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Sembra stendere i panni completamente a caso, il mio vicino. Le calze sono dispari e tutte diverse. Colorati insieme a bianchi (ormai grigi). Basterebbe seguisse un ordine di grandezza, come tutti: i capi piccoli vanno davanti, e via via si procede con quelli più grandi.
Un giorno una sua camicia ha preso vita. Il vento si è fatto corpo, l’ha indossata, e ha cominciato ad agitarsi. Ho subito creduto che fosse un modo di dirmi che la biancheria è una sfera troppo intima e che non devo sbirciare. Così sono rientrata in casa. Ma il vento mi ha seguita intralciandomi la vista con la tenda, e per poco non mi ha fatto cadere. È invisibile, ma quando vuole sa farsi notare, ho pensato.
Da allora ne sento la presenza. So che c’è, quando le foglie gialle cadono, dondolando a ritmo autunnale; che è lui, a gonfiare la vela facendosi forza motrice; che come fosse fiato affannato, crea onda e risacca col mare. Katrina, Wilma, Katia, Ike, Laura, Harvey: se si deprime, può devastare tutto ciò che trova. Se si contamina può diventare un virus letale.
Si dice sia colpa sua se la Sicilia si è staccata dal continente, e merito suo il concepimento del figlio della vergine Maria. So per certo che si vede al freddo in forma di fumetto. E si sente al caldo sfiorarti le guance, come a ricordarti che c’è sempre, anche d’estate.
Credo che il vento sia il nostro interprete e che saremmo inerti senza lui ad animare il nostro corpo. Penso che ci dia vita, come fa con la camicia del vicino. Dopotutto, mi dico, nasciamo con un gemito e lasciamo tutto con un sospiro.