Lo schifo e il comico

Paolo Interdonato | Bagatelle per un Alph-Art |
disegno di Marco Corona

La satira è un meccanismo delicato. Quando funziona, ci mette di fronte alle nostre bassezze umane. Se siamo consapevoli – e lo siamo – ogni volta che ci troviamo di fronte a un satiro, sappiamo che stiamo ridendo per non piangere. Oppure piangiamo dalle risate.
Freud fa tutta quella tiritera sul motto di spirito e come questo ci induca ad affacciarci sul baratro delle nostre coscienze, ci spinga, bastardo, per farci precipitare sul fondo, ci costringa a pescare a strascico e ci permetta di riemergere solo quando siamo coperti di sangue e merda.
La satira è una cosa sporca. Per questo, tutte le volte che se ne parla, arriva sempre qualcuno con l’indice alzato e brandisce concetti quali l’eleganza e il buon gusto. Per questo, i più svegli di tutti non hanno paura di dirsi “bête et méchant”.

«Noi tutti facciamo un lavoro che solo in superficie riflette il mondo in cui viviamo e, nel migliore dei casi, serve soltanto a fare il solletico, nel migliore dei casi manca il bersaglio. […] Il giullare di corte è stato sostituito dal sovversivo di corte e non c’è atteggiamento che chiunque possa assumere ovunque, il quale non finisca per agire, in ultima analisi, a favore del sistema. La satira non è più un commento al nostro modo di vivere. La satira è il nostro modo di vivere.»

Jules Feiffer, da sempre tra i più consapevoli, ha iniziato presto a dichiarare il dramma del satiro. Il rispetto delle regole, la tradizione, la necessità di comunicare, il punto di equilibrio con le istituzioni e con i committenti, il controllo sul margine di ambiguità… Sono tanti gli elementi che rendono complicata la vita di chi ha deciso di professionalizzare la propria indignazione.
Un satiro è uno che si indigna a comando. Di fronte a un fatto vergognoso, prova schifo. Ma quello schifo non gli induce solo ripulsa. Mentre pensa a quell’evento disgustoso, la realtà cambia abito. Paradossalmente sembra appetitosa: una pietanza ottima nella quale immergere il muso per uscirne con i baffi grondanti e lo sguardo allucinato e felice. L’odore, il sapore, l’aspetto, la consistenza, perfino il rumore che fa sul palato: quella roba è intollerabile ai sensi, eppure bisogna lasciarsela scorrere dentro, viverla.
Quando finalmente le ragioni della piccola gioia procurata dallo schifo diventano evidenti, il satiro può sferrare l’attacco più feroce e doloroso verso il suo peggiore nemico: se stesso.
La satira, quando funziona, fa molto male perché è un atto di masochismo travestito da sadica ferocia: si scaglia contro un potente malvagio per colpire un nemico indifeso. Quello con cui passiamo tutta la nostra vita, quel nodo di inquietudini rabbia e paura che chiamiamo “io”. Perché il nemico più grande, il potente che scatena lo schifo e l’indignazione, se lo si guarda con attenzione, altri non è che la somma delle ombre delle idee che ognuno di noi proietta su di lui.

Joaquín Salvador Lavado, che firma i suoi fumetti con lo pseudonimo Quino, ha quarantadue anni quando inizia a pubblicare con regolarità le strisce di Mafalda e cinquantuno quando, nel 1973, decide di aver esaurito le idee su quel personaggio e sui suoi comprimari. Tre anni dopo l’Argentina entra nella fase più tragica delle dittature che caratterizzano la sua storia recente: quella durante la quale ogni forma di dissenso produce la sparizione del dissidente. Fortunatamente, in quegli anni, Quino, che della dissidenza è un maestro, ha già abbandonato Buenos Aires. Si è trasferito a Milano e continua a costruire pagine a fumetti straordinarie. Si ride di gusto. Il più delle volte non si ha neanche la sensazione che stia facendo satira e nessuno arriva con il dito levato a parlare di eleganza e buon gusto.
Il mio amico Antonio Vincenti – che forse conosci anche tu, perché fa fumetti firmandosi Sualzo – in occasione della morte di Quino ha detto una cosa molto giusta: «Con un’inventiva come la sua non sarebbe stato necessario essere anche un grande disegnatore per essere il migliore». Ecco, Quino aveva queste due caratteristiche: aveva un’inventiva straordinaria e costruiva pagine disegnate benissimo. Ognuna delle sue tavole aveva un contenuto narrativo impressionante e illuminava lo sguardo con assoluta bellezza. Era un gigante, uno di quelli veri. Il fatto che quel gigante, capace di raccontare storie densissime con grande economia, ci regalasse la satira più feroce è un grande mistero.

Quino era un satiro. Le sue pagine – perfette, equilibrate, apparentemente graziate da una leggerezza eterea – indicavano, senza alcuna pietà, lo schifo. Lo facevano silenziosamente – con pochissime rare parole – e immagini grandi, regalando un’immediata risata.

Vieni, facciamo un esperimento. Prendi un suo libro dalla mensola e aprilo, oppure fai una ricerca in rete. Guarda la pagina che il caso ti ha offerto. Ti ci stai perdendo, lo so, ma hai fiducia in lui. Sai che, in alcuni casi hai dovuto ricostruire la struttura e il senso del tempo, ma poi, inevitabilmente, quella storia è arrivata a destinazione. Risata assicurata.
Ecco.
Poi, mentre tu e io ci riprendiamo dall’impatto comico, ci rendiamo conto che stiamo ridendo di una cosa terrificante, dell’ombra che le idee di cui ci vergogniamo di più proiettano sul mondo, trasformandosi in quel male esecrabile per il quale non riusciamo a dare la colpa agli altri.

Con quella apparente leggerezza, che sembra ammantata di eleganza e buon gusto, Quino ci ha indicato con chiarezza le nostre responsabilità. E da quelle, dannazione!, non si scappa.

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