Quando, agli inizi del nuovo secolo, uscì in Italia l’ultimo numero di Preacher di Garth Ennis e Steve Dillon (sulla bellissima rivista antologica di Magic Press, “Vertigo Presenta”, che pubblicava alcuni dei migliori fumetti americani di quegli anni, da 100 Bullets a Lucifer), ci fu una mezza sollevazione popolar-fumettistica: molti lettori e addetti del settore non avevano accettato di buon grado il lieto fine della serie. Com’era possibile che dopo quei sessantasei episodi violenti, scabrosi, sboccatissimi, con scene che se fossero apparse in un film avrebbero superato per intollerabilità The human centipede, si risolvesse tutto nella più classica cavalcata verso il tramonto dell’eroe, resuscitato giusto per l’occasione, con la sua bella?
Persino Dio (proprio il Dio dell’Antico Testamento, l’antagonista della storia, reso dai due autori con le caratteristiche peggiori di un politicante paraculo e vigliacco) veniva infine ucciso dal Santo degli Assassini, il Clint Eastwood personale di Ennis e Dillon, che da secoli era sulle sue tracce per vendetta. E una volta ucciso Dio, il Santo si sedeva sul trono celeste e si abbassava l’ala del cappello, in pieno stile western. Tutto questo – dagli intrecci, ai colpi di scena, al gran finale – perché in fondo Preacher non è mai stata altro che una reprise fuori tempo e romantica del western: tolti tutti gli elementi che l’hanno resa una delle serie di culto degli anni Novanta (e quindi lo splatter, il gore e le smargiassate), Preacher resta uno splendido e classico western, che però, mentre inneggia ai valori americani, cerca di denunciare le storture morali di quello stesso sistema di pensiero (e la cosa è resa chiarissima dal fatto che il protagonista, il reverendo Jesse Custer, come personale Grillo Parlante ha il fantasma del “Duca”, John Wayne, che non fa altro che consigliargli pose da duro e orgoglio come latte ogni mattina).
Dalla fine di Preacher, e per un decennio circa, Ennis si è così messo a fare il “dissacratore” per eccellenza, e la maggior parte degli appassionati ha pensato che quello fosse il suo “stile”: dalle cose minori come Adventures in Rifle Brigade con Carlos Ezquerra, dove prende il suo genere preferito, i fumetti di guerra, e li trasforma in un burlesque demenziale, fino alle cose più importanti, come la sua gestione del Punisher Marvel, dove, sempre in coppia con Dillon, prova a replicare l’equilibrismo tra grottesco e autoriale di Preacher, ma la magia sembra riuscire solo nella prima stagione della serie (Bentornato, Frank), mentre, proseguendo, il racconto si sfalda sempre più nella direzione del comico-violento fine a se stesso. Il culmine di questa “ascesa discendente”, arriva poi – a parere di chi scrive – proprio con quello che oggi è il suo lavoro più famoso presso il grande pubblico, The Boys, realizzato con Darick Robertson, che prende i supereroi e li usa come metafora spietata di politica e società e che deve allo show televisivo Amazon la sua enorme diffusione. Mi tocca però dire (e un po’ con rammarico, da grande ammiratore della scrittura di Ennis quale sono), che la serie tv è decisamente superiore al fumetto, che spesso e volentieri si risolve solo in supereroi stupidi, cinici e violenti che compiono abusi di potere a sfondo sessuale.
Ma ecco che, nel 2008, con The Boys ancora in corso, Ennis se ne esce con una nuova serie, per i disegni di Jacen Burrows che cambia completamente la prospettiva del suo lavoro: Crossed, una distopia che rilegge il mito degli zombie per il XXI secolo, e che, inaspettatamente, ci consegna un Garth Ennis quasi antipodico rispetto a quello che avevamo conosciuto fino ad allora. La violenza c’è, come anche il linguaggio sboccato, e ci sono anche il gore e lo splatter (e quelli anzi, sono decisamente accentuati), ma la comicità è scomparsa, così come l’ironia, figurarsi il demenziale. Ennis è serio, molto serio, in quel suo mostrarci l’apocalisse che ha immaginato per il genere umano.
Questa inclinazione cruda, granitica, della sua scrittura, che non concede più sconti allo sberleffo, prosegue, e piano piano sembra prendere il sopravvento (Ennis scrive tantissimo, per cui non mancano comunque i lavori più leggeri), arrivando a tre opere in cui l’autore ragiona più strettamente sulla contemporaneità e in particolare sulle responsabilità delle forze dell’ordine statunitensi.
Il discorso su uomini e donne con le armi e la possibilità legale di utilizzarle, è una delle costanti del suo lavoro, ben espresso principalmente nelle Storie di guerra, anche se lì, spesso e volentieri, la questione si intreccia con l’epopea eroica, romantica e spietata dei campi di battaglia delle Grandi Guerre del Novecento. Invece in Red Team (2013, con Craig Cermak, così come il seguito del 2016), Ribbon Queen (2024, con Jacen Burrows) e soprattutto in Discesa all’inferno (A walk trough hell, 2018, con Goran Sudžuka), il discorso si circoscrive alle forze di polizia e all’FBI, i cui agenti si trovano in tutti e tre i casi a dover rispondere dei propri abusi di potere, dalla violenza sessuale all’omicidio. Discesa all’inferno e Ribbon Queen però, aggiungono una cifra soprannaturale al racconto: il primo in particolare, immerso in un’atmosfera lovecraftiana sempre più claustrofobica, inizia scavando nelle piccole vicende personali di due agenti del Bureau e arriva ad annunciare la venuta dell’Anticristo.
Il tema religioso, lo sa bene chi segue Ennis, è ancora più radicato di quello della guerra nella sua scrittura: in qualche modo, l’ideologia che irretisce e guida irrazionalmente gli umani (questo, ovviamente, dal suo punto di vista), spunta sempre fra le pagine del fumettista nordirlandese. Quando Ennis parla di religione, solitamente lo fa utilizzandola come metafora di ciò che di peggiore c’è nell’umanità (basta pescare a caso nella sua produzione, tra Hellblazer, Preacher, Just a Pilgrim, Bloody Mary, Cronache di Woormwood e parecchi altri titoli), ma proprio in Discesa all’inferno si evidenzia un tema sotterraneo che, guardando in retrospettiva, si trova anche in Preacher, creando uno strano anello (davvero strano) e evidenziando un’inedita chiave di volta per l’interpretazione della sua opera: lo gnosticismo.
Questa antica corrente filosofica e religiosa, anche se viene trattata dal cristianesimo come un’eresia, è in realtà un vero e proprio culto autonomo (pur avendo in comune con il monoteismo occidentale più di un punto), sviluppatosi attorno al II secolo d.C. e identificabile a tutti gli effetti come religione esoterica. Dopo essere stata a lungo dimenticata, con la scoperta dei rotoli di Nag Hammadi nel 1945, che contenevano molti testi gnostici, la gnosi (dal greco, “conoscenza segreta”) sembra essere riemersa, chissà quanto consciamente, come filosofia portante di alcune tra le più famose e influenti opere di fiction del XX e XXI secolo.
L’impianto narrativo alla base dello gnosticismo vuole che il Dio dell’Antico Testamento non sia altro che un “Dio fasullo”, un Demiurgo che, espulso dal regno spirituale del vero Dio, ha creato il mondo materiale e gli uomini che lo abitano, tenendoli imprigionati in uno stato di veglia incosciente (la nostra vita di tutti i giorni), con l’aiuto dei suoi servitori-guardiani, gli Arconti. Per gli gnostici, il Demiurgo, il dio-artigiano che ha creato il nostro mondo illusorio, è Yahwhe, mentre il serpente del Giardino dell’Eden, che spinge i primi uomini a mangiare la mela della conoscenza e quindi a liberarsi dall’illusione, è il vero Dio spirituale. La prospettiva quindi è completamente ribaltata rispetto a quello a cui siamo abituati: il Diavolo (sempre dal greco, diabàllo, “separare”), per gli gnostici è il Dio degli ebrei, mentre quello che per i cristiani è il “tentatore”, è per loro il vero Dio (una corrente gnostica infatti, fu quella degli Ofiti, gli adoratori del serpente). Nella visione gnostica, sono quindi presenti due mondi ben separati: uno illusorio e materiale e uno reale e spirituale.
Come sottolinea Paolo Riberi nei suoi molti bei libri sull’argomento (uno su tutti: Il serpente e la croce, del 2021 per Lindau), tale visione duale del nostro mondo ha una connessione diretta con il mito della caverna di Platone, che si attesta quindi, insieme al cristianesimo delle origini, come possibile ispirazione filosofica della gnosi: anche Platone parla di uomini che vivono in un mondo illusorio (le ombre che guardano sul muro della caverna, che credono essere loro stessi) mentre sono in realtà incatenati, prigionieri.
Com’è già evidente da queste brevi note circostanziali quindi, grazie alla storia alla base dello gnosticismo sono state scritte alcune delle narrazioni più influenti dell’ultimo secolo. Ne parla sempre Riberi nel suo libro Pillola rossa o Loggia Nera?, dove identifica specificatamente quelle cinematografiche. Fra le più palesi ci sono, ad esempio, Matrix e The Truman Show: in entrambi i film il protagonista compie un vero e proprio arco di risveglio e scopre di essere in balìa di un Demiurgo malvagio (nel primo caso l’Architetto, nel secondo Christof) che lo tiene imprigionato in una finta realtà. In entrambe le storie poi, ci sono gli Arconti del Demiurgo (gli agenti Smith e la gente della cittadina fittizia) e sia Neo che Truman (i cui nomi parlano da soli: “nuovo” e “uomo vero” nel senso di “reale”) sono dei veri e propri iniziati.
Altro esempio famosissimo è Twin Peaks, i cui segreti ci mettono di fronte a doppie e triple realtà: la prima realtà è la placida e serena cittadina, la seconda sono i segreti che gli abitanti nascondono, alcuni davvero terribili, mentre la terza realtà è rappresentata dalla schiera di Arconti (BOB, Mike, Il Braccio, la signora Tremond e il nipote) che vive in un’altra dimensione, La Loggia Nera, il cui scopo è quello di nutrirsi del dolore degli abitanti, dei loro segreti.
Nel libro di Riberi si parla ancora di molti altri film e serie tv, tutte con alla base gli stessi meccanismi narrativi, fra i quali vale la pena citare la prima stagione di Westworld, dove il tema gnostico è davvero evidente (chiunque l’abbia vista se ne accorgerà) e Noah di Darren Aronofsky, film bistrattato e, a detta di molti, incomprensibile, che mette in scena la vicenda del patriarca biblico, come se fosse uscita direttamente da un codice di Nag Hammadi.
Come si inscrive l’opera di Garth Ennis in tutto questo? Non ci avevo mai fatto caso ma, dopo la mia ultima rilettura di Discesa all’inferno, la cosa mi si è posta davanti agli occhi con estrema evidenza. Per tutta la storia, ambientata durante il primo mandato di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti, i due agenti dell’FBI protagonisti, decisamente anti-trumpiani, non fanno altro che discutere su come idee che anni prima sarebbero state completamente irragionevoli, oggi sono perfettamente accettate da molti, tanto da aver preso vita propria e aver permesso l’insediamento di quel Presidente. Idee «brandite come mazze, pilotate dall’istinto invece che dal pensiero», come sottolinea l’assassino a cui i due danno la caccia, quando si rivela essere nientemeno che il Diavolo in persona. L’Avversario, dopo aver elencato agli agenti tutti gli orrori compiuti dal genere umano nei secoli, gli dice che da quel momento in poi, cominciando dal XXI secolo in corso, tutto andrà ancora peggio e in modi per loro inimmaginabili. E poi, conclude: «Quale Dio permetterebbe l’esistenza di un mondo così? In fondo, si dice che vi abbia creati a sua immagine ma, visto com’è andata a finire, non ci fa una gran bella figura. L’uomo macchia il mondo. Ma Dio macchia il creato con l’uomo. Quale Dio lo permetterebbe mai, agente Shaw? Un Dio che in realtà è sempre stato il Diavolo?».
La domanda è retorica: sì, in Discesa all’inferno, Ennis racconta un mondo – il nostro – creato da un Dio malvagio, un Demiurgo, che è in realtà il Diavolo stesso. Un mondo dove gli Arconti, i guardiani-schiavisti, sono spesso coloro che credono di difendere l’umanità, mentre in realtà, tramite il loro potere e le loro armi, ne sono i carcerieri: qui, in Ribbon Queen e in Red Team, la polizia e l’FBI, altrove, i supereroi.
A questo punto, se riavvolgiamo la pellicola di una trentina d’anni e torniamo a Preacher, rileggendolo alla luce dei miti gnostici, ci possiamo accorgere che anche lì le tematiche sono le stesse: un Dio malvagio, un doppio mondo, un iniziato che, una volta risvegliato, ha il potere di conoscere il vero mondo e sconfiggere il falso Dio. E lo stesso può essere fatto anche con The Boys, dove il Dio malvagio è ovviamente Homelander/Patriota e la doppia realtà, molto più pragmaticamente, è rappresentata dalla vita delle persone normali rispetto a quella dei supereroi, ricchissimi e praticamente onnipotenti.
Al contrario di Alan Moore che, esperto all’argomento, ne ha sparso riferimenti e tematiche in quasi tutti i suoi lavori – da V per Vendetta a Providence – e che si dice fedele a Glicone, serpente con la testa di uomo che è anche un’antica divinità gnostica (di Glicone e Moore ho parlato qui e nel libro Alan Moore. Mappaterra del Mago, pubblicato con Odoya quest’anno), è probabile che Garth Ennis non abbia utilizzato consciamente tali dinamiche. Le mie sono pertanto unicamente suggestioni, un punto di vista differente con il quale osservare i suoi fumetti e magari, più diffusamente, la realtà.
La stessa realtà nella quale un uomo d’affari molto ricco ha di nuovo appena vinto le elezioni in un grande e potente paese occidentale, e che ha al suo fianco (quasi ne fosse l’Arconte) un altro uomo d’affari, anch’esso molto ricco e potente, con tendenze apertamente demiurgiche.
Scrive fumetti e scrive di fumetti, poi scrive anche canzoni e le canta, insieme a quelle degli altri che gli piacciono. Il suo sito è www.francescopelosi.it.