completamente diverso che si trova nella Londra di un’altra dimensione. Questo cambio dimensionale non riguarda solo il protagonista, Moore lo rende effettivo anche nella scrittura, sia da un punto di vista visivo che stilistico.
La parte visiva è costituita da due elementi: l’utilizzo del corsivo per i passaggi ambientati nella Long London (cioè la realtà parallela), rispetto al carattere tondo per la realtà normale della Short London. Non è una soluzione innovativa: è uno dei metodi più comuni per indicare questo tipo di cambi (l’esempio più conosciuto, utilizzato con metodo estensivo è L’Urlo e la furia di William Faulkner, dove i continui salti temporali vengono indicati con il cambio tra caratteri corsivi e caratteri tondi); l’altro è l’impostazione dei paragrafi, che non finiscono mai con il punto fermo e non iniziano mai con la lettera maiuscola.
Dal punto di vista stilistico, notiamo un doppio binario, simile a quello grafico che ho appena illustrato. C’è un cambio, anche questo abbastanza comune, dall’uso del passato nella Short London, a quello del presente nella Long London; come se Moore volesse trasmettere l’idea che questa realtà esiste sempre in questo istante, in questo presente. L’aspetto particolare e originale sono invece il montaggio e la resa delle scene: come anticipato, le situazioni che si susseguono, grazie alle interruzioni dei singoli paragrafi, vivono di un’unione (data dalla mancanza del punto fermo, che non crea una cesura tra una porzione di testo e l’altra) ma, allo stesso tempo, anche di una frattura e di una contrapposizione (queste parti di testo sono presentate già iniziate, per cui ci mancano letteralmente dei pezzi per poter seguire la narrazione come un costante flusso continuo). Non esiste fine o inizio. Le situazioni si susseguono, contrapponendosi l’una all’altra perché la mancanza dei segni di interpunzione convenzionali (il punto fermo e la lettera maiuscola), crea una situazione di sfasamento: una situazione non finisce ma è immediatamente seguita da quella successiva, che quando appare è già iniziata.
Accomunerei questa costruzione al montaggio di un film in cui vengono esclusi dei fotogrammi, più che all’interruzione, tipica del fumetto, creata dallo spazio bianco tra una vignetta a quella successiva. Quello a cui ci troviamo di fronte è un vero passaggio, quasi schizofrenico, da una situazione o da un momento a quello successivo. Leggendolo, soprattutto per un elemento che spiegherò più avanti, il pensiero mi è andato spontaneamente al Tetsuo: The Iron Man di Shinya Tsukamoto, dove il personaggio corre freneticamente nelle strade, ma qualcosa sembra mancare nella rappresentazione della sua corsa. Che siano fotogrammi, mancanza che rende il movimento a scatti, o che sia una velocità diversa tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda, c’è lo stesso effetto straniante che ho ritrovato in queste pagine. Moore reinventa il ritmo e l’approccio per sottolineare, ancora una volta, la differenza di quel luogo rispetto al nostro. Non è solo un’altra dimensione, come abbiamo visto in innumerevoli romanzi, fumetti o film: è un mondo con regole diverse, che di conseguenza deve essere trattato in modo diverso. È l’approccio tipico dello sceneggiatore e scrittore: prendere situazioni convenzionali, ma trasformarle in qualcosa di nuovo grazie a una rielaborazione concettuale.
La prosa utilizzata in questi passaggi è diversa da quella che abbiamo letto finora. Nel prologo abbiamo avuto una narrazione piuttosto barocca, in cui il gioco costante era non fornire nessuna spiegazione, dando per scontato che sarebbe stato il lettore, se voleva capire quello che stava accadendo, a informarsi per comprendere quali erano le diverse situazioni storiche descritte. Poi per tutto il primo capitolo e fino a questo salto dimensionale, Moore ha alternato uno stile quasi da libro per ragazzi, usato per esprimere e descrivere i dubbi e le azioni dal punto di vista del giovane protagonista, a una scrittura più lineare e oggettiva per le camminate del protagonista.
Adesso cambia di nuovo stile, adattando la narrazione a questa nuova ambientazione.
Il linguaggio torna a essere immaginifico ed esagerato: la rappresentazione di questo “altro mondo” non è, banalmente, una versione alternativa di qualcosa che conosciamo come la nostra realtà, in cui le differenze non sono così sostanziali. Qui sono gli stessi elementi “comuni” ad apparire alieni e ad assumere connotazioni diverse: ogni oggetto sembra dotato di vita propria, ogni cosa è composta da elementi diversi da quelli che li compongono nella nostra realtà (per esempio: ci sono farfalle fatte da pagine di riviste pornografiche dalle foto sgranate e la pavimentazione delle strade è d’oro). Anche il linguaggio utilizzato sembra differente, quasi a (ri)creare una lingua per rendere l’idea di questo mondo (una situazione che mi fa tornare in mente la lingua di Crossed +100), in cui – come osserva anche Dennis- sembrano non esserci parole o concetti.
Quindi che cosa sta accadendo? Se parliamo di eventi specifici, non succede molto in queste poco più di dieci pagine che portano alla fine del capitolo. Quando Dennis attraversa il confine tra una dimensione e l’altra, prova un senso di malessere fisico. La cadenza delle parole si fa più concitata, creando una comunanza tra quello che prova e sente Dennis, e quello che gli sta avvenendo attorno e che ci viene descritto. Tutto quello che lo circonda non sembra più avere alcun senso e poiché tutto quello che avviene lo vediamo e percepiamo attraverso il punto di vista del ragazzo (sebbene questo libro non sia narrato in prima persona), al momento non è chiaro se queste impressioni di cui il giovane ci fa partecipi siano davvero così surreali, oppure non si tratti soltanto della sua difficoltà a relazionarsi con la nuova realtà in cui è finito: uno scenario urbano diverso, anche da un punto di vista acustico; tutti gli oggetti in movimento; insetti che lo tagliano con la carta di cui sono composti; edifici che si decompongono per poi rigenerarsi. Nota che qualcosa di molto veloce si sta dirigendo verso di lui: è Maurice Calendar, che appare ancora più gonfio e sfatto di quanto l’avesse visto il giorno prima. Il nuovo arrivato lo informa che si trova nella vera Londra, e non nella “Short London”, e che lo deve riaccompagnare in fretta a casa, prima che il Grande Quando gli crei degli scompensi mentali. Dennis gli dice, come gli aveva suggerito l’amico John, che vuole andare a Street Fleet e a quel punto l’uomo dimostra di avere un “potere speciale”: lo afferra e iniziano a muoversi a velocità altissima, ricreando – più che un effetto di scie ad alta velocità tipiche del supereroe Flash o di quello che si vedeva nel film Tron – quella sensazione di spaesamento e di frammentarietà, a cui accennavo prima quando parlavo di Tetsuo.
Così facciamo un nuovo giro per le vie di Londra, partendo da Soho Entire e girando per diverse zone, che hanno solo una vaga somiglianza con quelle della realtà “normale”. Questo capitolo, come in parte quello precedente, è fondato sul movimento, sull’esplorazione della città, sui suoi quartieri, sulla sua pianta che permette a Dennis e al suo nuovo accompagnatore di spostarsi in continuazione (si stanno muovendo sugli Indici di Charing, da quella Charing Cross, la piazza centrale di Londra, da cui vengono calcolate le distanze all’interno della città). Il titolo del capitolo quindi non solo fa riferimento al libro inesistente del reverendo Hampole, ma mette in pratica quanto indica. Una situazione simile alla famosa sequenza che aveva creato in From Hell, con la differenza che ora Moore non ci serve su un piatto d’argento le spiegazioni di quello che la nostra guida ci fa vedere, ma ci invita, se ne abbiamo voglia, a cercarcele da soli. Io non ho provato a farlo, anche perché non ho la necessaria conoscenza di Londra, ma sono sicuro che le vie che ci indica in modo così preciso, il percorso che i personaggi fanno non è scelto casualmente e ha dei significati, anche semplicemente storici, che mi sfuggono completamente. e come a me, a buona parte dei lettori.
Per esempio, mentre si muovono ad altra velocità, l’uomo pronuncia, senza apparente motivo, il nome di due scrittori, Thomas de Quincey, famoso soprattutto per i suoi libri Le confessioni di un mangiatore d’oppio e L’assassinio come una delle belle arti, e l’immancabile Arthur Machen. In realtà, quando dice i loro nomi, stanno passando vicino a dei luoghi importanti per la loro biografia: passano accanto alla via dove abitò De Quincey la prima volta che venne a Londra; mentre per quanto riguarda Machen, passano vicino alla strada dove, secondo la sua autobiografia Far off Things, una sera ebbe una visione (nel concetto di contemplazione del misticismo cristiano) della stessa città di Londra.
C’è uno scambio di battute tra Maurice e Dennis che diventa utile per capire meglio il posizionamento dei personaggi, come fossero i pezzi di una scacchiera: lui e l’uomo dalla scarpa di ferro sembrerebbero far parte dei “buoni”, sono intenzionati a riportare il libro inesistente nella Long London e non sono in combutta con Comer, che sembra voler mettere le mani sul volume per dei motivi sconosciuti. Quando arrivano a Fleet Street, si trovano davanti a una strana costruzione di vetro simile a un gioiello e Maurice lo informa che non può semplicemente abbandonare il libro lì, ma lo deve portare ai “City Heads” che decideranno il da farsi. Per questo motivo, dovrà seguire i consigli che gli ha dato il principe Monolulu e cercare Awstin, ma ora la cosa importante è che deve andare a Bride Lane: non lo può riaccompagnare nella Short London, ma si rivedranno in futuro, sebbene potrebbe non avere il suo attuale aspetto. Si interrompe un attimo quando vedono uno strano velo, di un bianco abbagliante e dotato di vita propria, che si avvicina a Dennis, lo annusa e poi schizza via. Maurice lo informa che è uno degli Arcani, attirato dalla poesia. Poi continua dicendo che è consapevole che per il ragazzo è difficile capire tutto ciò, dato che non ha ancora compreso le regole della pericoresi, ma adesso deve andare via e lo spinge in una zona di oscurità, facendo ritornare il ragazzo nella sua realtà.
Dennis è di nuovo piuttosto sconvolto per questo passaggio da una dimensione all’altra e si ritrova bocconi, stanco e confuso in una via che non riconosce. Una figura si avvicina per controllare come sta: è la prostituta incontrata la sera prima. La ragazza sta per andarsene perché non vuole immischiarsi in questioni che teme possano essere pericolose, ma il ragazzo le chiede se lo strano fenomeno che aveva visto erano delle tende di rete bianche e abbaglianti. Lei si ferma e conferma che è così. Lo fa alzare, si presenta come Grace Shilling e lo porta via.
Di quello che accadrà a questa strana coppia, ne parleremo la prossima settimana.
Ha accumulato diversi sostantivi a cui può aggiungere il prefisso “ex” (fanzinaro, correttore di bozze, redattore, editore, letterista-impaginatore sotto pseudonimo, articolista…), mentre continua ancora, sporadicamente e per passione, a tradurre libri a fumetti.