Io lo sapevo che stavano sottovalutando il gatto, non lo prendevano in considerazione: antropocentrici! Il gatto mentale nella scatola mentale dell’esperimento mentale di Erwin Schrödinger era destinato a mettere subito a disagio l’interlocutore.
«Si possono anche costruire casi del tutto burleschi.», scrive Schrödinger, «Si rinchiuda un gatto in una scatola d’acciaio insieme alla seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegrerà, ma anche, in modo parimenti probabile, nessuno; se l’evento si verifica il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disintegrato, mentre la prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione Ψ dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono degli stati puri, ma miscelati con uguale peso.»
È il 1935 e immagino Erwin Schrödinger, tutto contrariato dall’ipotesi di Copenaghen e dall’entanglement quantistico, che inventa questo esperimento mentale crudele che colpisce sotto la cintura: il gatto turba, altro che «casi burleschi». Per prima cosa vuole infilare un gatto in una scatola, un gatto che puoi immaginarti come vuoi – io grigio tigrato – e che probabilmente nella scatola «infernale» ci entrerebbe da solo: a casa mia se appoggi una scatola un attimo dopo c’è dentro un gatto. Perfino i grandi felini, come i leoni e le tigri, sono stati fotografati mentre si accomodavano dentro scatoloni che ovviamente si sfasciavano, ma l’istinto c’è.
Mi sembra di dover difendere un gatto tigrato da Erwin Schrödinger – perché non ha immaginato un topo, una cavia? Ammetti che è sospetto! È come Stephen King, che fa sempre morire qualunque animale compaia nei primi capitoli dei suoi libri: se a pagina tre inciampi nel cane di casa, in un coniglio, in un geco, sai già che farà una brutta fine. È una regola che fa eccezione solo per Cujo, che muore alla fine. Dai, Erwin, dovevi proprio pensare a una fiala di cianuro, che fa assassinio o esecuzione capitale o James Bond? E specificare la necessità di «proteggere [il dispositivo] dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto»?
Oggi ho scoperto, curiosando su Wikipedia, che la correlazione quantistica riguarda un sistema «atomo più gatto». Quindi: «Non è […] corretto dire che il gatto è in una sovrapposizione di due stati, perché la sovrapposizione riguarda l’intero sistema»: uno è “atomo non decaduto e gatto vivo”, l’altro “atomo decaduto e gatto morto”». Quindi «l’incertezza sulla sorte del gatto è “classica”: esso è vivo o morto con una probabilità del 50%, senza alcuna interferenza tra i due stati diversi.».
Il gatto c’entra. Lo sapevo. Non è un accessorio.
Il gatto lo sa se è vivo o morto.
Scherzo. Quanta bellezza nella fisica quantistica, soprattutto per una che in scienze andava male a scuola. Leggo tutto quello che trovo, ne capisco un centesimo, ma mi incanto lo stesso. Ah, il collasso delle probabilità, l’incertezza.
Nella vita quotidiana invece l’incertezza mi piace meno.
Per fortuna anche in questo caso compare un gatto, anzi, tre. Che grande consolazione. Ne ho addosso due, pesantemente addormentati, mentre scrivo. Qualunque pensiero sull’incertezza si ammorbidisce quando hai a che fare con esseri che dormono la maggior parte del tempo, si fanno sentire abbastanza educatamente quando hanno fame, e la notte si incastrano nelle nicchie create dal piumino sul tuo corpo rannicchiato, prendendo forme minerali, di grossi sassi pelosi. O di sciarpe, cappelli, stole.
Non ricordo un tempo senza gatti. Ne sono diventata ancora più consapevole durante i lockdown. Giro per casa da sola e parlo con loro, di solito per scusarmi di qualcosa. I croccantini in ritardo. Le ciotole non ben pulite. Per me sono interlocutori: hanno un set di risposte limitato, ma pieno di sfumature. Uno addirittura “parla”, cioè emette dei brevi miagolii interrogativi, a cui io, che ho una coazione a imitare i versi degli animali, rispondo, innescando dialoghi che possono durare anche un minuto. Non so che soddisfazione ne traiamo, esattamente, io e il gatto Saŝa. Immagino: il conforto di essere considerati, forse addirittura amati. Scrive William S. Burroughs, il 9 agosto del 1984: «Il rapporto con i miei gatti mi ha salvato da una letale, dolorosa ignoranza». Trova che i gatti siano «a volte misteriosamente umani». Li definisce «piccoli dèi del focolare, compagni psichici». E io sono completamente d’accordo con lui, in questo libro che si intitola Il gatto in noi (The Cat Inside) e alterna racconti sui suoi gatti a considerazioni come «Credo che nessuno possa scrivere un’autobiografia del tutto sincera. Sono sicuro che nessuno sopporterebbe di leggerla: Il mio passato è stato un lungo fiume malvagio.». C’è una gattità che si accorda molto bene con le persone disturbate. O creative. Sempre Burroughs scrive, parlando del rapporto tra la sua scrittura e i gatti: «Uno psicoanalista direbbe che sto semplicemente proiettando queste fantasie nei miei gatti. Sì, del tutto naturalmente e letteralmente, i gatti, quando investiti dei ruoli appropriati, fanno da schermi sensibili che riflettono atteggiamenti precisi». Burroughs riesce a essere maledetto anche parlando, estesamente, di gattini. Il libro si chiude così: «Noi siamo il gatto che è in noi. Siamo i gatti che non possono camminare da soli, e per noi c’è un posto soltanto.».
Che non possono camminare da soli.
Che si parli di particelle subatomiche o gatti domestici, si parla sempre di relazioni.
Scrive Carlo Rovelli ne L’ordine del tempo che «le cose non “sono”, accadono».
Il mondo è un insieme di eventi, di processi.
«La differenza tra cose e eventi è che le cose permangono nel tempo. […] Un prototipo di una “cosa” è un sasso. Possiamo chiederci dove sarà domani. Mentre un bacio è un “evento”. Non ha senso chiedersi dove sia andato il bacio domani. Il mondo è fatto di reti di baci, non di sassi».
Che il mondo sia fatto di reti l’ho imparato dal buddismo, la rete di Indra ha un gioiello appeso a ogni nodo, e ogni gioiello riflette lo splendore di tutti gli altri. Posso immaginare il mondo come una rete di baci, e sguardi, schiaffi, carezze. Che poi dire “rete” , o “eventi”, è descrivere gli ingredienti delle storie.
Parte della mia passione per i gatti nasce da un libro che avevo da piccola, un’edizione in formato grande, con la copertina rilegata, della traduzione italiana di Felix the cat, diventato Felix Mio Mao. «Il vero gatto è quello del 1923, quello nero, magretto, bizzarro», scrive Oreste Del Buono nell’introduzione. Quello di Otto Messmer e Pat Sullivan. E per me, grasso o magro, ogni gatto è così, «in confidenza addirittura eccessiva con ogni particolare del disegno in cui si trova a vivere. Capace di prelevare dal cielo una falce di luna per offrire una tranquillante culla a un neonato in lacrime, capace di rubare la melodia di un pifferaio per rianimare le gomme sgonfie della sua bicicletta, , capace di sfruttare il perentorio punto esclamativo del suo fumetto per farsi un remo…». Ho letto quella raccolta di storie decine di volte. È per questo che ho un debole per i gatti bianchi e neri.
Provo gratitudine per l’amore che tutti i gatti mi hanno consentito di dare loro, perché l’amore è il motore più potente della mia immaginazione. L’amore in generale, anche in forma di curiosità e meraviglia per il mondo. Come quella sventurata Krazy Kat di George Herriman, che si strugge per un amore che si nutre solo di se stesso, e mi spezza il cuore, ma la rende una sorgente inesauribile di storie perché la speranza è, a sua volta, una forma di storia. Krazy Kat pensa che Ignatz prima o poi la amerà. E quando arriva il mattone io vorrei massacrare quel ratto. Ma nella striscia successiva Krazy Kat è ancora innamorata cieca, e come si fa a non volerle bene?
L’amore è assurdo, poco descrivibile perché è descritto di continuo con miliardi di immagini e parole in tutte le lingue, ribalta realtà e certezze. Assomiglia, a volte, alla scatola di Schrödinger, col gatto dentro. Amare sembra facile. Aprire le scatole no: gatti morti, pensieri fastidiosi, ricordi accantonati. Relazioni che non si sa se siano vive o morte. Che vanno avanti, tranquillamente, per anni, vive e morte.
A volte penso: non voglio amare più nessuno. Poi prendo tra le mani il crapino di seta di Saŝa, affondo il naso in quella peluria sottile, gli do un bacio e annuso il suo odore di gattino.
Ho una certa riluttanza ad aprire le scatole. Approfitto del fatto che per l’inconscio qualunque gatto può essere vivo e morto allo stesso tempo, qualunque cosa può essere giusta e sbagliata, desiderabile e spaventosa, amata e odiata. Poi, se davvero vuoi sapere, fai collassare le probabilità e per la tua mente razionale una cosa diventa in un modo o in un altro. Ci dimentichiamo che il mondo non è fatto di cose, ma di eventi. E nelle profondità d’inchiostro dell’inconscio resta la sovrapposizione di stati, e quell’oscurità, che amo e temo e mi fa restare incantata a leggere di particelle che si comportano secondo leggi incomprensibili ai miei sensi e alla mia logica quotidiana. Ed è meraviglioso, perché vuol dire che il mondo davvero non è così compatto e impenetrabile come ho creduto per anni. È la stessa oscurità che mi fa sentire felice, profondamente felice e grata, di non essere sola con le mie scatole infernali. Di poter dividere la casa con questi folletti, i miei gatti, i miei piccoli specchi, i miei compagni.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.
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