È facilissimo diventare disumani. Il concetto di umanità è talmente complesso e sfuggente da consentire ai nazisti di considerare gli ebrei non umani e ammazzarne sei milioni, con la coscienza pulita. L’Umanità è un iperoggetto di cui siamo parte, non è possibile vederlo da fuori. Se sbarcasse una razza aliena – speriamo non Zog, che in uno degli innumerevoli romanzi di Kilgore Trout sbarca a casa di uno per avvisare gli umani di una catastrofe, e siccome il suo linguaggio si compone di scoregge e passi di tip tap, l’umano gli sfonda il cranio con una mazza da golf – potrebbe dirci forse cos’è un essere umano. Noi, credo, siamo rimasti all’idea di bipede implume a unghie larghe.
Ecco una storia che adoro. I filosofi dell’Accademia platonica avevano pensato a una definizione essenziale dell’uomo: “bipede implume”. Diogene il Cinico era arrivato con un pollo spennato: «Ecco l’uomo di Platone». I platonisti con un colpo di genio e umorismo involontario aggiunsero alla loro definizione in “con unghie larghe”. Com’è facile avere ragione e torto allo stesso tempo.
Una volta ho letto di un bambino nato senza cervello: era umano? È quella cosa lì, il cervello, l’umanità? A complicare le cose ci sono gli studi sulle emozioni degli animali, che sembrano ridurre il divario tra Adamo e le creature di cui, su indicazioni di Dio, ha scelto il nome.
Trovo che il miglior modo per disumanizzare qualcuno sia l’uso allegro del pronome “loro”. Loro vengono, loro non fanno, fanno, le loro abitudini, a casa loro. Da anni mi sono imposta, quando dico “loro”, a meno che non mi stia riferendo agli amici che devono raggiungerci a cena, mi fermo un attimo e cerco di circoscrivere. Loro chi? Qual è l’azione, l’appartenenza che li rende “non noi”? A volte servono un sacco di parole, e mi rendo conto di come la generalizzazione ammazzi l’empatia. Che, a quanto pare, abbiamo in dotazione fin da neonati. È il fenomeno per cui se in una nursery un neonato piange cominciano a piangere anche gli altri. Gli stessi neonati che, anni dopo, diranno «Aiutiamoli a casa loro».
Mi trovo spesso anche a pensare quanto io sia me e non qualcos’altro quando, per esempio, cambio farmaci e attraverso periodi in cui non mi riconosco più. O durante una crisi depressiva. Mi sembra, cambiando, di perdere parzialmente la mia umanità. Mi sento aliena. Eppure succede a milioni di persone. Ma non poter contare sulla propria mente, o sentire il proprio corpo che diventa insensibile alla fame, al sonno, al desiderio, porta a domandarsi se davvero fai ancora parte del grande gruppo di quelli che vedi vivere, lavorare, divertirsi, piangere. Ti senti più vicina a una carota.
E sono gli altri, le amiche e gli amici, che ti ricordano che sei ancora umana. A volte anche una canzone, un libro. Bastano pochi minuti, qualche volta, per risentire dentro di sé quella sensazione di cui ti accorgi solo quando manca, un nodo di energia interiore, quasi solido, lì vicino a dove si respira e il cuore batte.
Nel mio libro preferito di quest’anno, Cosi si perde la guerra del tempo, di Amal El-Mohtar e Max Gladstone, due avversarie si affrontano sul terreno dei diversi flussi temporali. Innumerevoli intrecci di molteplici fili, ognuno dei quali porta a una versione del futuro. E Red e Blue sono nemiche, lottano per proteggere il loro tempo, la loro versione di futuro. Il futuro da cui Red parte in missioni che comportano guerre, omicidi, o solo spostare un oggetto, l’umanità ha trasceso il corpo, che sembra essere interamente bionico, e ha acquisito la capacità di percepire porzioni dello spettro elettromagnetico a noi precluse. Il futuro da cui proviene Blue, altrettanto spietata ed efficiente, è un «Giardino, in cui la modificazione genetica in direzione vegetale è portata all’estremo». Il romanzo ci fa intuire questi corpi dis/umani, più che descriverli, ma l’umanità è luminosa e presente nei biglietti che, sui supporti più svariati, le due agenti nemiche si lasciano sul campo, in un dialogo epistolare che le porterà a innamorarsi, e a contaminarsi.
A me piacerebbe contaminarmi un po’ nel transumano. In uno dei casi raccontati da Oliver Sacks in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, un ragazzo di 22 anni con una frequentazione assidua di coca, PCP e soprattutto anfetamine, «sognò, con grande vivezza, di essere un cane in un mondo di odori incredibilmente ricchi e significativi». Al risveglio non solo la sua visione dei colori si è acuita e ha sviluppato una memoria eidetica, ma il suo olfatto, iperpotenziato, è proprio quello di un cane. E il mondo cambia. Niente è veramente presente se non lo tocca e non lo annusa. Quando, tre settimane dopo, quasi improvvisamente, tutto torna nella norma, lui dice: «Sono contento di essere tornato, ma è anche una terribile perdita». Freud ha definito più volte l’olfatto umano come una vittima del processo evolutivo e di civilizzazione. Il testo termina con i versi di G.K. Chesterton, dalla Canzone di Quoodle, che mi fanno spasimare di desiderio: «Oh, l’allegro odore dell’acqua, / l’ardito odore del sasso!»
Uno degli argomenti che stanno comparendo sempre più spesso nelle trame delle serie tv (Black Mirror nell’amatissimo episodio San Junipero, le serie Upload e Altered Carbon, per fare qualche esempio) è la possibilità di upload – ed eventuale download, in Altered – della coscienza umana. È interessante vedere i risvolti grotteschi di società in cui i corpi sono diventati avatar, o abiti da indossare e cambiare. Le interferenze tra capitalismo e aldilà digitale (Upload). Ma la domanda che mi resta conficcata come un chiodo è: una copia digitale di me sarei io? Mi viene da pensare che no, sarebbe una copia gemella. Ma poi penso che nel corso della nostra vita ogni qualche anno tutti gli atomi del nostro corpo vengono sostituiti, e ci ritroviamo al paradosso della nave di Teseo.
Continuerò a usare il termine “disumano” per descrivere dei comportamenti che sono, la storia lo dimostra, umanissimi. L’avarizia, la violenza, l’insensibilità alle sofferenze altrui, l’incapacità di identificarsi in un altro, o di prendere in considerazione le conseguenze a lungo termine di azioni che avvantaggiano un pugno di individui e intanto distruggono il pianeta, o annientano la libertà di intere nazioni.
Il giornalista Vittorio Arrigoni (ci manchi), assassinato nella striscia di Gaza nel 2011, chiudeva i suoi articoli con la frase «Restiamo Umani».
E mi domando se l’umanità non stia proprio nel chiedersi, di continuo, cos’è umano.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.
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