Non so dirti la gioia che mi ha investito domenica 3 settembre 2006, subito dopo pranzo. Ti ricordi com’era il mondo prima degli smartphone e dei social network? Non ti offendere. Te lo chiedo solo perché io mi trovo spesso a chiedermi come facessimo a vivere prima di Google. Comunque, anche se fai quella smorfia di fastidio, lo so bene che non te lo ricordi mica. Non bisogna vergognarsene: la memoria funziona così. Tende ad appiattire tutto sulla contemporaneità. Pensa che uno dei grandi problemi degli storici è riuscire a non attribuire ai personaggi che studiano le loro emozioni e il loro sentire.
Comunque, una quindicina di anni fa, mica ti vibrava una tasca quando ti arrivava una mail. Dovevi per forza accendere il PC, attaccarlo a Internet con il doppino telefonico (ché gli utenti Internet, nel mondo, erano solo 3 o 400 milioni), sentire la musichina della telefonata al provider e del modem che riceveva informazioni, aspettare tantissimo che il programma usato per leggere la mail caricasse i nuovi messaggi.
Quel giorno ho appena finito di pranzare e decido di dare un’occhiata alla posta. Mi dedico al rito lunghissimo e… BAM!
Mail di Luigi Bernardi che mi dice che ha appena iniziato a lavorare con Alberto Perdisa, un editore di Ozzano Emilia, suo paese natale, che gli ha assegnato la direzione del marchio. Per prima cosa, Luigi vuole costruire una collana pop: «novelle, piccole antologie, invettive, reportage, collage, cose così», dice. A quel punto mi chiede se ho voglia di inserire, in quella collana, il canone del fumetto che sto pubblicando, giorno dopo giorno, sul mio blog.
Non so dirti la gioia. Luigi Bernardi, anche se è nato solo 15 anni prima di me, è mio padre. Lui non lo ha mai saputo, ma mi ha, a più riprese, cambiato la vita. Lo ha fatto quando ancora non avevo 14 anni donandomi “Orient Express” e L’Isola Trovata. Lo ha rifatto quando, per poco più di un lustro, negli anni Novanta, mi ha inchiodato con i libri e le riviste di Granata Press. Ho risposto a quella mail con il consueto aplomb: «Cazzo! Sì!»
Poi mi metto di buzzo buono a completare il canone. In poche settimane è pronto; ci ho pure aggiunto una prefazione e una postfazione, nelle quali ho coinvolto alcuni amici. Lo spedisco a Luigi colmo di gioia e di orgoglio. Poco dopo mi scrive una mail contenente la più dura delle stroncature. Mi dice che ho tenuto, in tutto il libro, un tono di cazzeggio che smussa tutte le intuizioni critiche, che pure ci sono, e che i testi in apertura e chiusura sono noiosi e dannosi. Dice che ho fatto di tutto per trasformare un libro potenzialmente imprescindibile nell’ennesimo libro inutile.
Difendo le mie scelte: il tono leggero serve a dire che esiste un modo di parlare di fumetto diverso da quello innervato da cerimonia e sacralità che si sente continuamente in giro, e la prefazione e la postfazione dichiarano quanto sia importante la convivialità per evitare quell’approccio critico inutile e dannoso. Lui mi asseconda, senza nulla pretendere. La cosa si risolve con un paio di mail, scambiate durante una serata primaverile.
Chiaramente aveva ragione lui e Spari d’inchiostro: Appunti per un canone del fumetto è un libro decisamente inutile.
Quando ci incontriamo a Bologna, qualche giorno dopo l’uscita del libro, sono nervosissimo. Cerco di litigare con Luigi, perché non si è imposto in nulla. Ho un’idea romantica di editoria e mi aspetto dei confronti, anche ruvidi, con l’editor. Voglio lo scontro frontale e duro: in fondo, è mio padre. Me lo deve!
Luigi mi guarda, stringendo gli occhi a fessura, sorride sottile senza mostrare i denti, aspira forte dalla sigaretta. E, rilasciando il fumo, mi dice: «Se avessi voluto impormi su qualcosa, avrei preteso la presenza di Franquin in quel libro. Che canone del fumetto è senza Spirou e Gaston? La loro assenza è inaccettabile.»
Ah… Luigi… Cazzo, sì…
L’8 novembre 1956, nelle edicole francesi e belghe esce il novecentosessantanovesimo numero di “Spirou”. André Franquin è al suo meglio e, proprio quella settimana, incomincia a raccontare la storia Le Nid des Marsupilamis. Una magnifica vicenda che ruota intorno a una conferenza – e a un documentario – sulle abitudini di questo primate fortissimo, intelligente e dotato di una coda lunghissima, che proviene dalla Palombia. Il marsupilami è stato inventato quattro anni prima, ma è in questo episodio che conquista la sua centralità. Un capolavoro imprescindibile, in cui il ritmo e la comicità sono scanditi dal verso dell’animale: «Houba».
Franquin ha trentadue anni. Di lì a poco creerà Gaston La Gaffe e, afflitto dalla depressione, deciderà di riservare la sua grandezza comica solo a questa serie, privando i lettori di Spirou e Fantasio della sua presenza. Prima di morire di infarto a 73 anni, realizzerà Idées noires, che è una serie che è stata raccolta in un unico volume (anche in italiano, stampata benissimo, ma con un lettering inguardabile) e che se non l’hai ancora letta, smetti qui e ci vediamo dopo… ti aspetto, eh).
In mezzo a tutta questa bellezza ci sono i marsupilami che si muovono sulla pagina con un dinamismo e un equilibrio commoventi.
Roger Brunel, l’anno scorso, ha pubblicato un libro interessantissimo. Si chiama Ma leçon de BD par Franquin. Racconta di quando, negli anni Settanta, aveva mandato un fumetto a “Spirou” e la redazione lo aveva inoltrato a Franquin per avere un parere. Il gigante si era preso il suo tempo e, nel frattempo, la storia di 13 pagine era stata pubblicata.
Poi, inaspettatamente, quattro mesi dopo, Brunel riceve un plico da Franquin: contiene le prime quattro pagine del suo fumetto sezionate e analizzate. Franquin ha ridisegnato su fogli di carta da fotocopiatrice le vignette, modificando le dimensioni, le posizioni dei corpi, le inclinazioni. Ogni volta, con un intervento mirato, tracciato rapidamente a matita su carta destinata al cestino, ha trasformato il disegno dell’autore esordiente in un’immagine indimenticabile. Ecco, quello era Franquin: dinamica dei corpi e delle inquadrature che diventano ritmo del racconto. Uno dei più grandi fumettisti al mondo.
Il marsupilami è proprio così. Un corpo scattante, agile, forte, nervoso, capace di rilassarsi per dedicarsi alla pigrizia più esasperante, e una coda, lunghissima, che si arrotola e srotola nelle vignette e nelle tavole, donando alla pagina equilibrio e ritmo. SI rallenta e si accelera inseguendo con lo sguardo la coda del primate, fino a quando non arriva quel suono inconfondibile: «Houba».
Tutte le volte che qualcuno parla della vastità e dell’articolazione del mercato del fumetto francofono, sento la tensione nervosa risalirmi le vertebre cervicali. Ho voglia di andarmene. Il motivo, l’ho capito solo di recente. Me lo ha spiegato il mio amico Giorgio Trinchero: si usa il lemma “arte” (magari facendo precedere quella parola da un numero ordinale), ma si intende “denaro”. Infatti, subito dopo aver tessuto le lodi del mercato francese, questi signori iniziano a lodare gli aiuti statali all’editoria. E mica parlano di supporto alla promozione, ma proprio di finanziamenti ed euro sonanti.
La cosa che amo di più del fumetto francese è che la serialità e i personaggi, salvo alcuni casi (gestiti quasi tutti da Moulinsart), non sono ammantati da una sacralità che li avvolge come un sudario. Autori che nulla parrebbero avere a che fare con un personaggio, riescono a trovare un modo per confrontarcisi, e talvolta ne cavano perfino bellezza. Penso a Sfar e Blain con Blueberry, a Blutch con Tif et Tondu, o addirittura a Loisel o Trondheim con Mickey Mouse e Donald Duck. Succede continuamente, anche in forme meno esplicite, con riscritture, parodie, omaggi (e infatti i dipendenti dell’ufficio legale di Moulinsart mica sono preoccupati di perdere il lavoro).
Qualche settimana fa è uscito per Dupuis il primo volume de La Bête di Zidrou e Frank Pé, 130 pagine di struggente bellezza che raccontano il primo contatto tra un Marsupilami e l’immediato dopoguerra belga. Già nelle prime dieci pagine succede un sacco di roba:
I trafficanti che stavano trasportando animali esotici ingabbiati non si aspettavano di rimanere in panne in mezzo all’Oceano. In attesa della riparazione, hanno dovuto fare delle scelte e l’acqua è stata razionata tra gli uomini. Il carico osceno, ingabbiato nelle stive, è rimasto lì, per giorni, su una nave immota, sotto il sole giaguaro, a morire di caldo e di sete. Solo uno strano animale riesce a salvarsi. Ha il pelo giallo maculato e la coda lunghissima: è magro, assetato, furioso. Si libera dei suoi carcerieri (non vedo cosa fa loro, ma sono certo che se lo siano meritato). E poi libero, sul ponte della nave, nel porto di Anversa, lancia il suo grido: «Houba».
Il marsupilami magro e affamato, sporco e furioso, che circola liberamente per Anversa, rifugiandosi nei boschi e cercando di sopravvivere, non è una metafora. È una storia potentissima che omaggia uno dei più grandi narratori del Novecento.
Scusami, Luigi. Avevi ragione tu.
Sì, cazzo.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).