
Carissimo Francesco,
quello che scrivi è sacrosanto. Però mi pare che, rimanendo sul piano della pedagogia della Liberazione, si rischi di essere ancora più consolatori. Mi sembra che restiamo tutti incastrati nella mitologia delle “belle bandiere”, delle “belle città date al nemico” delle “belle ciao”. Abbiamo reso la Resistenza un monumento inoffensivo, un’icona da commemorare senza conflitto. Abbiamo preso botte su tutti i piani perché ci siamo concentrati sulla pacificazione e non sull’opposizione, sull’eleganza e non sul vaffanculo.
Io non voglio celebrare la Liberazione con una liturgia condivisa. Credo che sia la festa più bella che c’è perché mi ricorda che – come chiunque altro – ho ancora una ferita aperta, una spina nel fianco. E se non mi ci concentro, rischio che quello squarcio, già infetto, si incancrenisca, mi uccida.
Mi viene in mente la censura operata su Lettera del compagno Lazlo al colonnello Valerio di Giorgio Canali. Bisognava festeggiare Materiale resistente,un disco che festeggiava a sua volta cinquant’anni dalla Liberazione. Ricordi? E quel disco era stato voluto fortemente da Giovanni Lindo Ferretti, uno che nell’antifascismo ci ha sempre creduto molto poco. Canali si presenta con una canzone che dice che, nell’uccisione – senza pietà (ché Pietà l’è morta) – dei fascisti, dopo la Liberazione, «non dovevamo fermarci». Il problema di quella canzone era che, a cinquanta anni dalla Liberazione, potesse essere troppo divisiva. E allora? Io voglio essere divisivo.
Sai che a me stanno tutti sul cazzo. I comunisti mi sembrano scemi e antistorici e gli anarchici, compresi gli amici miei, mi sembrano tutti in cattiva fede. Però so da che parte stare: i fascisti sono criminali.
Se le canzoni della Liberazione devono avere ancora senso, devono tornare a essere scomode per davvero. Non inni nazionali, non marcette, non canti corali che fanno vibrare le voci e i cuori. Devono essere grida di guerra, cazzo!
Dimmi tu, Francesco, come possiamo fare, come individui, perché queste canzoni tornino a essere davvero scomode?
Un abbraccio fortissimo
Paolo

Caro Paolo,
sì, ricordo Materiale Resistente e soprattutto la Lettera del compagno Lazlo al colonnello Valerio di Giorgio Canali. La canzone stava per finire nell’articolo a cui ti riferisci nella tua lettera per me. Ma poi, coscientemente – in piena facoltà – l’ho tolta e le ho preferito Le storie di ieri di Francesco De Gregori, cantata da Fabrizio De André.
La canzone di Canali mi piace molto e c’è stato un periodo della vita in cui la consideravo perfetta e giusta, in tutto quello che diceva e in come lo diceva. Poi ho cambiato idea: ora la ascolto, rido per la sfrontatezza di Canali, ammiro il suo sfogo senza mezzi termini, ma non sono più d’accordo con tutto quello che dice.
È vero, il fascismo dall’Italia non è mai andato via. È vero, c’era da troncare tutti i suoi rami marci alla fine della Seconda guerra mondiale. C’era da costruire una vera Italia democratica e non solo di facciata. Ma non è stato così e i motivi sono tanti, dall’ingerenza degli Stati Uniti, alla mafia, a certe frange deviate della Massoneria, e chissà cos’altro ancora. Il risultato è stato che i fascisti sono rimasti nel Governo, nello Stato e, piano piano, mentre il tempo ci allontanava dagli orrori fisici e psicologici che avevano commesso, è cominciata a trapelare nella società l’idea che forse in fondo il fascismo fosse un’ideologia come un’altra e che, sempre più in fondo, se per vent’anni ha governato l’Italia, un motivo ci sarà pur stato. Così, il fascismo ha vinto di nuovo, con la banalità del male. E se per ottant’anni la cosa è stata più o meno sotterranea, oggi è lampante, innegabile.
Senza contare che, a differenza di ciò che ha fatto la Germania col nazismo, da noi non si è mai fatto un vero discorso pubblico sul fascismo e sull’atrocità della sua esistenza. E mi pare ovvio: molti di coloro che comandavano o che coi loro soldi muovevano il paese, erano, e sono, fascisti.
Detto questo, quel che oggi mi allontana dalla canzone di Canali, è precisamente la stessa cosa che mi allontana dal fascismo: la violenza. Quella violenza che è la risposta disperata alla condizione del paese in cui viviamo. Tu dici che il fascismo è criminale, e io sono pienamente d’accordo. Ma prima ancora che criminale, per assunto, il fascismo è violento. E a costo di masticare uno stanco ritornello, dico che la violenza deliberata e prevaricatrice è il problema maggiore della natura umana.
Mi chiedi, «Come possiamo fare, come individui, perché queste canzoni tornino a essere davvero scomode?» e, non so quanto intenzionalmente, rispondi da solo alla tua domanda. La chiave, per me, è proprio l’individuo.
Se è vero, come sono convinto, che la realtà materiale è lo specchio rovesciato di una realtà metafisica, uguale e contraria alla nostra («Come in alto, così in basso», è il motto ermetico per eccellenza), è vero anche che il concetto sano di individualità si corrompe nell’individualismo ostentato e mercificato dei nostri giorni, sostenuto da un mortifero nichilismo, esacerbato e vago allo stesso tempo. “Ognuno per sé e il Nulla contro tutti”, sembra essere il motto della maggioranza che, «come una malattia», sta.
Ma se il tempo della collettività è tramontato, quel che c’è da fare adesso è recuperare l’individuo al di là dell’individualità, occuparsi di noi stessi da soli, di noi stessi in relazione e, in definitiva, e in tutti i significati del termine, di noi. Ognuno per sé e, così, tutti per tutti.
Non sono le canzoni a non essere più scomode, siamo noi che ci siamo messi comodi ad ascoltarle.
Per questo, quello che tu chiami “pedagogia della Liberazione”, è per me invece l’unica via. Riportare le cose alla radice. Mettere le persone davanti alla nudità dei fatti. Che cos’è il fascismo, in nuce? Violenza.
E cos’è la violenza? Conflitto. Qualcuno dirà che senza conflitto non esiste la vita. Vero. Ma il conflitto esteriore, il conflitto che genera violenza tra gli umani, che genera la guerra, esplode sempre per mancanza di confronto con i nostri conflitti interiori. Di nuovo, la chiave è l’individuo.
Se io ti mando affanculo, è molto probabile che mi ci mandi anche tu e che da lì si passi poi alle mani e dalle mani alle pistole o alle bombe. Quindi, se in passato non c’era altro modo se non quello di passare alle mani e alle pistole per rivendicare la libertà, oggi io voglio cercare un modo diverso. Che non è quello dei Presidenti in carica e nemmeno quello dei trapper con la pistola.
Dica pure ai suoi, se vengono a cercarmi, che possono spararmi, io armi non ne ho.
Questo è il vaffanculo più limpido che conosco. E qui, tutte le canzoni riprendono a brillare come una bomba, esplodendo nei cuori e nelle menti.
Le parole, come le immagini nei fumetti, senza chi le legge o chi le ascolta sono morte. Non significano niente. Siamo noi a caricarle di significato e, da quelle parole e da quelle canzoni, farci ispirare. Le parole “guerra” e “amore” possono dire niente e tutto. Viverle, metaforicamente come realmente, fa per me tutta la differenza.
Un caro e forte abbraccio,
Francesco