Spegnete la luna. Il dito è ammutolito.

Arabella Strange | Rorschach |

È difficile, per me, dire Wish you were here senza cadere nella trappola dei sentimenti.
E allora ho intenzione di caderci senza fare resistenza.

Vorrei che fossi qui. È dalla fine di aprile di tre anni fa che lo penso almeno una volta al giorno. Ti intravedo tra la gente, e so che non sei tu. Compongo il codice che sblocca la porta della radio, e mi trovo a ripetere il tuo gesto, di coprire con la spalla la tastiera metallica, perché non si sa mai. Io che son così distratta da lasciare i soldi nel bancomat, da anni mi ricordo di difendere quel digitare veloce. Negli studi è una festa di fantasmi, ma sei sempre tu. Il timbro della tua voce ha un fantasma a parte, un po’ metallica, sonora, ironica, abita nella mia testa, e mi prende in giro, e io da te accetto anche questo, come un regalo finale. Ci sei scomparso tra le mani, tu così grosso e imponente, che le cariche della polizia si aprivano e tu restavi come uno scoglio in una mareggiata, col tuo soprabito chiaro e l’ombrello aperto, in un mese ciao, in un mese in cui ho imparato a memoria il percorso per la tua stanza d’ospedale, e c’era sempre qualcuno, e un giorno, assurdo, abbiamo cantato. Anche tu, e sembrava quasi un giorno qualunque, il compleanno di qualcuno, invece sapevamo che mancava poco, poi fine, chiuso, avanti da sole, da soli. Ancora adesso chiacchieriamo nella chat fatta per tenerci informate mentre eri in ospedale. La storia di quella chat, di chi è uscito, di chi è entrato, sarebbe un romanzo a parte, a guardare da vicino le cose si vedono chiaramente i fili colorati delle storie che si annodano e si snodano, si ingarbugliano e si sbrogliano, io il tuo filo lo intreccio ancora, emerge col suo colore speciale dalla trama delle giornate e dei lavori, delle passioni e delle fantasie, e delle cazzate in cui mi giro, sempre verso destra, non so perché, aspettando il tuo commento sferzante. Da che mi manchi tu, mi manca chiunque, perché ho capito che per un po’ si balla – quanto abbiamo ballato – poi si accendono le luci, il locale chiude, e si esce in quell’ora incolore, ci si divide nelle macchine, a volte ci si saluta a volte no, è l’alba, abbiamo sonno, fine. Fine dell’immortalità infantile, che restava come un’ape dentro di me, piccola e indomita, anche se qualcuno lo avevo già perduto, ma mai così in tempo reale, in un rallentatore velocissimo, neanche un mese.
Tu sei quello che vorrei fosse qui. Altri sono spariti, ma basta darsi un po’ da fare, chiamare, scrivere, e persone un tempo amatissime e indispensabili rispondono, ci si racconta un po’, ci si rassicura. Tu sei sparito come quando perdo le cose in casa e vago per le stanze sollevando tutti i libri appoggiati su sedie e tavoli, i vestiti ammucchiati, ma niente.
C’è solo il tuo filo colorato, intrecciato al mio, e questo me lo faccio bastare. Lo sfioro con un dito, scompare e riemerge, e se chiedo alla tessitrice che mi abita e mette insieme il caos intrecciando qualunque materiale, ordinandolo perché diventi una storia invece di soffocarmi, non posso che essere d’accordo. E’ moltissimo, perché è più di niente,

Tra i libri che ci siamo scambiati c’è Rosso Floyd di Michele Mari. Eravamo pieni di entusiasmo da scoppiare, dopo Tu sanguinosa infanzia e Verderame, e a me i Pink Floyd non piacciono neanche. Ma Mari ha il dono di creare una specie di tenebra luminosa in tutto quello che racconta, e la storia di Syd Barrett diventa magica e tremenda, come nelle fiabe. Come se un mostro l’avesse divorato. Shine on you, crazy diamond. Sono andata ad ascoltarmi le prime canzoni, Irriconoscibili. Per me erano la band che faceva pezzi lunghissimi che i miei amici un po’ più grandi ascoltavano religiosamente. Poi ho scoperto l’unico disco con Syd Barrett ancora in formazione, The Piper at  the Gates of Dawn, e ho ascoltato See Emily Play, che apre il disco nell’edizione americana, e sembra un pezzo dei Beatles, e Interstellar Overdrive, lo strumentale che lo chiude, e spiega qualunque momento successivo, accaduto in qualunque sala prove del pianeta, in cui i chitarristi col bassista al seguito si perdono in improvvisazioni di un’ora, mentre la cantante sta seduta in un angolo in attesa che si stanchino. Persino durante i concerti capita di girarsi verso un’amica o un amico per commentare “seghe da sala prove”. E si capisce, e si perdona, perché, insomma, c’è stata roba come Interstellar Overdrive. Ho scoperto che Roger Waters era addirittura riuscito a prendere un appuntamento con R.D. Laing, ma Barrett si è rifiutato di uscire dalla macchina. Nel romanzo di Michele Mari l’ombra di Syd Barrett di stende sui Pink Floyd come una ragnatela, c’è un capitolo in cui la registrazione di un pezzo in studio è raccontato come una seduta spiritica. E ci sono i due mostri, le teste intrecciate per divorarsi, o accoppiarsi, uno scontro mitologico tra qualcosa e qualcos’altro, scegliete. Per me i due mostri sono la follia e la sanità mentale. Non cerco un’interpretazione del libro, è lei che ha trovato me, immediatamente, dopo le prime pagine. L’assenza di Syd Barrett, che era vivo ma anche morto, chiuso nella sua casa, un gatto di Schrödinger terrificante, è l”essenza dell’orrore e del fascino che galleggiano sopra ogni pagina di quel Necronomicon della musica psichedelica. La mancanza di qualcuno che c’è, e puoi proprio dirgli che vorresti che fosse lì con te, ma tanto non sente. Non ha voluto incontrare nemmeno Laing, insomma.
Poi ci sono quelli passati dall’altra parte, e su di loro abbiamo un’informazione in più: non tornano. Non possono migliorare, o cambiare idea. Abbiamo quel che abbiamo, fine.

Tu Laing l’hai letto appassionatamente, e il mese scorso ho ricomprato Nodi, perché volevo rileggerlo, e perché sento chiaramente la tua voce, e la mia, mentre ci scambiamo entusiasti «Stanno giocando a un gioco. Stanno giocando a non / giocare a un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare, / infrangerò le regole e mi puniranno. / Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco.» e «In lui c’è qualcosa che non va / perché crede / che in noi ci sia qualcosa che non va / per il fatto che cerchiamo di aiutarlo a vedere / che ci dev’essere qualcosa in lui che non va / se crede che ci sia qualcosa in noi che non va / per il fatto che cerchiamo di aiutarlo a vedere che / lo stiamo aiutando.».
Nodi ancora ha il potere di emozionarmi, la forma poetica, l’infinito monologo che diventa involontario dialogo di John e Mary, e ogni poche pagine si inciampa, e ci si trova dentro Mary, o John, e cazzo Laing, come l’hai beccata questa dinamica, com’è essenziale nella sua spiegazione, e storpia nella sua articolazione, sillogismi feriti e deformi che ci si affollano intorno come fantasmi.
Wish you were here, a volte, cara me stessa che riesce ad avere una conversazione col mondo. La tentazione di chiedere a te, e solo a te, di rimanere e riempirmi come un palloncino da fiera, è fortissima, Liberiamoci di questo gas tossico di paura sfinimento e troppa immaginazione. Ma ho ben presente la vecchia maledizione di origine yiddish: «May you have what you wish». Attenzione a quel che desideri. Ci sono probabilmente centinaia di racconti che ci mettono in guardia: per me, soprattutto, il racconto seminale di W.W. Jacobs, The monkey’s Paws pubblicato in una raccolta nel 1902, e I wish I may, I wish I might di Bill Pronzini, del 1973. Nel primo una coppia esprime il desiderio il ritorno del figlio morto, ma dimentica di specificare in quali condizioni. Nel secondo un genio viene liberato da una bottiglia da un ragazzino, e gli garantisce tre desideri. Peccato che il ragazzino sia oligofrenico, e chieda che ci sia caldo e piova limonata e tutti i bambini e le bambine siano come lui così potrà giocare con tutti. Ma al di là di piogge di limonata e figli morti, io diffido moltissimo di quel che desidero. Ho amato e desiderato persone che mi hanno ignorata, e avrei liberato cento geni dalle loro bottiglie per essere ricambiata, e adesso non ci uscirei a mangiare la pizza. Perché è difficile misurarsi col desiderio. Trovare quello vero, profondo, che scorre sotto tutte le cianfrusaglie che accumuliamo, e dire sì, questo. Sia quel che sia, è questo che voglio.
Io sono ancora allo stadio in cui desidero desiderare,

R. D. Laing, maestro dell’antipsichiatria che a sorpresa, nel 1970, ha pubblicato questo libro di poesia, Knots, Nodi, parla spesso di maya, dharma, e anche il famoso dito che indica la luna compare, verso la fine, in un libro che con precisione e apparente distacco (ma è chiaro che non sta parlando solo delle dinamiche dei suoi pazienti), sta parlando dell’umanità, descrive i giochi spesso perversi e crudeli che giochiamo. Si chiude con una poesia che è la mia preferita: «L’asserzione non addita / il dito è ammutolito».

Voglio, sono, credo, è così, non è così. Il dito ammutolisce, la luna si scioglie come un ghiacciolo al limone. Torna qui. Non lasciarmi. No, non funziona mai con le asserzioni, con le cose che sono. Vorrei. Questo non so se funziona, ma è un amuleto da conservare in una piccola tasca, Io, vorrei. Lo dice William Wordsworth, nella poesia resa famosa dal film di Kazan, Splendore nell’erba: «We will grieve not, rather find / Strength in what remains behind». È troppo difficile non dolersi, e non sono bigotta riguardo al dolore: ognuno soffre il suo, ed è difficile contarne lame e spigoli acuti, ma mi interessa trovare forza in ciò che resta.
Per esempio, che non ci sei, ma sei con me, sempre.

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