Quando devo scrivere un pezzo, accendo il PC e inizio a picchiare sui tasti. Proprio così. Niente pausa riflessiva, niente riti propiziatori, niente di niente. Semplicemente scrivo. Sono fatto così. Sia chiaro, non voglio millantare un’attitudine professionale, che con ogni evidenza non ho, né vestire i panni dell’iconoclasta che fugge dal mito romantico della scrittura. Più semplicemente, fino a quando non scrivo (o non parlo), non ho opinioni. L’unico modo che conosco per maturare un’idea è verbalizzarla. Se non la traduco in parole, nella mia testa ci sono solo frantumi di immagini e narrazioni che pogano e fanno headbanging.
Mi piacciono i vincoli. Adoro le commissioni, perché mi consentono di mettere a fuoco quello che penso su un tema. Se non ho un committente, i limiti entro cui muovermi me li devo costruire da solo.
Per le pantomime (e, prima, per le bagatelle) le regole sono chiare: Boris e io scriviamo a turno, partendo dal punto in cui si è fermato l’altro e cercando di fare un discorso che si tenga, quasi fosse un dialogo a distanza, in un periodo in cui è difficile chiacchierare a cena o in osteria. In più, da quando QUASI ha un tema settimanale, bisogna giocare anche con quello. Possiamo accoglierlo in pieno o passargli accanto, negarlo o ignorarlo, ma dobbiamo farlo consapevolmente.
Ecco, in questo momento, mi manca la cena settimanale con Boris. Il discutere ruvido, il prendersi in giro, il litigare per il gusto di farlo, il progettare sciocchezze che, QUASI mai, si concretizzano… Vorrei che il mio miglior nemico fosse qui. Perché, come mi ha spiegato Tito Faraci con il suo racconto della dialettica tra Topolino e Gambadilegno, nella rivalità più accesa, se dura così tanto tempo, c’è necessariamente molto amore.
Lascia che ti racconti come sarebbe iniziata la nostra serata in un altro momento.
Ci incontriamo davanti alla porta del locale. Lui arriva in bici oscillando pericolosamente. Smonta dal sellino senza cadere (per un caso che assomiglia incredibilmente a un miracolo). Evita di essere strangolato dalla tracolla del tascapane, arrotolata tra polso e manubrio. E, finalmente, mi si para davanti sorridente e si vanta delle sue qualità di ciclista. Entriamo, ci sediamo, scegliamo il vino e poi decidiamo cosa mangiare (sempre, in quest’ordine). A quel punto parte il consueto tafferuglio. Di solito, lo ammetto, quello più aggressivo sono io: «Come fai, tu che professi anarchia, a capire meglio un discorso di Fidel Castro rispetto a Tantrum? Come fai?». Non appena l’eco del suo «MA VA’ A CAGARE!» si dissolve e le persone sedute agli altri tavoli smettono di guardarci, iniziamo a litigare.
Quanto mi manchi, Boris. Questa distanza fa sì che noi si debba litigare per procura.
Jules Feiffer è un signore del 1929. Oggi ha novantun anni e, se fai una ricerca con il suo nome, ottieni una lunghissima infilata di fumetti, testi teatrali, sceneggiature, libri per ragazzi e interventi critici. Stai certo che tutti – TUTTI – meritano la tua attenzione. Quando nel 1979 pubblica Tantrum, un libro contenente una lunga storia a fumetti, ha cinquant’anni, è nel mondo del fumetto da quando, sedicenne, era entrato come assistente nello studio di Will Eisner, pubblica la sua striscia sul “Village Voice” e libri di successo da oltre vent’anni.
Tantrum racconta di Leo, un uomo rispettabile con una famiglia da telefilm: una moglie e due figli, un maschio e una femmina. È ben voluto da tutti, addirittura dai figli. Ha un posto di lavoro invidiabile, è il direttore di un’azienda importante. Ha una famiglia d’origine affettuosa e, come da copione, non è mai riuscito a recidere completamente il cordone ombelicale.
È chiaro, lo vedi, la situazione è intollerabile e Leo ha periodiche crisi depressive: si siede sul davanzale della finestra con le gambe penzoloni. Quando la moglie cerca di scuoterlo dal torpore e di riportarlo alla vita, Leo affronta la sua crisi di mezza età come avrebbe fatto chiunque: rifiuta la prigionia impostagli dal tempo passato. Dichiara con forza e vigore di essere più giovane. Poi fa una cosa che noi non faremmo. Non ha, dice, quarantadue anni! No! Ne ha quattro! Tre! Due!
Ecco. Mentre tutti sogniamo di tornare alla bellezza delle carni ventenni, lui regredisce all’infanzia. Completamente. E non è vero che, come dice Boris, Feiffer dipinge Leo «come un idiota perennemente deluso in quel viaggio a ritroso, ma lo fa marciare verso un radioso avvenire nel finale». Leo, quell’idiota, sono io. Tutte le volte che leggo quella storia. E mentre scelgo di regredire ai due anni e di godermi una seconda occasione, vengo deluso da tutto quello che la vita mi mette di nuovo di fronte, anche se, questa volta, avrei dovuto avere più strumenti.
Nel 2010, l’ottantenne Feiffer ha scritto la sua autobiografia, intitolata Backing Into Forward. Altro che andare avanti senza fare un passo indietro, nemmeno per prendere la rincorsa. Quella è roba che piace agli esseri umani che amano definirsi “veri uomini”. Jules Feiffer lo dichiara esplicitamente, fin dal titolo della sua autobiografia, ha deciso di vivere – a lungo e proficuamente – a marcia indietro in avanti, tra esaltazioni e balbettii, tra sicurezze e frustrazioni, tra dolcezze e paure. Come un uomo vero.
C’è, in chiusura dell’autobiografia di Feiffer, un breve fumetto. L’autore si mette in scena per raccontare i suoi ricordi più privati, quelli che le parole scritte fino a quel punto non gli consentono. Perché il disegno e il fumetto gli permettono un’onestà e un’articolazione del pensiero assolutamente superiori.
Feiffer lo dichiara esplicitamente: «Fred Astaire faceva sembrare facili le cose difficili e questo suo modo di fare è stato per me un modello, per tutta la mia carriera. Ora, la cosa migliore dell’essere un fumettista è che puoi disegnarti come chiunque ti piaccia. Per cui, scusatemi mentre finisco il mio ballo.»
Boris, non possiamo andare a cena. Immaginami mentre ti prendo per il culo per come inforchi la bicicletta. E poi mentre mi allontano. Con un passo di danza.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).