Quando Alessandro Lise ha proposto alla redazione di (Quasi) il tema dell’illeggibilità per il mese di dicembre, ho subito pensato al suo sodale Alberto Talami (insieme formano il duo di fumettisti Lise & Talami). Alberto e io da qualche anno, cioè da quando abbiamo scoperto di vivere nello stesso quartiere, ci prestiamo dei fumetti: io gli porto quelli che, secondo me, potrebbero incuriosirlo e lui mi fa scoprire nuovi titoli. Capita che accompagni il gesto con cui mi porge il volume con la parola “illeggibile”. All’inizio pensavo: «Ma come? Mi presta un fumetto che ritiene illeggibile? Perché?». Poi ho scoperto che Alberto non usa il termine “illeggibile” per intendere qualcosa di negativo. Se ho capito bene, si riferisce a un’opera in cui la storia non è lineare o, sovente, la trama è assente, però per altre ragioni è molto valida. Per lo stile di disegno, per la fluidità del tratto, per la composizione delle tavole, per gli spunti che offre una determinata vignetta. Perfino per la grande leggibilità dell’insieme, quello che chiamiamo anche storytelling. Insomma, Alberto dà alla parola un significato tutto contrario rispetto a quello che le do io. Però devo ammettere che a volte i fumetti che mi presta per me sono veramente illeggibili. Nel senso che mi chiedo che cosa diavolo io stia leggendo e perché. Di rado getto la spugna e mi limito a guardare le figure, rendendo abbastanza felici i Direttori Paolo e Boris – «I fumetti si guardano!!!». Più spesso arrivo in fondo. Capita che poi, tirando le somme, comprenda tutto, ma succede anche che mi incazzi, ritenendo di avere sprecato del tempo. Un’altra ammissione: mi piace che ci sia una trama. Capisco chi la pensa diversamente, come Alberto, però io sono più a mio agio se trovo una storia da seguire. Bella, brutta, completa, incompleta, involuta, scorrevole, originale, riciclata… sia come sia.
Uscendo dall’iniziale equivoco sui fumetti illeggibili, mi rendo conto che per me l’illeggibilità è un’altra cosa: è proprio il fatto che non riesca a leggere un libro o un fumetto. Il primo problema è concreto: se il formato è scomodo, per me l’opera diventa quasi illeggibile. Di solito leggo mentre cammino, mentre sto fermo in piedi o mentre sono disteso. L’editoria oggi propone molti volumoni come omnibus e absolute, che sono pesanti, enormi e facili a scollarsi se raccolgono più di un tot di pagine. Ne consegue che devo affrontarli stando seduto e questo non va mai bene, perché tra ernie e infiammazioni di cervicali e nervo sciatico il piacere tanto bramato diventa invece un inferno.
Il secondo problema consiste nell’accessibilità linguistica. Non mi arrendo facilmente, mi piace scoprire cose nuove, amo arricchire il mio lessico con termini di ogni registro e settore, però c’è un limite. Ed è un limite solo mio, sia chiaro: è colpa della mia ignoranza se non capisco, non dell’autore. Lui ha tutto il diritto di usare le parole che conosce e padroneggia. Io ho la possibilità di informarmi. Con questo spirito affronto quotidianamente le mie dieci o quindici pagine di Jerusalem di Alan Moore, senza paura, anche perché i termini che non conosco sono davvero pochi, in genere fitonimi. Nel caso del romanzo del Bardo di Northampton resta la questione del peso del tomo, che devo leggere stando seduto.
Il mio spirito, però, non è stato altrettanto forte davanti a Suttree di Cormac McCarthy. Dopo aver dovuto cercare nel vocabolario il significato di ventidue parole nelle prime diciotto pagine, ho chiuso il libro e ho rimandato la lettura a data da destinarsi. Ripeto, colpa mia, ma se devo interrompere il flusso di continuo, fatico a provare piacere. Ci riproverò quando sarò più tranquillo.
Sognava di diventare un calciatore professionista, ma a sedici anni si è svegliato e l’incubo è cominciato. Continua ad amare il calcio tanto quanto ama leggere fumetti di tutti i tipi. Cerca di sbarcare il lunario, scrive per QUASI e Lo Spazio Bianco, parla per il podcast hipsterisminerd e per LSB Live.