Esattamente un anno fa, il 10 febbraio, è morta Claire Bretécher e non siamo ancora riusciti a metabolizzare il lutto, a fare pace con l’assenza di un’autrice gigantesca il cui ultimo fumetto è stato pubblicato nel 2009. I libri di Claire sono allineati sulla mensola e non hanno mai goduto della tranquillità necessaria ad accumulare polvere. Continuiamo a prenderli in mano e a rileggerli. A volte da copertina a copertina, altre spiluccando una pagina qua e una là.
Ci mettono inquietudine e, tutte le volte, riponiamo quei volumi con meno certezze di quante ne avevamo prima di prenderli in mano. E, lo sai, non siamo esattamente persone con fedi e convinzioni definite e consolidate.
Dobbiamo continuare a guardare i fumetti di Bretécher. Non possono ancora permetterci di concedere loro riposo. Il motivo di tanta frenesia è doloroso e difficile da verbalizzare: non li abbiamo ancora capiti. Sono difficili ma leggibili da chiunque. Disegnati con un’abilità straordinaria, simulano grande semplicità. Sicuramente non sono consolatori, ma non sono neanche un atto di accusa manifesta. Ci lasciano inquieti ed esasperati. Parlano di amori deludenti, di amicizie sopravvalutate, di lavori noiosi e arrancanti, di relazioni familiari che non arrivano mai a compimento, di passaggi generazionali che non rappresentano mai un’evoluzione o un’involuzione. Un mondo immutabile. Frustrante.
Le sistematiche riletture sono un dovere. Quelle pagine maledette hanno stretto un patto col diavolo: non sono invecchiate di un secondo dal momento in cui sono state pubblicate per la prima volta.
Se ci fermiamo ad ascoltare i discorsi e le paturnie messi in pagina da Bretécher, capiamo subito che sono i nostri. E l’imbarazzo che proviamo per quello che dicono si trasforma immediatamente in vergogna per quello che diciamo.
Abbiamo capito che ci toccherà convivere con quei fumetti a lungo e, allora, come facciamo sempre, abbiamo deciso di smettere di interpretarli. Adesso li usiamo. Li indossiamo e proviamo a vedere come ci stanno.
Qualche volta smettiamo di leggere quei muri di parole scritte in corsivo alto basso e, subito, quella grafia diventa «il rumore della realtà» – per usare una locuzione cara a Carlos Sampayo – che riempie l’ambiente. Ci concentriamo, a quel punto, sulle persone che abitano queste case disadorne. Sui loro corpi accasciati sul divano, sulle dita che stringono sigarette che si consumano in fretta, sulle gambe accavallate, sui nasi prominenti, sui capelli sottili, sui seni puntuti… O ancora sul corpo stanco che si rifiuta di entrare in vestiti che solo qualche anno fa mettevano in evidenza forme sottili. O ancora sul mento appoggiato sulla mano e sul gomito che si infigge in un tavolino tra tazzine e posacenere…
E allora capiamo che l’analisi sociale, acuta e spietata, di Claire Bretécher non si riferisce solo ai discorsi vuoti e allo stesso tempo pesanti, alle lamentele e alle delusioni, all’incapacità di decidere e di agire, al rimpianto e all’ingordigia… Quell’assoluto genio del racconto a fumetti ci fa a fette con i suoi disegni e poi ci analizza come fossimo sottili frammenti di tessuto appoggiati sul vetrino del microscopio. E così facendo ci dice una grande verità del fumetto.
I personaggi sono soprattutto corpi. Il fatto che siano disegnati e si muovano sulla carta ci fa credere che siano, di volta in volta, simulacri o feticci. Ma non è così. Il fumetto è sempre una narrazione di corpi.
Quei corpi si muovono sulla pagina e scandiscono il ritmo nel racconto. Non è la sequenza a costruire il fumetto. È proprio il corpo. Indipendentemente dalla tecnica e dallo stile, dagli strumenti e dalla preparazione, dalla bravura e dalla furbizia. Tutti i fumetti sono storie di corpi. Che raccontino di supereroi, animali antropomorfi, eroi, ladri, santi o persone ordinarie. Che siano disegnati da Zerocalcare, Gipi, Sio, Fumettibrutti o Filippo Scòzzari. Tutti.
Abbiamo imparato ad amare i fumetti attraverso i corpi che li abitano. Negli anni ci siamo innamorati di Paperino e Blanche Epiphanie, di Batman e di Barbarella, di Vladek Spiegelman e di Suor Dentona, di Demento e di Arzach, di Blackjack e di Pandora…
I personaggi di Bretécher hanno corpi bellissimi di cui non ci siamo mai innamorati. Non siamo narcisisti e per innamorarci abbiamo bisogno che ci sia un altro. Claire ci ha negato questa possibilità: ha sempre parlato proprio di ognuno di noi. I corpi che mette in pagina sono i nostri.
Buona domenica