Oggi
Stephen King ha scritto una cazzata. Cioè, non una sola, ne ha scritte tante, soprattutto dopo che ha smesso di bere e di drogarsi. Ma dato che la gente continua a comprargliele a milioni di copie io non ho niente da sindacare. No. La cazzata che non gli perdonerò mai (pur lucidamente consapevole dell’irrilevanza delle mie considerazioni verso quel colosso di scrittura industriale) è una mistificazione, diciamo, teorica.
Estate del 1987
Avevo un’estate intera davanti a me. Un’estate, quella in cui mi ero diplomato, che volevo cancellare dal calendario un giorno alla volta, godendomeli tutti prima di arrendermi alle scelte da fare per il mio futuro. Futuro di cui, in quell’estate, non mi fregava proprio nulla.
In quei giorni, credo fosse l’inizio di luglio, ero a Rimini e quella sera in particolare mi trovavo in un posto del cazzo, il Bandiera Gialla, ma ci ero andato perché dovevano suonarci gli Skiantos e non me li sarei persi per nulla al mondo. Avevano appena pubblicato un album che adoravo: Non c’è gusto in Italia a essere intelligenti, e poi di meglio quell’anno , nell’ambito della musica italiana, era uscito solo Signora Bovary di Francesco Guccini.
Te lo ricordi come era il Bandiera Gialla, vero? Era all’aperto e aveva due piste e nella seconda pista c’era un palco con davanti un prato sterminato di sedie e tavolini.
Ci eravamo andati in gruppo, amici, e ci eravamo un po’ dispersi nell’attesa che gli Skiantos cominciassero. Sono sempre stato un lupo solitario, e mi ero messo in disparte, seduto da qualche parte, fumandomi dell’erba e sorbendomi un imbarazzante (credo fossero i Krisma) duo di apertura.
Devo avere espresso il mio giudizio critico a voce alta.
«Che hai detto?»
Sobbalzo, accorgendomi di un tipo stravaccato in una sedia non lontana dalla mia. È in divisa. Per un attimo temo che sia uno sbirro, e cerco di nascondere la canna. Poi mi rendo conto che il tipo è decisamente sbronzo e che quella che indossa è una divisa militare.
«Che quei due sono imbarazzanti.»
«L’è che ti t’ha rasån!» (o qualcosa di simile, farfugliato in quello che mi è sembrato bolognese, con cenno di assenso).
Poi si alza e barcollando se ne va.
Comincia il concerto. Red Ronnie presenta gli Skiantos, e due amici che sono passati a salutare: uno lo conosco è Vasco Rossi, l’altro è il tipo che mi stava seduto di fianco: si è messo un elmetto che sembra quello delle Surmtruppen di Bonvi. Solo quando Red Ronnie lo presenta scopro che è proprio lui, Bonvi.
Restano sul palco un po’ a fare gli scemi e a ballare con Freak Antoni, poi se ne vanno e il concerto entra nel vivo. Sarà straordinario, indimenticabile… ma cazzo! Nel calendario di quell’estate, e di tutte le estati future, questo giorno, l’unico non cancellato dal calendario, resterà come “il giorno che ho incontrato Bonvi”.
Di nuovo oggi
La cazzata che dice Stephen King, sta verso la fine della prima parte di On Writing, ed è che, dopo essersi disintossicato dall’alcol e dalle droghe, la sua scrittura non ne avrebbe risentito. In realtà è proprio dopo che ha smesso di bere che la sua scrittura è sbiadita fino a diventare, con le opere più recenti, la caricatura di quello che era negli anni Ottanta.
Per farti un esempio pratico: quella sciatteria di On Writing l’ha scritta dopo essersi disintossicato, mentre nel pieno della sua crisi alcolista ci ha dato quel gioiello di Danse Macabre.
Quindi, per carità, sono assolutamente contento per lui, se il Re si è liberato dai propri demoni non solo scrivendone ma allontanando per sempre da sé la bottiglia, ma abbia rispetto della mia intelligenza e non mi racconti, siccome so leggere dall’età di sei anni, che le sostanze psicoattive non influiscono sul processo creativo.
La verità è che non sanno di nulla, come diceva Orazio (non ricordo in quale carme), le storie degli autori straight edge.
Febbraio del 1941
Nel 1941, sul numero di febbraio di “Astounding Science Fiction” Robert Heinlein, probabilmente uno dei più grandi scrittori del secolo scorso, pubblica un racconto intitolato And He Built A Crooked House (la trovi, banalmente tradotta come La casa nuova, nell’antologia einaudiana Le meraviglie del possibile). La storia è sostanzialmente questa: Quintus Teal, architetto visionario, progetta e costruisce una casa ipercubica: quattro stanze cubiche disposte su 8 facce tridimensionali, una roba incredibile in quanto a spazio abitabile (ma come può funzionare una roba simile te lo dovrebbe spiegare Peppe, che io non ne ho le competenze). Il problema è che la casa è costruita a Los Angeles e alla prima scossa di assestamento, si ripiega su sé stessa imprigionando per sempre i suoi inquilini nella quarta dimensione.
L’intuizione geniale di Heinlein, rubata con destrezza a Charles Howard Hinton primo teorico del tesseratto (o ipercubo) era quella di portare nel mondo fisico, fatto delle tre dimensioni che regolano la nostra esistenza e le nostre architetture, la quarta dimensione indispensabile nelle strutture narrative: al cosa, al come e al dove, aggiungeva il quando. Con i problemi che questo comporterebbe nel mondo reale se potessimo spostare i locali in cui abitiamo, con noi dentro, sull’asse del tempo per guadagnare spazio: ci troveremmo in compagnia del noi stesso di pochi istanti prima, che magari occupa il divano su cui vorremmo sparapanzarci.
Un’altra estate: un po’ prima, tra… boh… giugno e agosto del 1985
In fondo a via XXV aprile a Sestri Levante, proprio poco prima di arrivare alla Baia del Silenzio, c’era, nella metà degli anni Ottanta, quando passavo lì tutte le mie estati, una libreria che vendeva libri usati. La frequentavo con assiduità perché ci trovavo i romanzi di Sven Hassel e vecchie riviste di ogni genere, soprattutto erotiche. È in una di quelle estati lì che ci ho trovato, e acquistato per poche mille lire, gli Incubi di provincia di Bonvi.
Lo ammetto: conoscevo Bonvi perché era l’autore delle Sturmtruppen e del Nick Carter di “Super Gulp”, ma non sapevo che aveva anche disegnato fumetti scritti da Guccini e che era suo amico, e io amavo Guccini (che capolavoro era l’album con Autogrill!), e in quel volume c’era una prefazione di Guccini, dove avevo letto che erano amici e che alcune storie, tipo quella del matto che dirotta un tram per l’Havana, le aveva scritte lui (come le prime sei delle sette raccolte poi nel volume Storie dello spazio profondo) allora l’ho comprato.
Febbraio del 1958
Sulla rivista “Galaxy”, nel numero di febbraio del 1958, Walter Tevis pubblica un racconto nel quale alla quarta dimensione Heileniana, alla quale dà il nome di Ifth, ne aggiunge una quinta, la Oofth. ”Galaxy” era una rivista voluta da Cino del Duca per il mercato anglosassone, di cui pubblicava in contemporanea un’edizione italiana. La traduzione di questo racconto fu affidato alla bravissima Isabella Spelta che, a differenza di Antonio Cecchi che per la pubblicazione su Urania nel 1991 non toccherà i due termini, avrà la geniale idea di rendere la quarta e la quinta dimensione con i termini di SEEZZA e QUASITÀ.
Per l’ultima volta oggi, che poi in un attimo è domani
Più o meno dieci anni dopo la pubblicazione di quel racconto di Walter Tevis su “Galaxy”
[Piccolo inciso: il fatto che Bonvi sotto al titolo della storia citi come autore dell’idea originale un certo Trevis, dimostra che quando l’ha realizzata è andato a memoria (si ricordava vagamente il nome dell’autore) ripensando a una storia letta su una qualche rivista dozzinale quando aveva 17 anni. Esattamente l’età che avevo io quando ho preso Incubi di provincia in quella libreria a Sestri. Questa cosa non è un dettaglio. Quel racconto è solo un’ombra nella memoria dell’autore, ed è la prova che l’idea teorica alla base del fumetto di Bonvi (idea rivoluzionaria) non paga debiti a nessuno.]
Bonvi pubblica sulla rivista bolognese “Off-Side” 10 tavole che quando le ho lette, raccolte in quel volume con il titolo SEEZZA DELLA QUASITÀ, mi hanno fatto capire (avevo 17 anni e sapevo ancora un cazzo di niente) due cose: che cos’è il fumetto e perché lo amavo così dannatamente.
Te lo spiego in poche righe, che il tempo (la Seezza) stringe e la Quasità (il fare altre cose per questa rivista, che non si chiama mica QUASI a caso) incalza.
È una notte di sesso, droga e alcol (te l’ho detto che King ha scritto una stronzata!) quella in cui, durante la pausa sigaretta dopo il sesso con Enrica… o forse era Giovanna, vallo a ricordare!, l’autore decide di fare una cosa mai fatta: disegnare in tre dimensioni. Mentre la ragazza, splendidamente nuda, smaneggia i “graziosi disegnini” tridimensionali dell’autore – «Graziosi?», dice lui, «Interi universi e lei li chiama graziosi!» – riesce a piegare i fogli in un solido pentadimensionale che richiama tanto, ma tanto davvero, l’ipercubo heinleniano.
Non te lo racconto come finisce la storia, ti toglierei il gusto della sorpresa tipica di quei racconti di fantascienza degli anni Cinquanta.
Quello che conta è quello che ci dice Bonvi del fare fumetti, anzi… scusa, del leggerli. Il vero lavoro di costruzione del tesseratto, cioè della storia a fumetti lo fa il lettore (lo sguardo è un tema ricorrente di tutta l’opera non seriale di Bonvi), che deve sapere come muoversi tra quelle dannate cinque dimensioni. Se l’autore costruisce universi, lo sguardo del lettore può polverizzarli. Una bella responsabilità, lo ammetterai.
Per questo leggere i fumetti è una cosa difficile; per questo per decenni è stata considerata una cosa per gli scemi, perché i professori, i segretari di partito e i presidenti del consiglio, non ne erano capaci. Un po’ come Homer Bailey, il ricco e colto amico di Quintus Teal, che quando quest’ultimo gli mostra il tesseratto, ribatte: «Boh, per me continuano ad essere solo cose storte».
Una volta superata quella difficoltà però, cazzo, se ti lasci scivolare sul piano della QUASITÀ, leggere un fumetto diventa facile come prendere un tram… no scusami, non è comunque facile… devi prendere il controllo di quel tram, a costo di dirottarlo, perché è quello del lettore il lavoro più difficile, ma una volta che sei riuscito a dirottarlo puoi arrivare addirittura all’Havana… dove, come dice la ragazza in impermeabile, «c’è sempre caldo e il cielo… il cielo… sigh!»
Domani
Ecco, domani fai una cosa. C’è in giro, da qualche settimana, una nuova edizione degli Incubi di provincia, addirittura ampliata, rispetto a quella del 1981. Procuratela.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.