Una locuzione insopportabile, che rivela con chiarezza la malafede (o peggio la stupidità) di chi la usa (sempre in termini giustificativi), è “uomo del suo tempo”. Per ogni donna o uomo (o qualsiasi altra declinazione di genere, attribuibile a esseri umani, che purtroppo questa lingua che usiamo ancora non ci permette) del suo tempo, ce n’è stata (in ogni tempo) una o uno che contro il proprio tempo ha lottato. Per cambiarlo, e per rendere questa terra devastata un po’ più abitabile.
“Uomo del suo tempo” è una frase usata dagli ipocriti per nascondere il fatto che quel determinato personaggio era, nella migliore delle ipotesi, un gran pezzo di merda. In questo senso Cesare Lombroso era propriamente “un uomo del suo tempo”.
Ogni volta che ci viene la tentazione di prendere le parole del medico di turno alla ribalta, come metro su cui organizzare la nostra vita, sarebbe bene ricordarsi che Marco Ezechia Lombroso (in arte Cesare) fu un medico di grido, e che la convinzione che il comportamento criminale avesse origini biologiche e universali (come se la definizione di crimine non dipendesse dall’ordinamento giuridico in vigore in un luogo e in un tempo contingenti) e non sociali gli derivava proprio dai suoi studi di medicina.
Assurdità simili le puoi teorizzare solo se sei fondamentalmente convinto dell’esistenza di una verità universale e conoscibile. E della conseguente definibilità della menzogna.
Ti dirò di più. Lombroso era convinto di poter capire se una persona stava dicendo il vero, poiché secondo lui il distacco dalla verità provocava nell’individuo effetti fisiologici osservabili e quantificabili. Quando il fisiologo Angelo Mosso, sul finire degli anni Novanta dell’Ottocento, progettò e costruì per le sue ricerche un apparecchio in grado di rilevare le variazioni della pressione sanguigna degli arti e le variazioni del battito cardiaco, che chiamò idrosfigmometro, Lombroso ne convertì l’uso in quella che definì come una “macchina della verità” in grado di capire, attraverso la misurazione degli effetti fisiologici che attribuiva alla deviazione dalla verità, chi stesse mentendo. Così cominciò con gusto a partecipare, con quello strano aggeggio, agli interrogatori di polizia. Lo strumento di verità era, per il medico criminologo, uno strumento di repressione.
Anche lo psicologo americano William Moulton Marston era convinto dell’esistenza di una verità incontrovertibile, e che si potesse stabilire con buona approssimazione se un individuo stesse mentendo o meno, grazie a un poligrafo (progettato da lui stesso circa un decennio dopo quello utilizzato da Lombroso) che registrava le variazioni di pressione sanguigna durante una conversazione. Al di là di questa sciocca convinzione positivista e antikantiana, null’altro accomunava però i due uomini. Anzi, si può dire che, a differenza del medico italiano, Marston non era proprio per nulla “un uomo del suo tempo”.
Nello stesso anno in cui Marston mette a punto il suo poligrafo, quel 1913 che fu l’ultimo anno di pace per l’Europa, Emmeline Pankhurst tiene il suo secondo “speaking tour” negli Stati Uniti. Dato che la rivista “Time” l’ha definita come una delle persone più importanti del secolo scorso, non starò a raccontarti chi era: immagino che la sua lotta femminista (in particolare per il diritto di voto delle donne britanniche) ti sia largamente nota.
Quindi veniamo al dunque. Ora: non ricordo se il famoso discorso Libertà o morte, Emmeline lo tenne a Boston o a Hartford (tanto la traccia principale era la stessa), sta di fatto che Marston la senti parlare a Boston e sembra che dopo averla conosciuta di persona, sia diventato un fervente femminista. Sicuramente fervente femminista era sua moglie (si conobbero ad Harvard proprio negli anni del poligrafo e si sposarono nel 1915) Elizabeth Holloway, redattrice capo dell’Enciclopedia Britannica.
Appassionati di BDSM, Mr. e Mrs. Marston troveranno, dieci anni dopo, nella giovane studentessa Olive Byrne la loro mistress d’elezione, e con lei condivideranno tutto il resto della loro esistenza.
La storia della loro vita insieme e della famiglia che costruirono è splendidamente raccontata da Jill Lepore in un libro di cui da cinque anni auspico la traduzione in italiano.
Nel 1940 la National Periodical Publications (che di lì a poco diventerà DC Comics) chiede a Marston una consulenza, in quanto psicologo, per analizzare un sondaggio condotto su un campione dei suoi lettori e capire come migliorare la risposta del pubblico alla loro produzione di fumetti.
L’analisi di Marston lo portò a sottoporre alla NPP una proposta che tendeva a colmare l’assenza di personaggi femminili tra i protagonisti dei loro fumetti supereroistici, e che nello specifico riguardava la realizzazione di un supereroe femmina, femminista e (paradossalmente?) strettamente connessa all’immaginario bondage. In realtà l’idea è un prodotto di famiglia, Elizabeth e Olive hanno la stessa responsabilità di William (o forse addirittura un po’ di più) nella creazione di Wonder Woman.
Le cazzate (un po’ lombrosiane) di Fredric Wertham sono ancora lontane (mancano circa 15 anni) così, sul numero di “All-Star Comics” del dicembre del 1941, con i disegni (sensualissimi) di Harry G. Peter sui testi di Marston, vede la luce la prima avventura di Diana Prince/Wonder Woman.
Ora, fino alle edulcorazioni della metà degli anni Cinquanta, le storie di Wonder Woman saranno denotate – in un perfetto equilibrio narrativo – dalle tematiche BDSM: corde, catene, bavagli. Solo uno di questi oggetti, il lazo dorato di Wonder Woman, avrà sempre una diversa connotazione: un irresistibile potere di verità. Ogni volta che Wonder Woman lega qualcuno con il suo lazo, costui è obbligato a dire la verità. Considerando che il bondage è una pratica di piacere, possiamo vedere proprio in questa particolare tipologia di “macchina della verità”, la differenza che corre tra gli uomini del loro tempo e gli uomini contro il proprio tempo. Se per lo sbirro Lombroso trovare la verità equivaleva a reprimere e imprigionare chi ne deviava, per il fumettaro Marston invece il processo per trovare la verità passa necessariamente attraverso la menzogna (le tecniche del BDSM sono finzione) e questo significa, sopra ogni altra cosa, raggiungere la libertà del godimento.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.